L’Italian Sounding Food miete un’altra vittima illustre: il Pomodorino del Piennolo

Il reportage del collega Gaetano Cataldo ai margini di un fenomeno dilagante, che non risparmia neppure il comparto agricolo del Made in Italy.

Da bravi estimatori delle eccellenze della Campania, abbiamo scoperto che per avere contezza del giro di affari attorno all’Italian Sounding, ergo i prodotti farlocchi che imitano il made in Italy, basta ad esempio andare sui canali social, digitare l’hashtag #piennolo e scoprire basiti un mondo di pomodorini gialli e di ogni altro colore, che non sembra certo corrispondere ai canoni di quelli provenienti del Vesuvio. La vera sorpresa, però, arriva dall’esistenza di produzioni di origine europee, scandinave e statunitense, con improbabili dizioni in etichetta, spacciate per il famoso e squisito oro rosso campano.

Se gli organi di controllo non avessero idea di dove andare a pescare i prodotti taroccati, dovrebbero fare semplicemente amicizia con il web per scoprire l’oscuro business sul Pomodorino del Piennolo dop del Vesuvio. La sua origine, il colore, la tecnica del venire appeso per essere degustato anche a distanza di mesi dalla raccolta, è come svuotare il mare con un secchiello.

Parliamo del famoso Pomodorino Pizzutello tradizionalmente coltivato, come indicato nel Disciplinare di Produzione, nei territori dei comuni di Boscoreale, Boscotrecase, Cercola, Ercolano, Massa Di Somma, Ottaviano, Pollena Trocchia, Portici, Sant’Anastasia, San Giorgio a Cremano, San Giuseppe Vesuviano, San Sebastiano al Vesuvio, Somma Vesuviana, Terzigno, Torre Annunziata, Torre del Greco, Trecase, oltre che parte del territorio del comune di Nola, delimitata perimetralmente dalla strada provinciale congiungente Piazzola di Nola al Rione Trieste, per il tratto che va sotto il nome di “Costantinopoli”, dal “Lagno Rosario”, dal limite del comune di Ottaviano e dal limite del comune di Somma Vesuviana.

Nulla di nuovo per i consumatori dell’area napoletana e di tutta la Campania, che da decenni conoscono ed apprezzano le indiscusse proprietà organolettiche del Pomodorino del Piennolo Dop, per non parlare dei tanti italiani che dimostrano un interesse sempre maggiore per la prelibatissima cultivar di Solanum Lycopersicum, il nome tecnico della varietà appartenente alla famiglia delle Solanacee.

Un momento decisamente delicato in cui la tutela dei produttori virtuosi e dei diritti dei consumatori deve poter essere garantita e blindata. Nel pomeriggio di giovedì 29 febbraio si è tenuta la terza edizione di “Piennolo Forum”, organizzata da Agros-Consulenti in Campo presso il Castello di Santa Caterina a Pollena Trocchia. Tema del convegno, come riportato anche da alcuni quotidiani, “frodi e contraffazioni, sfide e opportunità”. Sulla carta stampata si leggeva anche che “si tratta di tematiche che non saranno trattate solo ed esclusivamente come argomenti di soppressione di comportamenti errati, ma verranno letti in un’ottica propositiva, offrendo una veduta su strategia di marketing e comunicazione che possano far trasmettere i propri virtuosismi a quelle aziende rispettose delle regole”. Per quanto si evinca un tono alquanto buonista, il target dell’evento è la trattazione del drammatico fenomemo delle frodi e contraffazioni, per discutere insieme delle possibili soluzioni al problema e leproposte a vantaggio dei produttori virtuosi.

Com’è andata in effetti?

Dopo i saluti istituzionali durante la moderazione di Gianluca Iovine, CEO di Agros, arrivano gli interventi istituzionali e, a seguire, i premi istituzionali di “Patto per il Piennolo”: un riconoscimento all’impegno verso la protezione del patrimonio agricolo vesuviano. Raffaele De Luca, presidente del Parco Nazionale del Vesuvio, Salvatore Loffreda, di Coldiretti Napoli, Cristina Leardi, presidente del Consorzio di Tutela del Pomodorino del Piennolo del Vesuvio, Ciro Giordano, presidente del Consorzio di Tutela dei Vini del Vesuvio, e Gabriele Melluso di Assoutenti, sono stati tra i primi relatori, piuttosto allineati su un corale “frodi come opportunità e non un problema”.

Interessante l’intervento culturale della professoressa Paola Adamo, docente dell’Università Federico II di Napoli al Dipartimento di Agraria riguardante il progetto “tomato trace 4.0” utile ai fini della tracciabilità del prodotto. Ci si è occupati principalmente di tessitura del terreno, fornendo la georeferenziazione di tutta l’area inclusa nella Denominazione di Origine Protetta e delle aziende più rappresentative, con dati completi su quote altimetriche, versanti e natura dei suoli. La disanima ha potuto evidenziare quanto certi parametri abbiano un effetto maggiore rispetto al varietale, insomma il potere del terroir sulla cultivar, ed affrontare la differenza tra ciò che nel pomodorino del Piennolo è potenzialmente biodisponibile da ciò che è prontamente disponibile: una differenziazione fornita in base al modello multi-elementare, un modello capace di distinguere anche un pomodoro dop da un non dop al 100% o quasi.

Per poter ovviare a ciò la professoressa Adamo ha fatto presente che lo studio comparato è stato condotto fornendo ai produttori la varietà Principe Borghese, unitamente alle piante di Acampora, Cozzolino e Zizza di Vacca, ergo gli ecotipi del pomodorino vesuviano. Un lavoro complesso che ha potuto fornire ai produttori informazioni diversificate per terreni Dop e non Dop, grazie alla raccolta dei suoli per caratterizzazione, periodo, ambiente, clima e persino sulle principali varietà e sugli ecotipi, appunto.

Intervento evidentemente anticipato e benedetto dalla necessità di “certificare sempre di più” ed avere “strumenti più trasparenti sul mercato”, quello di Pino Coletti che ha evidenziato vecchi studi noti col nome di eyetracking, il tema della storicità del marchio, oltre che l’ovvia conseguenza dello spaccio di prodotti dop falsi comporti i sequestri e quindi la sfiducia nei brand, quindi di blockchain.

Certo il potenziale della certificazione blockchain è alto e i prodotti veicolati dallo stesso hanno un ottimo trend in fatto di penetrazione di mercato, ma sarebbe stato utile ribadire che si tratta pur sempre di una autocertificazione che il produttore di un bene, fuori da altri usi, può depositare in maniera incontrovertibile, certo, ma che non va a sostituire le certificazioni obbligatorie. Sussisterebbe poi uno strumento legale tale da tutelare i cittadini da una dichiarazione mendace, circa il contenuto, e che sanzioni rischierebbe il produttore che faccia uso distorto della blockchain?

Il discorso di Angelo Marciano, Colonnello dei Carabinieri alla guida del reparto dell’Arma deputato del Parco Nazionale del Vesuvio, ha fornito alcuni dati e spunti interessanti: intanto che l’Italian Sounding ha un valore odierno di 100 miliardi, con un’insospettabile crescita in Russia; il che vorrebbe dire che il falso Made in Italy ha un ottimo giro di affari anche durante l’embargo. <<Ha davvero senso, nel disciplinare, indicare i 250 quintali massimo per ettaro di resa, a fronte dei precedenti 150 che una produzione normale non riesce comunque ad esprimere?>>, ha chiesto al pubblico il Colonnello. Il militare ha proseguito dicendo che è importante evitare la perdita di suolo fertile, come accaduto dopo l’incendio sul Vesuvio del 2017, e che <<il rispetto della legalità non uccide l’economia, ma la salva>>.

A seguire Nicola Caputo, Assessore Regionale alle Politiche Agricole e Forestali della Regione Campania, ha richiamato tutti i presenti sulla necessità di una “Dop Economy campana” con aumento degli investimenti, in virtù del numero esiguo di aziende agricole e della bassa produzione. Caputo ha in pratica richiesto una migliore messa a sistema, facendo team work, per tutti i 18 comuni inclusi nel disciplinare, includendo possibilmente altri distretti agronomici, come quello della mela annurca e del pomodoro San Marzano, per un vicendevole sostegno. C’è bisogno di fare gioco di squadra con gli addetti alla ristorazione e trovare sinergie con gli operatori del turismo e dell’accoglienza, per un marketing ed una comunicazione più funzionali.

Al termine dei lavori l’intervento di Davide Parisi, amministratore delegato di Evja, azienda performante nella tecnologia e nell’intelligenza artificiale dedicate all’agricoltura: la sua realtà imprenditoriale ha saputo raccogliere oltre 150 milioni di dati microclimatici in tutto il mondo, grazie a dispositivi che raccolgono informazioni in tempo reale, fornenti anche elementi di geo-localizzazione. Nel discorso si è espresso che l‘esperienza sul campo non potrà mai essere sostituita dall’IA (Intelligenza Artificiale), ma che la stessa dovrà essere supportata per la misurazione dei parametri principali e la memoria dei raccolti, in correlazione tra sonde, stazioni meteorologiche e satelliti.

Presente in sala anche Pasquale Imperato, uno degli animi vesuviani che più fortemente ha voluto tutelare il pomodorino del Piennolo e che ha preteso venisse ancorato alla terra e quindi metterlo nelle mani degli agricoltori, per una maggiore tutela del bene orticolo, diversamente dal pomodoro San Marzano che vede invece la tutela del solo prodotto trasformato. Imperato, oggi fuori dal Consorzio per una scelta di coerenza, continua a produrre con immancabile passione il buonissimo pomodorino e si dice fiducioso circa le modifiche sui criteri per i disciplinari apportati dal Parlamento Europeo.

Per quanto gran parte degli interventi siano stati quantomeno generalisti, va riconosciuta l’importanza di alcuni interventi tecnici e di alcune considerazioni che si sono distaccate da un dibattito decisamente fuori dal titolo che si è voluto dare alla manifestazione: è grazie al pomodorino del Piennolo se il Vesuvio non è “caduto” addosso al territorio di cui è progenitore e custode, costituendo il motivo per cui l’agricoltura è tornata alle pendici del vulcano, favorendo migliorie a partire dal semplice ripristino dei muretti a secco, ai campi coltivati con tante altre varietà orticole ed ai vigneti, grazie a cui si contrasta quotidianamente il dissesto idrogeologico e la disgregazione delle comunità rurali. Per poter avviare un’attività ed ottenere dei permessi, chiedere il parere ad enti di varia natura, talvolta ci si imbatte in lungaggini farraginose, punitive, superflue e limitanti. Così come è troppo frequente che i moduli di denuncia anonima delle frodi, eccellente strumento per contrastare gli illeciti e superare il muro dell’omertà, restino inutilizzati. Fatto sta che si è sentita la nostalgia di una disanima concisa sul nocciolo della questione, a causa di un costante ruotarvi attorno con discorsi certo importanti, ma sin troppo periferici.

Va altresì considerato che nel corso degli anni la forza lavoro deputata ai controlli è stata più che dimezzata, per non parlare della soppressione del Corpo Forestale dello Stato, entrambi sintomo di una evidente impossibilità a ricoprire qualsiasi territorio per qualsivoglia verifica finalizzata a scoraggiare i brogli. Con l’attuale ammanco di personale, chi potrà eseguire i necessari controlli di conformità? E non sarebbe il caso di chiedersi se sia opportuno istituire dei panel test di modo che assaggiatori competenti canonizzino le proprietà organolettiche dell’oro rosso vesuviano? E, perché no, immaginare se si possano qualificare controlli in base ai rapporti isotopici che si generano peculiarmente ogni anno nella relazione tra il suolo ed il prodotto stesso?

Ai posteri l’ardua sentenza.

“Salutateli!” – La noce e l’arancio biondo della Penisola Sorrentina rischiano di scomparire per sempre nel silenzio

Dei giardini di aranci a Sorrento e del loro profumo ne parla una delle più celebri arie della canzone napoletana, “Torna a Surriento”, testimone del fatto che non solo erano presenti e rigogliosi già alla fine dell’800, ma che erano talmente radicati nell’immaginario collettivo da costituire un ricordo indelebile per chi partiva dopo un breve periodo di soggiorno. La coltivazione dell’arancio biondo in Penisola Sorrentina è attestata sin dal 1300: si tratta di un frutto dal gusto straordinario, molto riconoscibile, il cui succo è piacevole ed equilibrato.

Anche la noce appartiene alla cultura del territorio da tempo immemore, basti pensare che negli scavi di Villa Regina a Pompei è presente un calco di noce della stessa tipologia ancora esistente in Penisola Sorrentina, quello della cultivar Sorrento e coltivato secondo il metodo tradizionale. La peculiarità delle noci della Penisola Sorrentina risiede nelle specifiche caratteristiche organolettiche, determinate dal microclima di questa lingua di terra collinare distesa sul mare: dolci e aromatiche al palato, non presentano il retrogusto amaricante tipico della noce neanche quando vengono gustate fresche. Entrambi prodotti tipici che hanno scritto la storia, le tradizioni gastronomiche di un territorio e ne caratterizzano il paesaggio: due prodotti che rischiano l’estinzione perché minacciati dall’agricoltura industriale.

Slowfood e in particolare la Condotta Costiera Sorrentina e Capri cercano di tutelarne l’integrità attraverso la costituzione di presidii, comunità e l’organizzazione di eventi che ne favoriscano la conoscenza tra i consumatori. <<I Presidii sono delle Comunità>> spiega Pier Luigi D’Apuzzo, fiduciario della Condotta <<la cui costituzione avviene attraverso la sottoscrizione da parte di tutti i produttori di una dichiarazione fondativa che ne definisce gli obiettivi>>.

Uno degli obiettivi principali è chiaramente quello di salvare le biodiversità, tutelare gli ecosistemi e le risorse naturali di un determinato territorio. Fino al secolo scorso, la coltivazione della noce costituiva la principale fonte di reddito degli agricoltori della Penisola Sorrentina. Era considerata pregiata, tanto da essere quotata alla Borsa di Napoli, ricercata dai mediatori di tutta Italia ed esportata negli Stati Uniti.

L’albero raggiunge un’altezza compresa tra i 25 e i 30 metri e diventa produttivo a dieci anni dalla messa a dimora. La resa media di noci secche per pianta adulta nel pieno della sua produzione (ed in condizioni ottimali) è stimata in circa 25 – 30 Kg, come da Disciplinare. La raccolta tradizionale avviene tramite bacchiatura: i rami vengono colpiti con lunghe pertiche di legno di castagno da terra o arrampicandosi per arrivare a colpire le propaggini più alte. Successivamente alla smallatura, segue un periodo di essiccazione al sole, variabile da una settimana fino a tre, a seconda delle condizioni climatiche. Le caratteristiche della pianta e della sua coltivazione, unite a quelle geomorfologiche del territorio che non consentono la meccanizzazione, sono le motivazioni che hanno portato, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso,  al progressivo abbandono di questa coltivazione. Le varietà internazionali più fruttifere e di più facile gestione agronomica hanno poi nel tempo soppiantato sui mercati la noce proveniente dalla Penisola Sorrentina.

È ancora vivo, nella memoria delle persone più anziane, il ricordo del rumore secco procurato dalle pertiche che “bacchiavano” i rami dei noci: tac, tac, tac un suono cadenzato e secco, un richiamo che correva da un versante all’altro delle colline e rimbombava nel silenzio dell’autunno. Un rumore che oggi è possibile sentire solo nei pochi giardini che ancora conservano la tradizione di questa coltivazione. Il Presidio noce della Penisola Sorrentina è nato nel giugno 2018 e oggi conta una decina di produttori che hanno sottoscritto il disciplinare, in cui leggiamo che “secondo stime fatte con l’aiuto dei coltivatori, attualmente la produzione dovrebbe essere di circa 150 tonnellate”.

Stima da considerare al ribasso per gli anni successivi al 2018 visto che nel frattempo, causa i cambiamenti climatici in corso, il noce è stato soggetto a diversi infestanti e parassiti, che, nel 2022,  hanno compromesso buona parte del raccolto. Tra le iniziative promosse da Slowfood e dal presidio, ci sono i periodici laboratori del gusto, organizzati come sessioni di degustazione comparativa tra la noce coltivata in Penisola Sorrentina, quella della stessa qualità coltivata fuori dal territorio del presidio e le varietà internazionali più facilmente reperibili.

Leggermente diversa la situazione dell’arancio biondo, ancora presente nei giardini sorrentini, ma sempre meno conosciuto e apprezzato anche a livello locale. Il problema sono i semini presenti all’interno della polpa, per cui, a tavola, la preferenza dei consumatori ricade su altre varietà. Nonostante l’altissima resa dell’arancio sorrentino in termini di succo, la stagionalità del prodotto molto lunga (la raccolta parte a dicembre e si spinge fino a maggio) e il suo sapore particolarmente dolce, la difesa di questo prodotto è affidata ai rari produttori che ne curano ancora la coltivazione e al mercato esclusivamente locale.

<<Da anni stiamo lavorando per salvaguardare, tutelare e recuperare eccellenze dimenticate della penisola sorrentina come l’arancio biondo sorrentino>> spiega sempre Pierluigi D’Apuzzo. <<Importanti le iniziative per i più piccoli – tra le quali ricordiamo lo spremuta day che realizziamo ogni anno dal 2017 all’interno del parco di Villa Fiorentino (a Sorrento ndr) oltre che negli agrumeti, nelle scuole e nelle piazze di Piano di Sorrento, Massa Lubrense e Sant’Agnello. Questa è una delle iniziative che meglio incarna le idee di lotta allo spreco alimentare e riduzione degli scarti, vede ospiti gli alunni delle scuole primarie ed ha lo scopo di promuovere la conoscenza ed il consumo delle arance sorrentine sotto forma di succo, esaltandone le caratteristiche nutrizionali e le proprietà benefiche attraverso un percorso ludico-educativo pensato ad hoc per i più piccini che va dall’assaggio guidato, al gioco, al riconoscimento delle etichette. La difesa della salute, degli ambienti paesaggistici e delle piccole economie locali si realizza a tavola, educando il gusto dei più piccoli, imprimendo indelebilmente nella loro memoria sensoriale i sapori del territorio>>.

L’arancio biondo non è un presidio, ma è registrato nell’Arca del Gusto Slowfood, iniziativa che raccoglie i prodotti appartenenti alla cultura, alla storia e alle tradizione di tutto il pianeta, denunciando il rischio che possano scomparire.

<<È  però possibile che  anche i piccoli produttori delle arance della qualità biondo sorrentino si incontrino e si aggreghino per tutelare non solo un prodotto dalle qualità eccezionali ma anche per salvaguardare un paesaggio caratterizzante la penisola sorrentina: ovvero i famosi giardini sorrentini costituiti da alberi di arancio biondo sorrentino e limoni di Sorrento>> conclude D’Apuzzo.

Una delle ultime iniziative in ordine cronologico organizzate per favorire la conoscenza di questi prodotti, è stata la serata dello scorso 8 Marzo presso Antonino Esposito Pizza & Cucina – ristorante alla Marina Piccola di Sorrento segnalato nella Guida Osterie Slowfood. In occasione della serata dedicata all’abbinamento pizza vino, lo chef Esposito ha creato due pizze utilizzando noce e arancio biondo sorrentino: la pizza Sorrento con treccia sorrentina, limoni di Sorrento IGP, scaglie di Provolone del Monaco DOP, fiocchi di ricotta di fuscella e all’uscita noci della Penisola Sorrentina, la pizza con arancia bionda sorrentina, treccia sorrentina, scaglie di cioccolato fondente e arancia. Un’occasione unica per riportare l’attenzione dei consumatori su due prodotti della tradizione, rivisitati per assecondare il gusto moderno della pizza in abbinamento al vino.

Valpolicella: presentato il progetto Vallate

Approfondimento su Wine in Venice 2024 a cura del Consorzio per la Tutela Vini Valpolicella 

L’evento Wine in Venice ha offerto un’esperienza indimenticabile ai partecipanti, grazie alle numerose attività, tra cui talk e masterclass. Ne abbiamo parlato al seguente link Wine in Venice 2024. Tra queste, la degustazione dedicata al Consorzio per la Tutela Vini Valpolicella, con la gradita presenza, tra gli altri, del Master of Wine Gabriele Gorelli.

da sinistra il Master of Wine Gabriele Gorelli e l’autore di 20Italie Alberto Chiarenza

Benvenuti nella suggestiva Valpolicella, un gioiello incastonato tra la maestosità della Val d’Adige, la pittoresca Lessinia e le acque scintillanti del Lago di Garda. Un territorio che si estende nella parte settentrionale della provincia di Verona ed è caratterizzato da tre Vallate, ognuna contenente il nome del fiume che la attraversa: Negrar, Marano e Fumane.

Già nell’epoca dell’antica Roma, la Valpolicella era rinomata per la sua vocazione vitivinicola; oggi è tornata allo splendore di un tempo grazie ai vitigni autoctoni come Corvina, Corvinone e Rondinella che formano il blend dell’Amarone della Valpolicella. L’Amarone è un’eccellenza riconosciuta in tutto il mondo, un vino rosso corposo e avvolgente, caratterizzato da una complessità aromatica unica che si sviluppa grazie al processo di appassimento delle uve. Questa tecnica, tramandata da generazioni, consiste nel lasciare appassire le uve dopo la vendemmia, concentrando zuccheri, aromi e struttura che conferiscono al vino una personalità straordinaria. Oltre all’Amarone si producono una vasta gamma di vini di alta qualità, dai freschi e fruttati Valpolicella Classico al raffinati passito Recioto della Valpolicella.

La sorpresa è stata l’annuncio della prossima introduzione delle UGA (Unità Geografiche Aggiuntive) per la Valpolicella, che porteranno il nome di “Vallate”. Una nuova denominazione aggiuntiva, per un areale di circa 8585 ettari, che offre ai produttori la possibilità di valorizzare al meglio le caratteristiche uniche dei loro vigneti, grazie alla varietà dei suoli e microclimi presenti. Un’eccellenza del Made in Italy che trova riscontro anche nei dati, con cifre da capogiro per un volume d’affari annuo pari a 600 milioni di euro ,con il 61% della produzione esportato in 87 nazioni. Una produzione di 73,6 milioni di bottiglie di cui il 47% è rappresentato dal Ripasso DOC, il 27% dal Valpolicella DOC e il 26% dall’Amarone della Valpolicella DOCG. Fanno parte del Consorzio 2251 viticoltori, 6 Cantine Sociali e 344 imbottigliatori.

L’entusiasmo e l’interesse suscitati dalla masterclass dei vini della Valpolicella durante Wine in Venice confermano il prestigio e il fascino di questa regione vinicola, che continua a stupire e conquistare gli amanti del buon vino in tutto il mondo.

Ecco i vini in degustazione

  • Azienda agricola Roccolo Callisto – Con i suoi 23 ettari di terreno di cui 11 dedicati alla vite, l’Azienda Roccolo Callisto si afferma come punto di riferimento nel panorama enologico locale. Il Valpolicella Superiore DOC 2021, con i suoi 13,5 gradi, è un’elegante espressione caratterizzata da note speziate, pepe bianco, ciliegia e fiori. Un vino equilibrato e ampio, meritevole dei suoi 92 punti.
  • Cantina Buglioni (S. Pietro in Cariano) – Altrettanto degno di nota è il Valpolicella Classico Superiore “44 Verticale” 2020 della Cantina Buglioni. Equilibrio e persistenza invidiabili, si conferma un punto di riferimento nella produzione locale, ottenendo anch’esso 92 punti.
  • Cantina Bronzato – Non tutte le produzioni raggiungono gli stessi standard di eccellenza. Il Valpolicella Superiore DOC 2020 della Cantina Bronzato, purtroppo, risulta leggermente chiuso nei sentori, con un inizio di evoluzione anche dopo il cambio della bottiglia. Si attesta ad 87 punti.
  • Cantina Massimago (Mezzane) – Una cantina all’avanguardia e autosostenibile, Massimago stupisce con il Valpolicella DOC Superiore “PROFASIO” 2020, vino elegante, ampio e avvolgente che conquista ben 95 punti.

  • Santi (Illasi) – Il Valpolicella DOC Superiore “Ventale” 2020 di Santi con le sue note di frutta lunga e fresca, si fa apprezzare ottenendo 91 punti.
  • Torre di Terzolan – il Valpolicella Superiore DOC 2019 di Torre di Terzolan, non convince appieno. Nonostante il processo di appassimento delle uve forse eccessivo, il vino sembra non godere di un bilanciamento non ottimale, ottenendo 87 punti.
  • Azienda Agricola Clementi – sulla scia del precedente assaggio, il Valpolicella Classico Superiore 2019 non supera gli 85 punti.
  • Vicentini Agostino – stupisce con il Valpolicella DOC Superiore Palazzo di Campiano 2018, caratterizzato da ottima freschezza, sebbene a scapito del corpo, meritando comunque 90 punti.

La Valpolicella continua a essere un’oasi di eccellenza enologica, con cantine che producono vini di altissima qualità e carattere, anche se non mancano le sfide da affrontare per mantenere gli standard elevati in funzione delle mutate esigenze del mercato.

Birrificio Serrocroce: la filiera agricola ha inizio dalle acque del territorio

Vito e Carmela Pagnotta hanno gli ingredienti giusti per produrre una birra di alta qualità. Ma la qualità dal Birrificio Serrocroce a Monteverde (AV), nel cuore dell’Irpinia, non può prescindere dal concetto di artigianalità e di filiera agricola.

Guardando le pubblicità e le comunicazioni spicciole del marketing, sembra ormai tutto “artigianale”; ma cosa significa davvero un termine abusato spesso per meri fini commerciali? Da Vito la risposta è semplice: non creare birre in base alla moda ed ai gusti del momento, senza grandi quantità stereotipate e mantenendo, invece, un sapore genuino in ogni aspetto della degustazione.

Ciò è possibile solo grazie ad una filiera agricola controllata, a “metro zero”, da coltivatore cerealicolo, di luppolo Cascade e di spezie come il coriandolo. Elementi fondamentali nel rapporto di proporzioni stabilito ancora dall’Editto della Purezza del sedicesimo secolo. Manca all’appello un componente indispensabile, che segna il passo tra Uomo e Natura. Un legame profondo con il territorio d’appartenenza, non replicabile in serie: l’acqua.

Serrocroce si approvvigiona dalle riserve idriche delle sorgenti di Caposele, tramite l’acquedotto pugliese. Ma il sogno di Pagnotta è un altro: quello di poter fruire dell’acqua potabile presente nei pozzi attigui al birrificio, ad 80 metri di profondità. Acque dure, ricche di sali minerali che donano carattere e consistenza all’assaggio. D’altro canto il panorama ancora selvaggio e aspro è esso stesso un valore aggiunto per chi si trova a visitare le sue verdi terre, a 740 metri d’altezza, nel territorio di Monteverde, precisamente ai piedi del Serro della Croce, il più alto dei colli che dominano la Valle dell’Osento.

Sei le versioni ideate, dalla classica Blonde Ale all’Ambrata, per finire con le Saison (una da grano Senatore Cappelli coltivato in fattoria) ed una gustosa Apa con quel tocco amaricante dato dai luppoli selezionati. E per non dimenticare il luogo natio della famiglia, una birra venduta unicamente a Monteverde, dedicata all’infaticabile lavoro dei propri contadini che salvaguarda un intero comparto economico, evitando lo spopolamento delle campagne.

Molte, infine, le iniziative gastronomiche: dalla composta di birra, alla panificazione, ai taralli e chissà, in futuro potrebbe essere il turno di un piccolo pastificio sempre con le farine locali. Di progetti in pentola ce ne sono tanti, ma quello più importante è tra le pagine non scritte della storia e parla di sacrificio, forza di volontà e resilienza. Un amore per la terra che può capire solo chi, con la terra, si sporca le mani ogni giorno.

A Cosenza il ristorante Simposio – Mare e Vini guarda al futuro con un occhio alla solidarietà

Nel cuore della città di Cosenza, esiste un luogo dove tre coraggiosi temerari sfidano quotidianamente le tendenze di mercato, proponendo un’alternativa di alto livello alla tradizionale cucina calabrese a base di carne. Questo luogo è il “Simposio – Mare e Vini”, un ambiente elegante orientato alla cucina di mare rivisitata, gourmet per la classe, ma con porzioni vicine alla tradizione. Il progetto nasce da tre sognatori appassionati, ma faticatori: Lo chef Ivan Carelli, il sommelier Francesco Gardi ed Ernesto Maletta supervisore di sala.

La cucina a vista

Il perno si appoggia su alcuni cardini fondamentali: lo show cooking che vede una cucina a vista, completamente aperta, con due coperti al banco di lavoro dello chef per chi vuole assistere in prima fila alle preparazioni e seguire le dettagliate spiegazioni; l’acquacoltura con una ricca selezione del pescato sempre fresco. Infine la cantina con oltre 200 etichette, gestita da Francesco con grande professionalità e attenzione. Inoltre, nel tardo pomeriggio “Simposio – Mare e Vini” apre agli aperitivi friendly con bollicine, coccole salate e cocktail alla moda.

La chiave di lettura di questo ristorante è l’impiego di materie prime di grande qualità e la cura di ogni dettaglio: dall’accoglienza del cliente, alla cura della sala; dal sottofondo musicale, alla presentazione dei piatti; dalla bontà dei cibi al sorso dei vini. Il team propone un servizio attento come in un’orchestra in cui ogni musicista suona il proprio strumento in una meravigliosa melodia.

Per iniziare, ecco un doppio stuzzichino come entrée composto da alice fritta con salsa maionese e caviale verde e da salsicce di tonno su frittatina alle erbe.

Le tre proposte firmate dal giovanissimo e talentuoso aiuto chef Cristiano Candido

  • I Maccabuoni (e la solidarietà è di casa Simposio)

La pasta cosentina preparata dalle abili mani di giovani ragazzi speciali. Un progetto realizzato in collaborazione con l’associazione “la Terra di Piero”. I Maccabuoni sono cucinati in ragù di totano, con gocce di burrata e croccante pistacchio.

  • Fritto esagerato:

Gamberoni Imperiali croccanti con pan ai 3 elementi, polpo dorato in tempura di Parmigiano 24 mesi, e varietà di paranza dorata abbinata a salsa di Maionese Nipponica, Salicornia e BBQ all’albicocca.

Una frittura squisita, leggera, con la sensazione del mare che accompagna delicatamente la degustazione. Per i soggetti allergici ai crostacei viene proposta la variante con fiore di zucca ripieno al baccalà.

  • Evoluzione

Un dolce realizzato in occasione della visita del Maestro pasticciere Iginio Massari. Composto al piatto sul momento, si articola di una sequenza precisa: piccoli coni di una namelaka ai fichi disposti circolarmente; al centro crema di noci, tra gli spazi conici una gelatina d’arancia e, sulla sommità, ghiaccia reale per pulire il palato e gelato artigianale all’alloro. Tocco finale una pioggia di miele di fichi.

L’intero pasto è stato accompagnato da due interessanti vini della regione: il silano Chione della cantina Immacolata Pedace (Chardonnay e Pinot Bianco -IGT Calabria – 2022), i cui vitigni, coltivati tra i più alti d’Europa a 1350 metri, si esprimono con spiccato carattere. Infine, lo straordinario e longevo Efeso di Librandi da uve Mantonico  (IGT Calabria – 2014). Al dolce il Liqueur Poire Williams & Cognac di François Peyrot.

Un percorso gustativo creativo, moderno e innovativo, basato su emozioni e sensazioni di vita vissuta.

Presentazione del primo VSQ Metodo Classico” Sheep” Extra Dry da coda di pecora della cantina Il Verro

Il Verro: da ‘U Verru, come localmente è chiamato il maschio del cinghiale, è l’azienda vitivinicola nata nel 2003 dal desiderio comune di cinque amici, oggi di proprietà di uno solo di loro, l’ingegnere Cesare Avenia. Situata nel comune di Formicola (CE), in una conca naturale tra i Monti Maggiore e Viggiano, con i suoi cinque ettari vitati produce circa 30.000 bottiglie annue da soli vitigni autoctoni in purezza. Era l’ottobre del 2017, in occasione di una loro “cantine aperte”, quando ho fatto loro visita per la prima volta ed ho avuto il piacere di conoscere Cesare e la consorte Bice De Pandis.

In quella splendida giornata di inizio autunno, abbiamo passato un bellissimo pomeriggio, interessante e rilassante. Cesare era all’inizio di un percorso fino ad allora a lui sconosciuto, ma da come gli brillavano gli occhi parlandoci di viti e di vino, capii che l’uomo tutto d’un pezzo, con una storia professionale importante nel mondo delle telecomunicazioni, avrebbe fatto grandi cose anche nella veste di produttore.

Ed arriviamo allo scorso 15 febbraio, nei locali della storica Hostaria Massa di Caserta, ritrovando Cesare con accanto la sua signora e negli suoi occhi la stessa luce di allora. L’occasione è stata quella di una serata molto “easy”, con amici che conoscono la storia, seduti attorno ad un tavolo per condividere la realizzazione di un sogno: il suo primo VSQ Metodo Classico dall’autoctono vitigno Coda di Pecora, lo “Sheep Extra Dry”, e per l’occasione, abbiamo assaggiato anche due vinificazioni sperimentali di Pallagrello Bianco e Pallagrello Nero. <<Ogni arrivo è comunque una partenza, una main stone>> dichiara Avenia.

Un team di collaboratori e comunicatori di altissimo livello siedono al suo fianco: l’amica e giornalista enogastronomica Antonella Amodio, l’enologo Vincenzo Mercurio e il microbiologo Giancarlo Moschetti che prende per primo la parola, Ordinario di Microbiologia Agraria e Presidente del Corso di Laurea in Viticoltura ed Enologia dell’Università di Palermo, per raccontarci il faticoso studio svolto sul DNA del Coda di Pecora, grazie anche alla collaborazione dell’ampelografa Antonella Monaco. Nel 2023 si è riusciti finalmente a farlo inserire con il numero 954 nel “Registro Nazionale delle Varietà di Vite” autorizzate alla produzione di vini. Tale vitigno, dopo anni di confusione con la Coda di Volpe, finalmente ha una sua identità che fin dai primi suoi assaggi smentiva qualsiasi legame con essa, sia per profumi che percezione gustativa.

Moschetti ci ha poi parlato del loro “Metodo Memo”, un modo per ritornare alle fermentazioni prima del 1980, quando i coadiuvanti erano vietati. Un lavoro in vigna per isolare un lievito aziendale, perché il territorio de “Il Verro” è un ambiente ricco di biodiversità: 36 specie di uccelli che nidificano, 405 specie di serpenti stanziali, istrici, lupi, api e vespe, tutti attori fondamentali per lo sviluppo dei lieviti in vigna. In laboratorio li hanno isolati e chiamati stagionali, visto l’apporto indispensabile della fauna nel diffonderli. I lieviti stagionali interagiranno, poi, con altri di cantina durante le fermentazioni spontanee.

La degustazione

Si è iniziato con due vini considerati sperimentali, da Pallagrello Bianco e Pallagrello Nero vendemmia 2019, imbottigliata in magnum. Nati con la collaborazione dell’Università di Palermo e della società di consulenza enologica “Le Ali di Mercurio”, queste bottiglie non sono in commercio e Cesare preferisce chiamarle piuttosto “le mie Riserve”, entrambe provenienti da un’annata eccellent durante la quale si è potuto iniziare l’uso dei lieviti stagionali.

Pallagrello Bianco Sperimentale 2019

L’enologo Vincenzo Mercurio ci prepara ad un vino dall’accattivante veste dorata, che si impadronisce subito della scena. Un vino dalla funzione esplorativa, a differenza delle vinificazioni che normalmente vengono imbottigliate verso maggio-giugno successivi alla vendemmia.

Gradevole intensità di profumi, dove le affumicature unite a pietra focaia anticipano un erbaceo di macchia mediterranea; non mancano il fruttato ed il floreale. Bocca proporzionata, con morbidezza in equilibrio ed a supporto delle freschezze, in un sorso da ripetere. Leggera astringenza da tè verde e lunga scia sapida finale. Un vino dalle grandi potenzialità evolutive.

Un Pallagrello Bianco da evoluzione, in grado di reggere l’affinamento in vetro fino e oltre dieci anni. Bisogna fare un po’ di sana autocritica, per riuscire finalmente a comunicare nel modo giusto che i bianchi non vanno bevuti solo d’annata.

Pallagrello Nero Sperimentale 2019

A questo vino non sono stati aggiunti solfiti e a detta di Vincenzo Mercurio, è un vino più estremo del Pallagrello Bianco, con fermentazione 100% spontanea. Inizialmente rustico, tramite il contatto con l’aria, si ingentilisce, dimostrando un naso da frutta (amarene) ancora croccante, tocchi di sottobosco e bocca succosa, fresca e sapida, dal finale leggermente amaricante. Un vino ancora in cerca della sua identità.

VSQ Metodo ClassicoSheep” Extra Dry

Da un ettaro e mezzo di Coda di Pecora, si producono appena 1.300 bottiglie di spumante e circa 3.000 di bianco fermo. Per non snaturare quelle che sono le caratteristiche del vitigno si è anticipata la raccolta per la spumantistica.

Affinamento sui lieviti di trenta mesi, anche se si punta a prolungarlo a sessanta mesi. Si intuisce che abbiamo difronte uno spumante evoluto, le bollicine sono fini e carezzevoli, manca però di quella leggera astringenza che ha lo Sheep fermo; il naso è molto fruttato, con richiami marini di conchiglie d’ostrica.

Anche noi continuiamo ad imparare, bevendo i vini delle persone che conosciamo. Grazie Cesare Avenia.

Bolgheri e Montalcino: i volti vincenti della Toscana nel mondo

Bolgheri e Montalcino: due volti di un’unica regione, si sono uniti per una sera a mostrare il filo rosso che li unisce: la capacità dei propri protagonisti di portare la Toscana in giro per il mondo. Location dell’evento il ristorante C’è posto per te a Castellammare di Stabia, che, nella consueta formula mensile ideata dal patron Pasquale Esposito, ha proposto una serata a tutta Toscana, non solo nei vini ma anche nei piatti eseguiti dalla resident chef Angela Esposito.

La conduzione di Luca Matarazzo, direttore della testata 20Italie e relatore AIS esperto di Toscana, ha accompagnato l’evento: partendo dall’assunto che bere è un atto d’amore, Luca ci ha portato alla scoperta di luoghi e personaggi di due territori iconici, permettendoci di riconoscerli nel bicchiere.

Iniziamo il racconto da Bolgheri, territorio rinomato e riconosciuto a livello internazionale, ma fino agli anni quaranta del secolo scorso zona paludosa di recente bonifica. Il Marchese Mario Incisa della Rocchetta, riconobbe qualcosa che gli ricordava la Graves bordolese. Impiantò Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc e diede vita al vino bolgherese più noto, il Sassicaia. Un vino fatto in garage, amava scherzosamente definirlo, ma che ha fatto la storia dei grandi Supertascans, grazie all’enologo Giacomo Tachis proposto dal cugino Antinori.

Bolgheri è strettamente legata ai vitigni cosiddetti internazionali, che, per tipologia di terreni ed esposizione, trovano qui un habitat vocato. Vicino al mare (ma non troppo), è presente un paesaggio a mo’ di gradoni, tra le terre più antiche della Toscana, di circa un milione di anni. Si parte dalle colline metallifere e si arriva fino a terreni argillosi, molto simili al flysch cilentano, che donano sapidità e verticalità al vino. Un anfiteatro naturale all’interno del quale sono stati individuati ventisette tipi di terreni diversi, con diverse caratteristiche nei prodotti.

Il primo dei vini in degustazione, Noi 4 Bolgheri doc 2020 di Tenuta Sette Cieli, è il classico taglio bordolese da Cabernet Sauvignon, Merlot, Petit Verdot e Cabernet Franc impiantati a 400 metri d’altitudine. Nel calice sembra di sentire il soffio del mare, tra note officinali, speziate e mentolate che caratterizzano una bocca giovane e scattante.

Il Piastraia 2019 Bolgheri Superiore doc di Michele Satta, ottenuto da Cabernet Sauvignon, Merlot e Sangiovese prevede, invece, l’inserimento della varietà dominante in regione. La Famiglia Satta oltre a lavorare in questo territorio le quattro uve bordolesi, è meritevole di aver sperimentato anche il Syrah, il Teroldego e aver riportato in auge il Sangiovese stesso, quando la maggior parte dei vignaioli lo stava espiantando. Giacomo Satta, figlio di Michele, racconta la storia di una realtà vinicola da chi la vive nel quotidiano ed è emozionante cogliere quei piccoli particolari che sembra poi rivedere al sorso. Michele Satta, lombardo con origini sarde, adottato professionalmente a Bolgheri, si trasferisce sulla costa toscana negli anni Settanta del secolo scorso. Non sa nulla di vigna e vinificazione e quando decide di mettersi in proprio nel 1983, sceglie di fare vino perché a quei tempi i terreni coltivati a vigna costavano meno di qualsiasi altro tipo di terreno. Gli stessi momenti in cui Ludovico Antinori fonda Ornellaia, Piermario Meletti Cavallari Podere Grattamacco e, poco dopo, Eugenio Campolmi con Le Macchiole.

“Mio padre si introduce casualmente in una storia di vino, e lo racconta sempre per sottolineare come nella vita accadono cose speciali, da cui non si sfugge”. Il Piastraia 2019 è scuro e impenetrabile. All’inizio, necessita di tempo per rivelare la sua pienezza, ma al contempo riflette l’annata di cui è figlio: equilibrata per clima, piogge ed escursioni termiche. Un vino materico che ci parla di affetto per il territorio.

In abbinamento ai primi due vini, l’Antipasto Toscano con Finocchiona, bis di pecorini, pappa al pomodoro, fagioli all’uccelletto e bombetta al formaggio. Con i fusilli al ferretto al ragù di cinghiale, approdiamo nel secondo dei territori in esplorazione: Montalcino.

La nascita del Brunello di Montalcino è inscindibile dalla famiglia Biondi Santi, in particolare da Clemente, che nel 1820 iniziò a coltivare Sangiovese Grosso in un territorio dove si produceva prevalentemente Moscato Bianco nella tipologia dolce “Moscadello”. Il successo di questo vino è poi dovuto, come per Bolgheri, a giovani imprenditori che hanno creduto nelle potenzialità del territorio. In primis i fratelli Mariani che, coadiuvati dall’enologo Ezio Rivella, hanno dato vita all’azienda che ha portato il nome del Brunello di Montalcino prima negli Stati Uniti: Banfi.

Il primo Brunello di Montalcino in degustazione è Fattoi 2018.

Fattoi è un Brunello “tradizionalista”: prevede l’invecchiamento in botti di rovere da 40 Hl. Legno grande quindi, che mantiene integro il frutto del sangiovese, ancora pienamente godibile in questo bicchiere.

Caprili Brunello di Montalcino docg 2018 dell’Azienda Agricola Caprili è il secondo vino dell’areale. Anche questa una storia di famiglia riscattata dalla mezzadria; anche questo può considerarsi di fatto un Brunello tradizionalista che affina in botte grande. Al naso il frutto fragrante del sangiovese è controbilanciato da arancia essiccata, viola appassita, incenso. Il sorso è carezzevole grazie al tannino finissimo ma presente e risulta spiccatamente saporito. Sia Fattoi che Caprili si trovano su territori esposti ad ovest, un tempo più freschi, ma oggi, col cambiamento climatico in atto, espressione di un sangiovese equilibrato. I terreni prevalentemente argillosi danno nerbo e struttura al tannino. Esattamente ciò che sentiamo al sorso.

Il Peposo dell’Impruneta ci porta nella tradizione più autentica della cucina di Firenze, con uno stracotto che ha origini nel Medioevo e  deve il suo nome all’utilizzo abbondante di pepe in grani durante la cottura nei corposi vini toscani. La chef Angela lo propone insieme ad un piatto della tradizione campana, salsiccia e friarielli, per sperimentare un abbinamento non propriamente regionale – ma perfettamente riuscito – con i vini in degustazione.

Non ci spostiamo da Montalcino, degustando la superstar del 2023, il miglior vino del mondo, come lo ha definito Wine Spectator: Argiano Brunello di Montalcino docg 2018. Un vino italiano, toscano, salito sul podio a portare il vessillo del Made in Italy, cosa fino a qualche decennio fa impensabile.

Fine al naso, dai sentori di un frutto carnoso, e dal palato declinato su scie balsamiche, colpisce per l’equilibrio tra eleganza e potenza. Il sipario si chiude a Bolgheri con due pezzi autentici cavalli di razza.

Partiamo da Ornellaia L’essenza 2014 Bolgheri Doc Superiore, frutto di un’annata impegnativa che si esprime nel bicchiere comunque ad alti  livelli. La 2014 è composta nel blend bordolese con le seguenti proporzioni: 34% Cabernet Sauvignon, 32% Merlot, 20% Petit Verdot, 14% Cabernet Franc. Il naso è un pot-pourri di petali essiccati, spezia e salamoia. Il sorso è pieno, rotondo, con richiami di cioccolato ed una nota piccante nel finale, seguita da tannini morbidi e levigati.

Cavaliere Toscana IGT 2008 di Michele Satta, da Sangiovese in purezza è stato l’omaggio di Giacomo Satta a una serata dedicata alla convivialità. Naso di grande spessore, che spazia dalla moka, all’incenso, dall’arancia essiccata, alla felce e alla macchia mediterranea. Il sorso è progressivo e sferza il centro della lingua, chiudendo lungo e ampio su tostature di caffè.

C’è posto per te

Via Venezia 80053 Castellammare di Stabia

Tel: 081 870 1746

Chiuso il lunedì

Chianina & Syrah 2024: i Syrah di Sicilia

Abbiamo già parlato della kermesse Chianina & Syrah al link Chianina & Syrah a Cortona: dove la “ciccia” si sposa alla perfezione con il vino. Oltre a dare risalto alla denominazione Cortona Doc, valorizza anche un’altra importante eccellenza del territorio, come la carne della razza chianina, binomio perfetto tra cibo e vino.

Al Centro Convegni Sant’Agostino v’erano in degustazione i vini della Denominazione di Cortona ed altri areali sia nazionali sia internazionali. La masterclass ” Il Syrah di Sicilia a spasso nel tempo – 2008 – 2021″ è stato un percorso sensoriale con 7 vini di varie annate da Monreale a Menfi, fino al lembo estremo meridionale di Noto. Condotta dall’esperta  giornalista ed enocritica del Corriere della Sera e Gambero Rosso, Divina Vitale con gli interventi di Francesco Spadafora,  titolare dell’omonima cantina e Stefano Amerighi, anch’egli titolare dell’omonima cantina, nonché Presidente del Consorzio Cortona Vini.

La Syrah è un vitigno internazionale che affonda le radici in diversi areali del globo, si ipotizza che l’etimologia del nome derivi dalla cittadina di Shiraz dell’antica Persia, anche se  esistono diverse altre versioni. Ha trovato terra di elezione nella Valle del Rodano in Francia, soprattutto nella Côte Rôtie, Hermitage e Gigondas, ma anche in Australia e Nuova Zelanda e viene allevato in molte nazioni del mondo. 

In Italia la Syrah viene  coltivata principalmente in Sicilia, soprattutto nelle province di Palermo, Agrigento e Trapani  dove ha trovato condizioni pedoclimatiche ideali per dare origine a vini di eccellente qualità e longevità.  L’altra regione ad alta vocazione è la Toscana e in particolare la zona di Cortona, qui la Syrah ha trovato habitat ideale, grazie alla composizione dei terreni e a un clima idoneo. Cortona DOC Syrah è nata nel 2000, un  vino di grandissimo carattere e finezza. In Italia viene allevato anche in diverse altre regioni.

Un vitigno migrante capace di dare origine a grandi vini, sia vinificato in purezza, talvolta, è anche il compagno ideale di altri vitigni che in assemblaggio concorre a dare il suo contributo varietale, originando vini di grande pregio.

I vini degustati

Principi di Spadafora – Terre Siciliane Igp Sole dei Padri 2008 – Rosso rubino profondo con sfumature granato e sentori di prugna, spezie orientali, polvere di caffè. Al palato è ancora fresco, tannino poderoso, ma setoso, lungo e duraturo; un vino contemporaneo e sorprendente.

Planeta – Menfi Doc Maroccoli 2008 – Rosso rubino impenetrabile, emana note di frutta rossa matura, pepe nero, cuoio, tabacco e menta Gusto fresco e soddisfacente, coerente e persistente.

Tasca d’Almerita/Tenuta Sallier De la Tour – Monreale Doc La Monaca 2010 – Rosso Rubino con riflessi granato, note di mora, frutti di bosco, erbe mediterranee e bacche di ginepro. Dal sorso sapido e fresco, avvolgente e pieno.

Tenuta Zisola – Sicilia Doc Achilles 2015 – Rosso rubino profondo, sprigiona note di confettura,  in primis, mora, mirtillo e poi sottobosco. Avvolge al gusto ed è gastronomico e persistente.

Feudo Disisa – Monreale Doc Roano 2018 – Rosso rubino impenetrabile, rivela sentori di, visciola, lampone, amarena e foglia di pomodoro. Piacevole la scia mentolata, con sorso dinamico, coerente, accattivante e duraturo.

Alessandro di Camporeale – Sicilia Doc MNRL Vigna di Mandranova 2019 – Rosso rubino profondo, emana note floreali di viola, poi fragolina di bosco, mora e bacche di ginepro. Sapido e dotato di buona piacevolezza di beva. Dinamico e persistente.

Feudo Maccari – Sicilia Doc Maharis 2021– Rosso rubino vivace, rivela sentori di ribes, amarena, mora e lieve spaziatura. Bocca elegante, vibrante, rotonda e decisamente durevole.

Chianina & Syrah a Cortona: dove la “ciccia” si sposa alla perfezione con il vino

Esiste un luogo senza tempo, dove da 7 anni (non considerando lo stop forzato per la pandemia) si uniscono eccellenze enogastronomiche dai contorni tipicamente toscani. Per un attimo le lancette dell’orologio si sono fermate durante l’evento Chianina & Syrah, per non scandire il solito ritmo incalzante dello stress quotidiano.

La bellezza di un territorio come Cortona, patria del buongusto e del viver sano, con la sua storia, cultura, passione per il mondo agricolo e per l’accoglienza turistica da cui ne deriva, in gran parte, il benessere stesso dei cittadini.

Vittorio Camorri di Terretrusche e Stefano Amerighi, presidente del Consorzio di Tutela dei vini DOC Cortona, hanno saputo intercettare con maestria le sensibilità dei palati di avventori e specialisti del settore. Non è un evento da bosco e da riviera o una sagra godereccia, tutt’altro! La specializzazione gourmet si dimostra al calar della notte, nelle cene di gala, quando ci si ritrova al Teatro Signorelli, location incantevole come tanti altri teatri italiani, patrimonio della lirica e della musica classica.

L’occasione ideale per degustare, dopo una giornata spesa tra masterclass ed incontri con i produttori, le pietanze di chef stellati e attori primari della cucina nostrana accorsi dal richiamo irresistibile di Fausto Arrighi (già direttore della Guida Michelin per l’Italia) e di Annamaria Farina, splendidi nell’allestimento e nell’organizzazione di un servizio difficilissimo da eseguire visto il contesto speciale.

La Chianina proposta in ogni versione: dalla classica costata alla brace, all’hamburger, al bollito, per finire verso il quinto quarto tra trippa e lingua di cui siamo specialisti assoluti. E poi le salse ed i condimenti, l’utilizzo degli scarti nei brodi e sughi, per rivoluzionare il piatto e dare quel tocco di sapore alle materie prime più delicate.

Quest’anno è andato davvero tutto alla perfezione. Pochissime le “stecche” (trattandosi pur sempre di un palcoscenico). Molto snelle le varie fasi del programma, che potranno essere oggetto di ulteriori modifiche in futuro, ma già a buon punto di quadratura. Zero le pause morte, un ritmo serrato anche per noi giornalisti, divertiti e incuriositi da poter interagire con tanti viticoltori, con i colleghi Giampaolo Gravina, Leonardo Romanelli e Divina Vitale impegnati nelle degustazioni guidate sulle varie annate di Syrah, e sui territori vocati di Toscana, Sicilia e Cornas.

Approfondimenti utili a comprendere ulteriormente la magia di un vitigno migrante come la Syrah, che sa ben adattarsi ai luoghi dove viene coltivata e che necessita, in maniera imprescindibile, della mano umana per lasciarsi alle spalle nuance troppo rudi e rustiche e dirottarsi verso eleganze floreali, succose e speziate di grande longevità. L’Italia e Cortona stessa giocano un ruolo quasi alla pari con gli omologhi francesi. Il “quasi” è dovuto soltanto per la maggior esperienza dei cugini d’Oltralpe, che vantano ancora una piccola incollatura di vantaggio sui nostri.

Il Syrah toscano e siciliano, ad esempio, è molto mediterraneo, a tratti densamente materico, ancorato forse su retaggi di eccessiva maturazione del frutto, a discapito di agilità di beva e di toni più sinuosi che il varietale sa offrire. Le cose, però, sono nettamente diverse rispetto agli inizi del secondo millennio e già molti produttori hanno alleggerito il carico calorico e macerativo, prediligendo vinificazioni considerate “estreme”, a grappolo intero con presenza dei raspi.

Un metodo forse rischioso per altre varietà, ma amato dalla Syrah, a patto di farlo con dovuta saggezza e sempre padroni del proprio destino. In soldoni significa pulizia dei contenitori, scelta delle percentuali di uve da vinificare con tale tecnica e riposo in vetro per domare accenni erbacei o tannini robusti. Non esiste una formula uguale per tutti, ognuno ha già scritto o dovrà ancora scrivere la propria e proporsi all’esame insindacabile della critica e dei mercati.

Dalle valutazioni dell’Anteprima sarà Syrah segnaliamo alcuni assaggi davvero strepitosi, in un panorama in profonda crescita, complice annate equilibrate (su tutte 2021 e 2022) con acini integri e sani in cantina. Sono vini che hanno con sicurezza superato i 90/100. Lo faremo in ordine alfabetico come da scheda proposta dall’organizzazione.

Migliori assaggi di Syrah di Cortona

Cortona Doc Syrah 2020 Crano – Baldetti

Cortona Doc Syrah 2021 Terrasolla – Cantina Canaio

Cortona Doc Syrah 2021 L’Usciolo – Fabrizio Doveri

Cortona Doc Syrah 2021 Polluce – Chiara Vinciarelli

Cortona Doc Syrah 2022 Linfa – Fabrizio Dionisio

Cortona Doc Syrah 2021 Campetone – Il Fitto

Cortona Doc Syrah 2021 – Stefano Amerighi

Cortona Doc Syrah Serine 2020 – stefano Amerighi

Cortona Doc Syrah 2021 Bocca di Selva – Tenuta Angelici

Migliori assaggi di Syrah d’Italia

Toscana Syrah IGT Arnuta 2021 – Buccelletti cantina

Costa Toscana Syrah IGP 202 Suisassi – Duemani

Toscana IGT Varramista 2017 – Fattoria Varramista

Costa Toscana Syrah IGP Rosso 2020 La Costa – Giardini di Ripaversilia

Toscana Syrah IGT 2021 Gruccione – Il Querciolo

Valle d’Aosta Syrah DOP 2020 Coteau La Tour – Les Cretes

Toscana Igt Syrah 2020 – Podere Bellosguardo

Syrah Igp 2019 Mascarin – San Valentino

Piemonte Doc Syrah 2022 – Scarzella

Syrah Igp Terre Siciliane Siriki 2015 – Spadafora

Toscana Igt Syrah La Sirah 2020 – Tenuta Lenzini

Carpineto: la Toscana nel mondo

Il 4 marzo, nella splendida location di Palazzo Belvedere, villa monumentale situata nel quartiere Vomero di Napoli, si è tenuto il primo evento ufficiale di LU.IS.A. Rappresentanze, una manifestazione che ha raggruppato numerosi produttori del mondo vitivinicolo presenti nel catalogo, con banchi d’assaggio e masterclass che hanno regalato forti emozioni ai presenti.

Tra i vari produttori presenti ha catturato la mia attenzione l’azienda CARPINETO, da oltre 50 anni ambasciatori della Toscana nel mondo, esportata in ben 70 paesi. Mauro Chiominto, direttore commerciale Italia, nel suo banchetto vista mare, ci racconta la storia dell’azienda che nasce nel 1967 dall’intuizione geniale di due giovani appena ventenni: Antonio Mario Zaccheo e Giovanni Carlo Sacchet. Divenuti amici proprio davanti a un calice di vino decidono di realizzare un sogno in comune, fare un grande Sangiovese iniziando dal Chianti Classico. Ci sono riusciti mantenendo un assetto familiare e diventando un brand di successo a livello internazionale, con una produzione di oltre 3 milioni di bottiglie in più di 30 etichette.

I vini degustati

La degustazione inizia con una vera e propria rivelazione: il DOGAJOLO TOSCANO ROSATO IGT, Sangiovese in purezza, fresco e dalla grande bevibilità, elegante e deciso allo stesso tempo; rischi di bere tutta la bottiglia e non accorgertene! Abbinamento perfetto con la nostra pizza napoletana, un gemellaggio che vi invito a provare.

Spostiamo la nostra attenzione su tre delle undici Docg toscane: Chianti Classico, Vino Nobile di Montepulciano e Brunello di Montalcino. Il CHIANTI CLASSICO RISERVA 2018, Sangiovese con saldo di Canaiolo e Colorino, dal colore rosso rubino intenso con riflessi granato, presenta una pienezza di bocca avvolgente che richiama al sorso successivo, molto piacevole nella sua semplicità.

Molto più incisivo il CHIANTI CLASSICO GRAN SELEZIONE 2020 prodotto da uve provenienti dal cru di due ettari ubicato a Dudda – Greve in Chianti – zona particolarmente vocata per la produzione di vini di grande longevità. Rubino vivace, dai sentori di frutti di bosco, note speziate, in bocca elegante anche se ancora giovane lascia presagire già quel che diventerà tra qualche anno.

Altro vino in degustazione, il VINO NOBILE DI MONTEPULCIANO RISERVA 2018. Tende al granato, estremamente elegante con profumi che vanno dalla frutta esotica al balsamico. Fine ed elegante merita davvero l’appellativo di “nobile”. Restando sempre nel territorio di Montepulciano, e precisamente nelle zone meglio esposte si produce il cru di POGGIO SANT’ENRICO, Sangiovese in purezza di cui assaggiamo l’annata 2012. Colore intenso, di forte concentrazione antocianica. Al naso si avvertono sentori di frutti di bosco, note di chiodi di garofano, vaniglia. Sorso complesso e lungo, ma con una succulenta bistecca fiorentina ancor meglio!

Completiamo il percorso toscano con il BRUNELLO DI MONTALCINO 2019, di grande struttura, persistente, ampio, morbido che evolverà ancora per tanti anni, mentre solo nelle migliori annate viene prodotto in versione RISERVA di un’eleganza ancora più raffinata.

Dopo questo breve salto in Toscana e dopo i racconti di Mauro, la voglia di andare in azienda ad approfondire la conoscenza di questi vini è fortissima. Carpineto, per gli appassionati, è una immersione totale nella natura, tra passeggiate in vigna o in bicicletta ed è possibile prenotarsi in ogni momento dell’anno per vivere una experience indimenticabile. Un ringraziamento particolare va a Laura Ruggieri di LR Comunicazione.

Io ho già prenotato… e voi? A presto.