“San Severo provincia di Foggia…”

Un giorno a San Severo (FG), alla ricerca di quell’identità pugliese ammirata e decantata in Italia e all’estero.

Lo ripeteva sempre Lino Banfi nei film commedia anni ’80: San Severo provincia di Foggia. Lo ripeteva come un mantra e tutti noi, compreso il sottoscritto, immaginavamo questo luogo intriso di un senso arcaico di bellezza agreste, di tradizioni e di genuinità degli abitanti.

E allora perché non trascorrere un giorno proprio lì, in compagnia di produttori che hanno fatto la storia dell’areale, guidati dall’autrice di 20Italie Serena Leo. Le video interviste contenute nell’articolo rappresentano uno spaccato verace dell’Italia Meridionale, dove le storie familiari si mescolano spesso a quelle aziendali e viceversa. Dove far qualità costa caro, perché non puoi usufruire degli agi e dell’abbrivio economico di altre realtà soprattutto del Centro-Nord.

Gianfelice D’Alfonso Del Sordo ci narra dell’importanza di una varietà autoctona come il Nero di Troia, in grado di dare vini di carattere, dalle sensazioni vellutate nella loro espressione tannica. Un corredo di frutti di bosco e sensazioni mediterranee uniche nel loro genere, il marchio di fabbrica del Sud. I suoli presenti sono ricchi di calcare e sedimentazioni marine fossili. Vengono chiamati in dialetto “coppanetta” dalle piccole colline (le coppe) dove si scavava la pietra di Apicena per le costruzioni.

L’azienda D’Alfonso Del Sordo è la storia di questo territorio, con il suo carico di ricerca e sperimentazione in cantina e vigna, tra uvaggi, blend di varietà sui campi e microvinificazioni separate per parcelle. Il racconto parte da un assunto storico di fatto: San Severo è da sempre un grande bacino enologico, con cantine sotterranee di rara bellezza, poste all’interno delle mura cittadine. Ci arriveremo per gradi, non dimenticando il passato fatto anche di povertà, dove i ragazzi potevano permettersi di giocare con una palla fatta di vinacce spremute e correre a nascondersi dietro a trattori, enormi torchi in legno e fienili. Gente avvezza alla semplicità, nei modi e nei gesti. Casteldrione è il Nero di Troia dalle sfumature rubino intense e dal sapore gioviale ed elegante, che non ti obbliga ad un abbinamento forzatamente impegnativo.

Da Pisan Battel, in compagnia di Antonio Pisante – titolare con Leonardo Battello di questa splendida realtà – abbiamo parlato dell’altra gemma di San Severo: la spumantistica di altissimo livello. L’enologo Cristiano Chiloiro paragona il passato ed il presente delle bollicine locali ad un hardware sofisticato, che cerca soltanto un software in grado di decifrarlo e assestarlo in maniera definitiva.

In poche parole le potenzialità ci sono, in particolare per il Bombino Bianco, ma serve ancora un pizzico di consapevolezza ed autocoscienza per eguagliare i vertici mondiali della produzione.

Cremoso e avvolgente il Brut Metodo Classico da Bombino Bianco, ma a sorprenderci per finezza e duttilità d’utilizzo è il Pas Dosè Rosè Metodo Classico da Nero di Troia in purezza. Lo stile è tutto ed i vini di Pisan Battel si rivelano un fiore all’occhiello pronto al confronto con i mercati più esigenti.

Pagina conclusiva del nostro percorso la visita da D’Araprì, i pionieri della bolla pugliese. Daniele Rapini spiega, con gli occhi lucidi d’emozione, gli inizi del padre, dalle esperienze in Francia fino ai primi imbottigliamenti arditi, che finivano spesso con le carcasse di bottiglie scoppiate per l’alta pressione. Poi la svolta ed il salto di qualità, divenendo dai primi anni 2000 il riferimento per un movimento che ha coinvolto numerosi vigneron.

Un “distretto dello spumante” mancante solo sulla carta, per numeri ancora troppo esigui e opinioni divergenti tra i vari attori. La posta in gioco è elevata, si tratta del futuro stesso della Denominazione e del suo cavallo di razza, che siamo certi porterà le luci della ribalta anche alle altre versioni ferme, a base degli autoctoni che il terroir sa offrire.

Stefano Milanesi, eno-artigiano nell’Oltrepò Pavese: bollicine, pinot nero e i racconti di famiglia

Terra di bollicine e di pinot nero, l’Oltrepò Pavese vanta antiche tradizioni e sicuramente di essere una delle zone più importanti a livello mondiale per la produzione di spumanti: un territorio che occupa la parte meridionale della provincia di Pavia in Lombardia, a sud del fiume Po. Raggiungo Santa Giuletta, dove ha sede la cantina di Stefano Milanesi, in una giornata fredda ma tersa, dove la luce rarefatta racchiude in paesaggio in una atmosfera magica. Da questa posizione collinare, a circa 200 metri di altitudine, vedo la pianura, la via Emilia e l’arco alpino, dove si riconoscono il Monviso e il Monte Rosa, la Grigna e il monte Lesima, al confine con la Liguria.

I vigneti di Stefano presentano suoli prevalentemente sabbiosi, dove sono presenti anche calcare e gesso e molta arenaria: luoghi dove 5 milioni di anni fa era il mare, che piano piano si ritirò, lasciando appunto arenaria e marne. Lo studio dell’Università di Milano, condotto negli anni Ottanta, evidenziò la vocazione di questo luogo per l’impianto di pinot nero, croatina, riesling, barbera e altre varietà, sia a bacca bianca che nera. Una terra che, sin dai tempi dei Romani, era utilizzata per la produzione di vino e spesso si possono trovare nei vigneti frammenti di anfore vinarie e di copponi che venivano utilizzati per fare i tetti. Sicuramente l’Oltrepò Pavese, collocato sul 45esimo parallelo, rappresenta la zona italiana più coltivata in Italia a pinot nero, la terza in Europa dopo la Champagne e la Borgogna e la quarta nel mondo, dopo l’Oregon.

La famiglia Milanesi inizia la coltivazione delle vigne e della produzione di vino più di 300 anni fa; dal 2018 il vitigno più coltivato, nei 13 ettari collinari condotti in regime biologico, è il pinot nero.

Stefano ha impiantato anche meunier e alcuni PIWI tra cui il johanniter, il muscaris e il souvigner gris per sperimentare e sfruttare la possibilità di ridurre i trattamenti con rame e zolfo, data la loro resistenza maggiore alle malattie fungine. Nelle sue parole si sente la passione e quel rimanere fedele a se stesso e al suo modo di interpretare i vitigni nel rispetto della natura che gli sono valsi il titolo, dato molti anni fa da un amico, di eno-artigiano: vini puliti ed espressivi, che nascono da fermentazioni con lieviti indigeni. Grande cura viene riservata per la produzione del metodo classico, le cui fasi vengono spiegate in modo chiaro ed esaustivo, che sono tutte manuali, compreso il remuage sulle pupitre di legno. Anche la sboccatura viene eseguita à la volèe, dopo aver ghiacciato il collo della bottiglia; il rabbocco, prima della tappatura con il classico tappo e gabbietta, viene fatto con il vino base, senza aggiunta di liqueur.

La visita in cantina prosegue con un aneddoto molto curioso: Stefano indica la statuetta raffigurante Sant’Antonio, in una nicchia e racconta che il bisnonno Antonio, dato per morto, durante la veglia funebre si destò quando i parenti vennero invitati a scendere in cantina per mangiare salame e bere un po’ di vino: “Che nessuno tocchi il salame” disse e si gridò al miracolo, tra la meraviglia di tutti.

L’assaggio di alcuni vini cesellati ad arte avviene nella vicina 700Enolocanda, accompagnati da gustosi piatti della tradizione pavese. Si inizia con uno spumante…e non poteva essere diversamente.

V.S.Q. Vesna Rosè Nature 2018: metodo classico da 100 % pinot nero, la permanenza sui lieviti di circa  42 mesi. Il colore è oro ramato brillante, di grande fascino. Al naso sentori netti ed eleganti di piccoli frutti rossi, tra cui ribes, lampone poi geranio e garbati sentori di panificazione che non coprono le caratteristiche olfattive del vitigno. In bocca si percepiscono la gradevole acidità, la struttura di questa bollicina e il finale, lungo persistente e la chiusura sapida. Chapeau!

Pit Stop 2019 nasce da vigne di croatina di circa 15 anni; dopo la pressatura soffice il vino fermenta e affina in acciaio, viene imbottigliato senza chiarifiche e filtrazioni. Regala una piacevole esperienza di beva, il grado alcolico è splendidamente supportato, tanto da non accorgersene (almeno fino a quando non si finisce la bottiglia!) Un vino goloso, che profuma di melograno, amarena, con tannini setosi, buona freschezza e persistenza.

Gimme Hope nasce da un uvaggio composto da barbera, cortese e altri vitigni: Stefano lo definisce “ Vino gatorade” perché il tenore alcolico contenuto, la beva agevole, i profumi succosi, lo rendono perfetto per le merende estive e per le “ ribotte” ( per usare un termine dialettale delle mia regione, la Liguria) In compagnia. Bellissima l’etichetta, colorata e accattivante, soprattutto l’arcobaleno che spunta dietro l’unicorno alato ( o meglio, sembra un unicorno!)

Maderu 2009 è un meraviglioso pinot nero che assaggio in magnum, aperta a Capodanno: profumi complessi denotano una regale terzializzazione, in cui si riconoscono, humus, tartufo, sentori boschivi, ciliegia matura, cardamomo. Personalità ed equilibrio caratterizzano il sorso, trama tannica perfettamente integrata, lunga scia finale. Una giornata che è volata via ascoltando i racconti di Stefano, così affabile, cortese e capace di trasmettere la sua passione e la voglia di sperimentare: il sole al tramonto ha incendiato di rosso la pianura, a suggellare il ricordo di emozioni ed assaggi, che rimarranno scolpiti nella mente e nel cuore.

Cartoline dal Matese: le interviste a Terre dell’Angelo e La Sbecciatrice

Come non pensare ad una delle visite più coinvolgenti vissute dalla redazione di 20Italie, quella nell’Alto Casertano ai piedi del Matese? Ricordi che hanno lasciato tracce indelebili, testimonianza del fare artigianalità in Campania, a volte persino contro tutto e tutti.

Le possibilità di creare impresa non sono le stesse di altri territori, inutile evidenziarlo. Ma l’inventiva nostrana è il vero motore di un settore che potrebbe mirare ai vertici assoluti dell’eccellenza enogastronomica. Basta poco che ce vo’? In realtà, pensiero ed azione devono andare di pari passo con impegno e sacrificio, dedizione e volontà, in maniera impavida pronti alle sfide enormi poste in essere dall’odierno altalenante e dal futuro ricco di insidie.

Terre dell’Angelo e La Sbecciatrice, ovvero Angela e Domenico (Mimmo), due elementi caratterizzanti un territorio bellissimo, foriero di prodotti d’alta qualità e genuini fino al midollo. Le loro aspirazioni, i sogni e progetti ancora da realizzare traspaiono dalle parole e dagli occhi lucidi. Il pensiero fisso di chi non cerca solo il facile realizzo economico, quanto, piuttosto, di lasciare un segno nel luogo in cui vivono.

Di loro abbiamo già accennato nell’articolo riassuntivo Matese: un giorno in Alta Campania alla ricerca del nostro “Vecchio West”; mancava all’appello l’approfondimento video e due righe del sottoscritto per invogliare il lettore a tuffarsi in una dimensione ancora poco esplorata, di forte impatto emotivo.

Terre dell’Angelo è un progetto che unisce idee e professioni per promuovere alcune peculiarità delle terre sannite legate all’antico culto micaelico. Partendo dal recupero dell’ulivo per arrivare alla riscoperta di vitigni autoctoni come il Pallagrello e il Casavecchia, per produrre olio e vino di alta qualità continuando a mantenere vive le tradizioni.

Quattro etichette, moderne e originali con richiami iconici al terroir: “La volta” da uve Pallagrello Bianco; “L’Astrale” Falanghina in purezza clone beneventano e poi “L’Arca” dallo storico vitigno Casavecchia e “Il Tempo”, il loro primo vino, da vecchi filari di Pallagrello Nero allevati ancora a pergola casertana. E poi un’attenzione particolare alla cultivar Tonda del Matese, per un olio extravergine di oliva delicato e fruttato, in grado di esaltare preparazioni estremamente eterogenee.

La Sbecciatrice, la storia di due fratelli, un antropologo ed un naturalista, che decisero di mettere a frutto le loro competenze seminandole nei campi della loro stessa famiglia. Per generazioni la base della sussistenza alimentare di avi agricoltori, poi quasi abbandonati, queste terre fertili ed incontaminate, collocate in un territorio lontano da ogni forma di inquinamento e antropizzazione, sono diventate l’inestimabile risorsa con la quale costruire un progetto di valore unico.

L’azienda è stata battezzata con il nome di un antico attrezzo agricolo utilizzato per mietere il grano ed è stata arricchita dalle innumerevoli competenze di una ex-architetta/designer, donna di ingegno e di temperamento. Ricerche con università sulle varietà Pomodoro Riccio, Fagiolo Lenzariello, Fagiolo Curiniciello e Cece delle Colline Caiatine, tutti a km zero, oggetto di resilienza eroica dei Barbiero.

Viva l’Alto Casertano, viva il Matese!

Irpinia, amara terra mia…

Esiste sempre un prima e un dopo. Ancor di più pensando alla famiglia Mastroberardino (dal lontano 1800 ad oggi, nessuno escluso). Esiste infatti un’Irpinia con o senza di loro. Da nativo avellinese non posso che pensare ai due cugini, Piero e Paolo, rispettivamente figli di Antonio e Walter, con dolcezza e particolare affetto, per motivazioni e ricordi eterogenei.

Archivio storico della dinastia Mastroberardino

Ho sempre visto il primo un degno erede nel ruolo di studioso e propagatore commerciale di vini che hanno reso celebre questo piccolo angolo campano, dalle pronunciate pendenze, ricco di boschi e di natura a tratti ancora incontaminata. Un’Istituzione per chiunque abbia nelle vene tracce di Fiano, Greco, Coda di Volpe e Aglianico clone Taurasi. Il secondo invece, preparatissimo nella gestione agronomica della vigna, la spontaneità fatta persona nel bene e nel male, dato che non te le manda a dire quando sente “castronerie”. E per fortuna! Entrambi i rami di questa meravigliosa famiglia, ormai separata da strade diverse da oltre un trentennio, hanno contribuito e contribuiscono in maniera decisiva alla salvaguardia delle varietà d’uva autoctone irpine, uniti da un sottile filo rosso fatto di cultura, passione, veracità.

Uno scorcio di una delle grotte del Castello Marchionale a Taurasi

A loro andrebbe l’eterna gratitudine di un territorio che cerca da sempre un faro guida, schiacciato tra individualismi, dispettucci puerili e posizioni estreme inutili e dannose. Le nuove leve, abituate ad un contesto comunicativo completamente diverso dai genitori, apportano già linfa vitale e lunga prospettiva, a patto di riuscire a mantenere saldo il “capo in mano”, senza l’intervento invasivo e la stretta sorveglianza dei grandi vecchi. La saggezza non sempre si lega al pragmatismo.

La locandina dell’evento

Annosa questione che in Irpinia, dove non mancano certo spirito imprenditoriale e possibilità economiche, non ti aspetteresti: il problema del corretto passaggio di poteri generazionale. Infine, last but not least, la presenza influente dei grandi imbottigliatori, attenti unicamente ai bilanci societari in attivo, e di aziende nate sotto altri profili lanciatesi poi nel complicato settore vitivinicolo, dove non basta una bella etichetta a fare il monaco (e neanche il vino). Risultato? Potenziale tutt’ora parzialmente inespresso, confusione di stili e prezzi ampiamente sotto il valore reale per molti prodotti di qualità.

L’intitolazione della Piazzetta Antonio Mastroberardino

In tale scenario contemporaneo, intitolare una piazza del comune di Taurasi ad Antonio Mastroberardino, Cavaliere al Merito del Lavoro, alla presenza delle Autorità, è un segnale di speranza e fiducia per il prossimo futuro. Ci si aspettava, e lo dico da cronista appassionato, un’attenzione differente da alcuni operatori del settore. Non certo dagli organi della stampa accorsi in massa all’evento, testimoni di un passato difficile dove negli scarsi numeri si trovava comunque unità, rispetto e condivisione d’intenti.

Piero Mastroberardino non nasconde le emozioni palpitanti ai microfoni di 20Italie, complice anche il riconoscimento del suo Taurasi Riserva 2016 Radici nella top five wines of the world di Wine Spectator. Francamente facciamo fatica anche noi a farlo; il resto sono polemiche sterili e parole al vento, comprese quelle del sottoscritto, che nulla aggiungono al quadro d’insieme. I fatti contano e allora mi chiedo: perché non tramutare anche in Irpinia l’assunto del Gattopardo “se vogliamo che tutto rimanga come è bisogna che tutto cambi” nella splendida aria conclusiva del Guglielmo Tell di Rossini “tutto cangia il ciel s’abella”?

Officina 83 a Sala Consilina: un viaggio in moto custom nello stile american fast food e braceria selezionata

Marco Marrocco è una forza della natura, con i suoi 40 anni vissuti intensamente e le mille idee ancora da realizzare. Officina 83 è solo l’ultimo dei suoi nati, un locale in stile drive in anni ’60, con tanto di camioncino delivery all’esterno e Harley-Davidson da collezione all’interno.

Perché Marco ha la passione smodata per i cavalli a motore, il vento del mare e la buona cucina, magari con una valida proposta vini in abbinamento. Ho sempre ammirato la concretezza di chi svolge da anni l’attività di ristoratore. Agli inizi (nel 2011) non esisteva che un unico bancone dove i clienti potevano selezionare gli ingredienti di qualità per la composizione del piatto, potendo usufruire di uno spazio limitato per sedersi comodi.

Da allora le cose sono ben diverse, mentre il luogo, Sala Consilina, è rimasto quello di una volta, ancora bisognoso di aprire le menti verso le novità e le sirene provenienti dalle grandi metropoli. Marrocco cerca quotidianamente di essere avanti anni luce con i tempi: tra i primi a portare l’esterofilia del concept e del gusto nei propri locali, inclusa una ricca selezione di carni servite tra tartare, bun con hamburger, tagliate e costate di “varie metrature”.

E poi la ripartenza nei mesi della pandemia con un servizio impeccabile di consegne porta a porta. Tutto facile? Non sembra a giudicare dall’impegno continuo che lo vede coinvolto nell’ampliare la gamma delle pietanze e la carta dei vini giunta ad oltre 50 referenze italiane ed internazionali.

Marco Marrocco

In cucina il giovanissimo chef Giovanni Rocco, appena ventenne, sa coniugare energia e talento anche nell’impiattamento. Proveniente dall’Istituto Alberghiero ha davanti a sé un brillante futuro che ne smusserà alcuni angoli ancora acerbi; d’altro canto quando la mela è buona vale la pena coglierla direttamente dall’albero piuttosto che sceglierla dal cesto.

Il piatto firma di Officina 83, la tartare di manzo ai frutti di bosco è semplicemente perfetta. Realizzata alla moda francese, con quei richiami di senape anche nelle salse in accompagnamento ai bordi, resta ancorata nei ricordi dei miei migliori assaggi.

La picanha di Swamy, lavorata e frollata dallo staff a partire dalla mezzena, cosa rara solo in carta alle migliori steak house, ha subito un’affumicatura ai trucioli di Jack Daniel’s Tennessee Whiskey. Un carpaccio sottile e saporito con 3 diverse varietà di pepe in grani, burrata e scaglie di tartufo nero.

In ultimo, la classica tagliata di Angus U.S.A. con cardoncelli e parmigiano e la guancia di maialino cotta a bassa temperatura, servita con misticanza e broccoli saltati. Tenera al taglio, non eccessiva nelle componenti gelatinose e grasse che possono talora stancare il palato. Un viaggio tra sapori semplici, essenziali, senza trucco e senza inganno, nel cuore del Vallo di Diano.

Umbria: la visita da Fattoria ColSanto della famiglia Livon nello storico borgo di Bevagna

Da Fattoria ColSanto si arriva percorrendo un lungo e suggestivo viale di cipressi, disposti in duplice filare, che anticipa lo charme della Tenuta. Siamo nel centro dell’Umbria nello storico borgo di Bevagna, a pochi passi da Montefalco. 

La Storia

Nel 2001 l’azienda è stata acquisita dalla famiglia Livon, che ha subito iniziato a restaurare i ruderi del vecchio casale risalente al 1700, impiantando nuovi vigneti ad alta intensità. L’etimologia del nome deriva proprio da Colle, posta sulla sommità della collina di fronte ad Assisi, terra di Santi.
La proprietà ha un’estensione vitata di oltre 20 ettari, attorno alla nuova cantina, ove affondano le radici di varietà, quali, Sagrantino, Sangiovese, Montepulciano e Merlot e un appezzamento di tre ettari di Trebbiano Spoletino non lontano dalla fattoria. La “patria enologica” del Montefalco Sagrantino, il cui vino può a buon diritto essere considerato una perla enologica italiana sia nella versione secca sia passito. La struttura mette a disposizione ai propri clienti 12 eleganti camere ricavate nella vecchia villa padronale.

Fattoria ColSanto è immersa in uno scenario incantevole, dove la nutrita presenza di vigneti e uliveti ne fanno un territorio di straordinaria bellezza che cede il passo ai rilievi del Monte Subasio con cime innevate in questo periodo. La visita è iniziata dalla panoramica terrazza che offre una vista di ineguagliabile bellezza, dalla quale si vedono in lontananza Assisi, Spello, Trevi e Montefalco. Poi dritti in cantina, tra barriques, botti di varie dimensioni e anfore, a seguire degustazione dei vini anche dell’azienda friulana accompagnati da prelibatezze locali.

I Vini degustati

Fenis Livon – Ribolla Gialla Metodo Martinotti – Paglierino con riflessi verdolini, dal perlage fine e persistente. Note di fiori di camomilla, pera e pasticceria da forno, dal gusto fresco, sapido e lungo.

Collio Doc Chardonnay 2021 – Livon – Paglierino brillante, naso di mela, ananas, banana, pesca, nocciola e crosta di pane. Avvolge e persiste al palato con freschezza che stimola il sorso.

Collio Doc Friulano Manditocai 2021 – Livon – Riflessi dorati, sprigionante note floreali di pesco, frutta tropicale e noce moscata. Sorso ricco, avvolgente e vibrante.

Cantaluce Umbria Igt 2019 – ColSanto – Trebbiano Spoletino – Riflessi dorati,  con sentori di mela, pera, melone, frutta tropicale e erbe aromatiche. Fresco, rotondo e leggiadro.

Montefalco Sagrantino Docg ColSanto 2016 – Rubino profondo, emana note di marasca, melagrana,  mora, prugna, tabacco e spezie orientali. Grip tannico poderoso, ma setoso, avvolgente e duraturo.

Montarone Passito Umbria Igt 2016 – ColSanto – Sagrantino – Anch’esso rubino profondo, sentori di lavanda, confettura di more, ciliegie sotto spirito e prugne secche. Vino delicato ed appagante.

Morellino del Cuore: 10 calici per un viaggio nel terroir della Maremma

Dieci impeccabili ambasciatori di un territorio ricco di fascino e di grandi potenzialità; dieci calici vibranti, ghiotti e appaganti, da bere tutti i giorni e perfetti per le occasioni speciali. Senza eccezione alcuna, si sono abbinati alla perfezione con gli squisiti piatti che l’Osteria Poerio ha preparato per l’occasione.

La Città Eterna accoglie con entusiasmo il “Morellino del Cuore” on tour, e lo fa in grande stile ospitando stampa e produttori nella deliziosa cornice dell’Osteria Poerio a Monteverde Vecchio, uno dei quartieri più signorili di Roma. Il progetto, nato dalla collaborazione tra il Consorzio di Tutela Morellino di Scansano DOCG e i giornalisti Antonio Stelli e Roberta Perna, offre un’opportunità unica per esplorare l’evoluzione di un vino che affonda le sue profonde radici nella luce e nella tradizione della rigogliosa terra di Maremma.

Morellino del Cuore: la Maremma tra passato, presente e futuro

La prima edizione, nel maggio dello scorso anno, ha coinvolto sei esperti giurati, capitanati dalla giornalista Stefania Vinciguerra, Caporedattore di DoctorWine, in una degustazione alla cieca di 64 etichette per 36 produttori. È così che sono stati selezionati i 10 vini ambasciatori della DOCG, in grado di riportare nel calice tutta l’essenza e la emozionante suggestione del territorio.

La costa maremmana è originariamente una terra di tradizioni rurali in cui il Sangiovese, vitigno continentale, non deteneva inizialmente un ruolo predominante. In passato, la produzione di vino in questa zona era orientata principalmente al consumo immediato, senza una chiara identità di stile, né tantomeno la necessità di produrre vini destinati all’invecchiamento.

Tuttavia, la straordinaria versatilità e la capacità di adattamento del Sangiovese al microclima marino della Maremma hanno portato a una trasformazione significativa della base ampelografica del territorio. Il Sangiovese ha saputo conquistare spazio tra gli altri vitigni, plasmando il carattere distintivo del Morellino di Scansano.

Identità, sinergia e qualità costituiscono oggi i pilastri fondamentali su cui basare l’ascesa verso l’eccellenza della Denominazione. La DOCG, relativamente piccola e frammentata in tanti produttori, sta lavorando in sinergia per consolidare la sua riconoscibilità distintiva attorno al Sangiovese del mare, impegnandosi altresì ad elevare costantemente l’asticella della qualità con l’obiettivo di distinguersi come Denominazione di prestigio della Toscana.

Nuove chiavi di lettura per una comunicazione sempre più efficace

L’originale classificazione di “Morellino del Cuore”, che suddivide le etichette in tre categorie – Annata, Intermedia e Riserva – non coincide perfettamente con quella del Consorzio che attualmente distingue solo tra vini d’Annata e Riserva. Eccole svelate dunque le 10 etichette del cuore, rigorosamente in ordine di apparizione.

Per il Morellino Annata conquistano il cuore della critica specializzata:

  • Santa Lucia – Morellino di Scansano Docg A’ Luciano 2022
  • Tenuta Agostinetto – Morellino di Scansano Docg La Madonnina 2022
  • Mantellassi – Morellino di Scansano Docg Mago di O3 2022
  • Le Rogaie – Morellino di Scansano Docg Forteto 2021

Per la categoria Intermedia sul podio del cuore troviamo:

  • Boschetto di Montiano – Morellino di Scansano Docg Io&Te 2021
  • Cantina Vignaioli di Scansano – Morellino di Scansano Docg Vigna Benefizio 2021
  • Podere 414 – Morellino di Scansano Docg 2020

Le Riserva da batticuore sono invece:

  • Roccapesta – Morellino di Scansano Docg Roccapesta Riserva 2020
  • Morisfarms – Morellino di Scansano Docg Riserva 2019
  • Terenzi – Morellino di Scansano Docg Riserva Madrechiesa 2019

Il nostro cuore batte forte per tutti, ma se fossimo obbligati a sceglierne solo uno per categoria sul nostro podio personale trovereste loro.

Le Rogaie –  Morellino di Scansano Docg  Forteto 2021

Una realtà giovane ma con le idee già molto chiare, la famiglia Poggi esordisce nel 2019, e due anni dopo tira fuori un vero gioiello. Un Sangiovese in purezza da vigne vecchie che convince col suo sorso scorrevole e dinamico, tannini decisi ma garbati, e una corroborante carica balsamica in cui il profumo della brezza marina si fonde e confonde con sentori di macchia mediterranea. Lunghissima persistenza sapida.

Cantina Vignaioli di Scansano – Morellino di Scansano Docg Vigna Benefizio 2021

Con 170 soci e circa 700 ettari vitati che si estendono dal mare fino alle pendici del Monte Amiata, la Cantina, fondata nel 1972, ha di fatto scritto un copioso e importante capitolo nella storia del Morellino di Scansano. Sangiovese in purezza, sapido e carnoso, scorrevole ed equilibrato, e con un bouquet profondo e sfaccettato, il Vigna Benefizio forse incarna più di altri l’emblema di quel vino di mare attorno al quale consolidare l’identità e la riconoscibilità della Denominazione.

Roccapesta – Morellino di Scansano Docg Roccapesta Riserva 2020

Con 35 cloni su 30 ettari vitati, da Alberto Tanzi non troverete altro che Sangiovese. Espressivo ed elegante come si addice ai purosangue di alto lignaggio, ammalia con un bouquet complesso e raffinato, e avvolge in un caldo abbraccio con tannini levigati e una scia sapida interminabile. Ha tutte le carte in regola per un lungo invecchiamento.

La tecnologia innovativa Purovino® per un vino senza solfini aggiunti

Menzione speciale per il Mago di O3 2022, il primo Morellino di Scansano senza solfiti aggiunti, prodotto dalla cantina Mantellassi con la tecnologia innovativa Purovino®. La saturazione della camera di stoccaggio con Ozono sterilizza le uve, che sono poi lavorate con attrezzature trattate con lo stesso gas. Il mosto così non ha bisogno di SO2, né tanto meno sarà necessario aggiungere solfiti al vino per preservarne nel tempo le proprietà organolettiche e la salubrità.

Vi lasciamo con una riflessione: sarà solo una coincidenza, ma i più convincenti sono stati i vini da Sangiovese in purezza, forse anche questo un dettaglio da capitalizzare nella definizione di una identità forte.

Chianti Docg: “La Rivoluzione a Montespertoli”

Quando si pensa che della Toscana si sa ormai tutto si rischia di incorrere in un errore, perché sono ancora molte le realtà dormienti che godono di una antica tradizione vitivinicola e che sono in fase di risveglio e riscossa. Una di queste è quella del Chianti Docg realizzato a pochi chilometri da Firenze, nella sottozona ricadente nel comune di Montespertoli. Un distretto storico che sembrava ormai rilegato ad essere dimenticato, rivive oggi un progetto rivoluzionario in cui i vini mirano a risalire la faticosa via del successo dei grandi vini toscani.

La “Rivoluzione”

Alla sua seconda edizione di “La Rivoluzione a Montespertoli”, presentato dall’Associazione Viticoltori di Montespertoli, l’evento unisce 17 aziende eco-sostenibili con una visione comune di valorizzare uno dei terroir vinicoli più sottovalutati della Toscana. A guidare la pacifica rivoluzione è Giulio Tinacci, di soli 30 anni, da due anni Presidente dell’Associazione che lui stesso ha ideato, che sottolinea il ruolo di garanzia dell’autenticità del prodotto attraverso un patto tra viticoltori. Giovane ingegnere, cresciuto tra i vigneti di famiglia della cantina Montalbino, ha sviluppato in breve la consapevolezza di chi vuole rompere gli schemi per uscire dall’anonimato e far conoscere una realtà che ha tanto da raccontare.

Tra le splendide colline del territorio di Montespertoli, Giulio alleva vitigni autoctoni della tradizione vitivinicola toscana: Sangiovese, Fogliatonda, Canaiolo, Colorino, Trebbiano Toscano e Malvasia Bianca del Chianti. Le sue idee sono state sposate con entusiasmo dagli altri sedici produttori, ottenendo il patrocinio del Comune di Montespertoli fin dalla prima edizione. Il sindaco Alessio Mugnaini ha ribadito l’orgoglio della città nel sostenere aziende motivate che promuovono il territorio non solo durante questo evento, ma durante tutto l’anno.

Le Masterclass

Domenica 12 novembre 2023, il Museo della Vite e del Vino ha aperto le porte agli appassionati di vino, stampa e operatori per assaporare i vini dell’associazione con banchi d’assaggio. L’esplorazione approfondita delle sfumature del vino di Montespertoli, guidata dall’esperto di vini Bernardo Conticelli, in una masterclass molto professionale, è stata uno dei momenti salienti. La giornata si è conclusa con la cena organizzata al Podere dell’Anselmo, dove sono stati presentati piatti tipici del territorio con materie prime a chilometro zero, in abbinamento ai vini dei produttori del Consorzio.

Lunedì, sempre presso il Museo del Vino in Montespertoli, l’Associazione ha organizzato una degustazione guidata da Giampaolo Gravina, uno dei critici più apprezzati a livello nazionale. Gravina riconosce la rottura con la tradizione nel nuovo percorso di Montespertoli, affermando: “Mai come oggi il vino di questo territorio è delineato da un carattere contemporaneo. Rivendicando la centralità del viticoltore dal vigneto alla bottiglia, sta conferendo a tutta l’area una collocazione non più subalterna ma con una prospettiva da protagonista.”

Le cantine presenti

Podere all’Anselmo, Tenuta Barbadoro, Fattoria di Bonsalto, Tenuta Coeli Aula, Fattoria La Gigliola, Le Fonti a San Giorgio, Podere Ghisone, Podere Guiducci, Fattoria La Leccia, La Lupinella, Montalbino, Tenuta Moriano, Fattorie Parri, La Querce Seconda, Tenuta Ripalta, Castello di Sonnino e Valleprima.

Visita all’Acquedotto Campano Sorgente del Torano

Visita consentita grazie allo Staff Tecnico Amministrativo Impianti e Reti del ciclo integrato delle acque di rilevanza regionale

L’acqua è vita. Lo sanno benissimo le popolazioni dei Paesi in via di sviluppo, quando scarseggia nel soddisfare il fabbisogno quotidiano per alimentarsi. Sì, perché l’acqua è essa stessa un alimento indispensabile alla sopravvivenza; il movimento survivalista affermava che possiamo stare 3 minuti senza aria, 3 giorni senza acqua e ben 3 settimane senza cibo.

Si comprende il senso dell’importanza strategica di avere una rete strutturale pubblica in cui le perdite vengano ridotte al minimo. A ciò bisogna aggiungere il rispetto che ognuno di noi deve avere per un bene di primaria importanza, facilmente deperibile e contaminabile.

Le risorse del pianeta Terra non sono infinite e l’Acquedotto Campano Sorgente del Torano è un fulgido esempio di come si possano evitare gli sprechi sfruttando le antiche costruzioni borboniche, migliorando la qualità complessiva degli invasi e delle tubazioni di affluenza e sanificando le stesse con piccole percentuali di sostanze clorate per rendere il liquido potabile fino ai rubinetti delle nostre case.

Due le sorgenti – Torano e Maretto – che attraversavano Piedimonte Matese, con un impatto ambientale mitigato proprio dall’Acquedotto, presidio anche contro le sicure esondazioni che un clima ormai impazzito amplifica per frequenza e onda distruttiva.

La Sorgente del Torano ha, a seconda della stagione, una portata variabile tra i 1.000 ed i 2.800 l/s
Mentre la Sorgente del Maretto ha, a seconda della stagione, una portata variabile tra i 600 ed i 1.200
l/s. Dalla Sorgente Torano (circa 200 m slm) parte il percorso dell’Acquedotto Campano. Presso la Centrale Torano vi confluiscono le acque della Sorgente Maretto e presso la vasca di riunione in località Madonna del Bagno (circa 190 m slm) a Gioia Sannitica le acque provenienti da Bojano (Sorgenti Santa Maria dei Rivoli, Pietrecadute e Rio Freddo), ovvero dal versante molisano del Matese.

L’Acquedotto arriva così a portate di punta di circa 6.000 l/s. Da qui, per circa 30 km, una serie di opere gallerie, canali sotterranei, ponti canali, sifoni, due attraversamenti del fiume Volturno – conducono
le acque, sfruttando il solo dislivello e senza impianti di sollevamento, al Nodo di San Clemente (presso Caserta, circa 170 m slm), da cui si diramano oltre 20 Km di condotte che attraversano la pianura campana fino ai serbatoi che alimentano Napoli, le aree flegrea e vesuviana e – tramite una condotta sottomarina – le isole di Procida ed Ischia.

Lo Staff addetto alla gestione dell’acquedotto ha aperto le porte a 20Italie di questo prodigio d’ingegneria idraulica ben custodito dall’Amministrazione Pubblica della Regione Campania.

Un esempio finalmente virtuoso di come sappiamo fare le cose per bene al pari, se non meglio di tante altre realtà. Numeri alla mano si intende. Un ringraziamento particolare anche alle associazioni Viatoribus e Love Matese per averci insegnato che territorio e cura dello stesso sono fattori inscindibili per il futuro.

Il ritorno a Fontodi: eccellenza del Chianti Classico e rispetto del territorio nel segno del Gallo Nero

Flaccianus Pagus era l’antico nome del borgo rurale di Panzano, frazione di Greve in Chianti. Da qui prende il nome il Flaccianello della Pieve, forse l’etichetta più nota e riconoscibile dell’Azienda Agricola Fontodi, per l’immagine di una croce in stile longobardo-cristiano, cippo originale in pietra arenaria rinvenuto nelle vigne dell’azienda e conservato nella Pieve romanica di San Leolino.

Panzano e la “Conca d’Oro”

Un’azienda che rivisitiamo con estremo piacere, per raccontare l’etichetta che rimarca il legame fortissimo tra territorio e confini del Chianti Classico, attiva a Panzano dal 1968 ad opera della Famiglia Manetti, oggi guidata da Giovanni Manetti attuale Presidente del Consorzio Vino Chianti Classico (rimando all’articolo del collega Adriano Guerri: Fontodi: la magia del Sangiovese in purezza nel cuore del Chianti Classico). Ben 110 ettari di vigne, di cui il 95% a sangiovese, contenute prevalentemente in quell’anfiteatro naturale denominato Conca d’Oro, che a sud del borgo di Panzano  si estende fino a raggiungere il fiume Pesa ed è delimitato a est da San Leolino.

Qui un tempo, a godere del clima ideale e dell’irraggiamento solare erano le coltivazioni di grano (da cui il nome), ora che invece la vite ha trovato il suo luogo d’elezione naturale, il significato di Conca d’Oro assume una valenza prevalentemente legata ai caratteri di qualità microclimatica. È Silvano Marcucci, storico collaboratore della Famiglia Manetti, a raccontarci Fontodi, partendo proprio dalle vigne, visibili con un unico colpo d’occhio dal cortile dell’Azienda e racchiuse in questa culla naturale che, complice la luce nitida di un nuvoloso fine ottobre e il principio di foliage delle vigne, nel pomeriggio della nostra visita irradia suggestivi bagliori dorati.

L’azienda a misura d’uomo

“Siamo artigiani”, Silvano ci tiene a ribadirlo sin da subito. E anche se questo termine potrebbe confliggere con la notorietà internazionale e il plauso ormai unanime della critica, Silvano ricorda come prima di tutto si debba mirare a produrre il “vino giusto”, che sia non solo piena espressione del terroir, ma soprattutto sostenibile per il territorio: la porzione di vigna immediatamente davanti a noi è stata rifatta con pietre di recupero seguendo la tecnica del terrazzamento, più rispettosa dell’ambiente. Ma d’altronde Panzano è biodistretto vitivinicolo, il primo costituitosi in Europa nel 1995, inizialmente con soli undici produttori, oggi diventati ventitre su un’estensione di oltre settecento ettari. Fontodi dunque opera in regime biologico, attribuendo a questo termine una profondità di significato che va oltre i dettami di legge, legato al rispetto dell’intero ecosistema del territorio e la classifica come un’azienda a ciclo chiuso.

“L’uva nasce nella terra e ritorna nella terra” è uno dei principi di Giovanni Manetti: ecco perché il cumulo di vinacce che ci accoglie al nostro ingresso nei locali di vinificazione non verrà conferito a nessuna distilleria. La famiglia Manetti infatti è anche proprietaria di un allevamento di Chianina, settanta capi di una razza autoctona del Centro Italia, che negli anni Settanta rischiava l’estinzione. Il letame ottenuto dall’allevamento, insieme agli sfalci e alle vinacce viene utilizzato in vigna come compost nel periodo tra novembre e marzo, in alternanza a interfile con favino, orzo ed erba spontanea.

Attualmente Fontodi produce una media di 350 mila bottiglie all’anno, suddivise su otto etichette: Flaccianello della Pieve (Sangiovese 100%), Vigna del Sorbo Chianti Classico Gran Selezione; Terrazze San Leolino Chianti Classico Gran Selezione, Fontodi Chianti Classico (Sangiovese 100%), Filetta di Lamole Chianti Classico (Sangiovese 100%), Case Via Pinot Nero Colli della Toscana Centrale IGT (Pinot Nero 100%); Case Via Syrah Colli della Toscana Centrale IGT (Syrah 100%), Meriggio Colli della Toscana Centrale IGT (Sauvignon 90%; Trebbiano 10%).

La Cantina

La cantina è nata in due tempi a partire dal 1997. I locali si dislocano su tre livelli (vinificazione, maturazione, imbottigliamento) per avvalersi della sola forza di gravità, al fine di evitare ogni tipo di stress all’uva, la cui raccolta, in periodo di vendemmia, è esclusivamente manuale. Prima di avviare la fermentazione, l’uva viene selezionata a mano e diraspata. I silos in acciaio e i tini tronco-conici, per una capacità totale di 5000 ettolitri, sono utilizzati per vinificare separatamente le varie vigne: la fermentazione con macerazione è avviata da lieviti indigeni e dura dalle 4 alle 5 settimane, con controllo della temperatura.

Un discorso a parte meritano le anfore d’argilla presenti in cantina, tutte fatte a mano da un artigiano locale. La manodopera di ciascun pezzo richiede tre mesi di lavoro, tra modellazione dell’argilla, essiccazione, cottura e lisciatura finale- interna ed esterna- con pelli di daino, per ridurne al minimo la porosità. Vengono utilizzate per una selezione di acini di Sangiovese che vi rimangono in fermentazione, macerazione e maturazione per nove mesi consecutivi. Successivamente alla pressatura, il vino è nuovamente posto in anfora per sette mesi. Il prodotto che se ne ottiene viene miscelato, nella misura di circa il 2%, al vino maturato in barrique atto a divenire Flaccianello. Una sorta di liqueur d’expedition, lo definisce Silvano. A tutti gli effetti una firma che denota lo stile della cantina e serve ad esaltare il frutto del Sangiovese in finezza ed eleganza.

Al livello sottostante i locali di vinificazione, c’è il locale di botti e barrique. Tutti i vini Fontodi fanno passaggio in legno: a seconda dell’etichetta prima botte e poi barrique o viceversa, per un totale che va dai diciotto ai ventiquattro mesi. Le barrique, esclusivamente di rovere francese di media o leggera tostatura, sono utilizzate nuove e fino a un massimo di tre passaggi. Una volta dismesse, vengono riutilizzate per la creazione di mobili e oggetti d’arredo. Il locale dei legni viene tenuto a umidità e temperatura controllata tra dicembre e aprile per permettere l’avvio della malolattica. Durante la sosta in legno il vino subisce solo travasi, due volte all’anno. Terminiamo la nostra visita nei locali d’imbottigliamento, operazione che avviene per caduta. A seconda delle etichette, i vini affinano in vetro dai tre ai dodici mesi, prima di uscire sul mercato.

Il locale si articola attorno a un piccolo cavedio circolare, completamente rivestito di vetro, al cui centro si erge un leccio, l’albero più rappresentativo del patrimonio arboricolo e boschivo del Chianti, a ribadire ancora una volta lo stretto legame col territorio e il suo ambiente.

I Vini

Filetta di Lamole Chianti Classico 2021

Iniziamo la nostra degustazione con un Chianti proveniente da uve di Lamole, non di Panzano. Lo scopo è quello di ragionare sulla differenza di prodotti provenienti da zone diverse, anche alla luce della recente approvazione delle undici UGA (Unità Geografiche Aggiuntive) che caratterizzano il Chianti Classico Gran Selezione. Lamole è l’UGA più piccola della regione, collocata a sud-est di Panzano, con un’altitudine media di 600 mt SLM e una prevalenza di roccia arenaria non calcarea con elevate percentuali di sabbia. Dopo la vinificazione in acciaio, matura sei mesi in botti grandi e successivamente dodici mesi in barrique.

Il risultato lo verifichiamo nel bicchiere: irruento alla prima olfazione, Filetta di Lamole si distende quasi subito, esprimendo piccoli frutti scuri e gelso rosso,  fini ed eleganti. Al palato risulta muscoloso, di freschezza piacevole ma non sferzante.

Fontodi Chianti Classico 2020

Torniamo a Panzano, con vigne giovani e la seconda selezione delle vigne vecchie di sangiovese. Siamo in un territorio completamente diverso, ad un’altitudine compresa tra i 350 e i 380 mt SLM, caratterizzato da un terreno prevalentemente calcareo. Dopo la vinificazione in acciaio, matura sei mesi in botti grandi e successivamente dodici mesi in barrique.

Il Chianti signature di Fontodi entra immediatamente con sbuffi appena accennati di pietra focaia seguiti a ruota dal frutto – ora una ciliegia croccante – e da un sottobosco bagnato e terroso. In bocca risulta agile e scattante (e qui la differenza principale con Lamole che, indipendentemente dall’annata, è dettata da un passo completamente diverso nell’acidità), di tannino fine e ritorno lungo sul frutto.

Vigna del Sorbo Chianti Classico Gran Selezione 2020

Prima annata in cui compare in etichetta la UGA Panzano.

Vigna del Sorbo ha un’estensione di 8 ettari e ceppi di oltre 50 anni di un unico clone di Sangiovese. Dopo la vinificazione in acciaio, matura diciotto mesi in barrique e successivamente sei mesi in botte grande. Affina in bottiglia non meno di nove mesi.

Al naso esprime immediatamente il frutto – piccoline fragoline di bosco – e continua su sentori balsamici di aghi di pino e sottobosco. In bocca entra verticale ed è già pienamente appagante, godibile, di tannino sottile, con ritorni di eucalipto.

Flaccianello della Pieve 2020

L’etichetta simbolo di Fontodi è una selezione accurata di sangiovese che predilige grappoli spargoli e acini piccoli, sinonimo di concentrazione. Le vigne, diffuse su un’estensione di 45 ettari, hanno un’età media di 30/40 anni. Dopo la fermentazione matura diciotto mesi in barrique (80% nuove, 20% di secondo o terzo passaggio) e sei mesi in botte grande.

Entra timido e rimane a lungo sulle sue. Inizialmente si rivela nelle note fumé e tostate, che scivolano in piccoli frutti viola e sentori di vaniglia. La trama tannica è ancora giovane, giovanissima e necessita di tempo per distendersi e affinarsi. Mostra però già potenza di carattere, che evolverà in non meno di tre-cinque anni.

Case Via Syrah Colli della Toscana Centrale IGT 2019

Syrah in purezza da una vigna di tre ettari impiantata nel 1985. La 2019 ha vinificato in tini tronco-conici e successivamente ha maturato in barrique usate per quindici mesi.

Pungente al naso e compatto nella prima olfazione, si apre lentamente su marasca e cenni balsamici. Al palato è subito disteso per poi invadere la bocca con la balsamicità  tipica della radice di liquirizia e tornare con note mentolate sul finale.

AZIENDA AGRICOLA FONTODI

Via San Leolino 89

50022 Panzano in Chianti Firenze – Italia