La degustazione dei Vini dei Masi Chiusi al Farm Food Festival a Merano: esperienza guidata da Helmuth Köcher

La seconda edizione del Farm Food Festival ha riscosso un enorme successo di pubblico e apprezzamento presso il Kurhaus di Merano, sabato 9 marzo. Un evento che ha visto la partecipazione dei prodotti dei soci del Gallo Rosso, associazione dedicata alla promozione dell’eccellenza delle specialità altoatesine.

Il Gallo Rosso annovera ben 86 Masi “chiusi”, un termine che richiama alla mente la tradizione locale. Sin dal 1526, quando l’Alto Adige faceva parte dell’Impero Austro-Ungarico, fu emanato un primo editto che regolamentava i Masi. Maria Teresa D’Austria confermò questa disposizione nel 1770 con un regolamento preciso. Anche se nel 1929 questa legge tirolese fu abolita sotto il regime fascista, la cultura dei Masi Chiusi continuò a essere praticata fino a essere nuovamente riconosciuta nel 1954. In Alto Adige, questa peculiarità conta più di 11.000 Masi chiusi, una caratteristica che non si riscontra nel vicino Trentino.

Le caratteristiche distintive di un Maso chiuso riguardano l’estensione dei terreni, intorno ai 3,5 ettari, la produzione e la lavorazione delle materie prime all’interno della stessa realtà, nonché la capacità di garantire l’autosufficienza attraverso la produzione stessa. I prodotti assaggiati durante il Farm Food Festival erano di eccellente qualità e rispettavano rigorosi criteri di produzione.

Per quanto riguarda la produzione di vino, un Maso non può essere considerato una vera e propria azienda vinicola; si fa riferimento alla cultura contadina, espressa nel termine “weingut”. Tuttavia, la limitata produzione è di grande interesse e qualità, come dimostrato dagli assaggi proposti dal patron del Merano Wine Festival Helmuth Köcher.

Il contadino non si affida a un enologo, a un direttore commerciale o a un esperto di marketing, ma produce secondo le competenze acquisite e tramandate nel tempo, che riflettono la cultura altoatesina e la ricerca di soluzioni per adattarsi al cambiamento climatico.

Durante la degustazione, sono stati proposti 4 vini bianchi e 4 rossi. Il primo vino, prodotto da Griesserhof situato a 750 metri sul livello del mare nel comprensorio di Bressanone, è un Kerner, vitigno nato dall’incrocio tra il Riesling Renano e la Schiava Grossa (conosciuta anche come Trollinger). Con note di pesca bianca e frutta tropicale, coltivato nel vigneto Gall con esposizione sud-est, questo vino si distingue per la sua freschezza e pulizia.

La seconda proposta è un Pinot Bianco di grande eleganza e precisione, proveniente dal Maso Rinnhof nella zona di Termeno, con vigneti a circa 300 metri di altitudine. Note di mela, acidità equilibrata e piacevolezza di beva caratterizzano questo vino.

Segue una terza referenza, il Gewürztraminer dell’azienda Rasslhof, varietà vocata in Alto Adige. Con note di litchi, rosa e spezie, questo vino aromatico si abbina perfettamente a piatti esotici e a base di zafferano.

Particolare attenzione è stata dedicata ai vini da vitigni Piwi, resistenti alle malattie. Il Quessaris, prodotto da Muscaris, è un incrocio tra Solaris e Moscato Giallo dell’azienda Höuslerhof a Varna, in Alta Valle Isarco. Caratterizzato da garbata aromaticità e una nota sapida in chiusura.

La degustazione prosegue con una selezione di vini rossi, a cominciare dalla Schiava Grigia prodotta dal Maso St. Quirinus di Caldaro. Questo vino, che rappresentava un tempo l’identità della regione, mostra una qualità intrinseca con delicati sentori fruttati e un tannino setoso.

Il Blauburgunder prodotto a circa mille metri di altitudine dal Maso Widum Baumann sopra Bolzano, offre espressioni di frutta rossa succosa al naso e una struttura che invita a una piacevole e appagante bevuta.

Tra i vini rossi da vitigni Piwi, il JPK 2016, prodotto da Chambourcin dallo Strickerhof, ne rappresenta l’ultima uscita poiché il figlio del produttore non ha creduto nelle potenzialità di questo vitigno e ha espiantato il vigneto. Peccato.

La degustazione si conclude con il Cabermol di Höuslerhof, dal vitigno Cabernet Cortis nato dall’incrocio tra Cabernet Sauvignon e Solaris, che promette un buon potenziale evolutivo.

Il messaggio trasmesso da Helmuth Köcher riguardo all’utilizzo dei vitigni Piwi, come risposta al cambiamento climatico, sottolinea l’importanza della ricerca e dell’adattamento alle nuove sfide, sia a livello individuale che collettivo, per non rimanere semplici spettatori impotenti di ciò che accade.

È importante mantenere l’attenzione alla produzione dei vini dei contadini dei Masi, per il grande pregio, l’identità e la personalità.

L’Italian Sounding Food miete un’altra vittima illustre: il Pomodorino del Piennolo

Il reportage del collega Gaetano Cataldo ai margini di un fenomeno dilagante, che non risparmia neppure il comparto agricolo del Made in Italy.

Da bravi estimatori delle eccellenze della Campania, abbiamo scoperto che per avere contezza del giro di affari attorno all’Italian Sounding, ergo i prodotti farlocchi che imitano il made in Italy, basta ad esempio andare sui canali social, digitare l’hashtag #piennolo e scoprire basiti un mondo di pomodorini gialli e di ogni altro colore, che non sembra certo corrispondere ai canoni di quelli provenienti del Vesuvio. La vera sorpresa, però, arriva dall’esistenza di produzioni di origine europee, scandinave e statunitense, con improbabili dizioni in etichetta, spacciate per il famoso e squisito oro rosso campano.

Se gli organi di controllo non avessero idea di dove andare a pescare i prodotti taroccati, dovrebbero fare semplicemente amicizia con il web per scoprire l’oscuro business sul Pomodorino del Piennolo dop del Vesuvio. La sua origine, il colore, la tecnica del venire appeso per essere degustato anche a distanza di mesi dalla raccolta, è come svuotare il mare con un secchiello.

Parliamo del famoso Pomodorino Pizzutello tradizionalmente coltivato, come indicato nel Disciplinare di Produzione, nei territori dei comuni di Boscoreale, Boscotrecase, Cercola, Ercolano, Massa Di Somma, Ottaviano, Pollena Trocchia, Portici, Sant’Anastasia, San Giorgio a Cremano, San Giuseppe Vesuviano, San Sebastiano al Vesuvio, Somma Vesuviana, Terzigno, Torre Annunziata, Torre del Greco, Trecase, oltre che parte del territorio del comune di Nola, delimitata perimetralmente dalla strada provinciale congiungente Piazzola di Nola al Rione Trieste, per il tratto che va sotto il nome di “Costantinopoli”, dal “Lagno Rosario”, dal limite del comune di Ottaviano e dal limite del comune di Somma Vesuviana.

Nulla di nuovo per i consumatori dell’area napoletana e di tutta la Campania, che da decenni conoscono ed apprezzano le indiscusse proprietà organolettiche del Pomodorino del Piennolo Dop, per non parlare dei tanti italiani che dimostrano un interesse sempre maggiore per la prelibatissima cultivar di Solanum Lycopersicum, il nome tecnico della varietà appartenente alla famiglia delle Solanacee.

Un momento decisamente delicato in cui la tutela dei produttori virtuosi e dei diritti dei consumatori deve poter essere garantita e blindata. Nel pomeriggio di giovedì 29 febbraio si è tenuta la terza edizione di “Piennolo Forum”, organizzata da Agros-Consulenti in Campo presso il Castello di Santa Caterina a Pollena Trocchia. Tema del convegno, come riportato anche da alcuni quotidiani, “frodi e contraffazioni, sfide e opportunità”. Sulla carta stampata si leggeva anche che “si tratta di tematiche che non saranno trattate solo ed esclusivamente come argomenti di soppressione di comportamenti errati, ma verranno letti in un’ottica propositiva, offrendo una veduta su strategia di marketing e comunicazione che possano far trasmettere i propri virtuosismi a quelle aziende rispettose delle regole”. Per quanto si evinca un tono alquanto buonista, il target dell’evento è la trattazione del drammatico fenomemo delle frodi e contraffazioni, per discutere insieme delle possibili soluzioni al problema e leproposte a vantaggio dei produttori virtuosi.

Com’è andata in effetti?

Dopo i saluti istituzionali durante la moderazione di Gianluca Iovine, CEO di Agros, arrivano gli interventi istituzionali e, a seguire, i premi istituzionali di “Patto per il Piennolo”: un riconoscimento all’impegno verso la protezione del patrimonio agricolo vesuviano. Raffaele De Luca, presidente del Parco Nazionale del Vesuvio, Salvatore Loffreda, di Coldiretti Napoli, Cristina Leardi, presidente del Consorzio di Tutela del Pomodorino del Piennolo del Vesuvio, Ciro Giordano, presidente del Consorzio di Tutela dei Vini del Vesuvio, e Gabriele Melluso di Assoutenti, sono stati tra i primi relatori, piuttosto allineati su un corale “frodi come opportunità e non un problema”.

Interessante l’intervento culturale della professoressa Paola Adamo, docente dell’Università Federico II di Napoli al Dipartimento di Agraria riguardante il progetto “tomato trace 4.0” utile ai fini della tracciabilità del prodotto. Ci si è occupati principalmente di tessitura del terreno, fornendo la georeferenziazione di tutta l’area inclusa nella Denominazione di Origine Protetta e delle aziende più rappresentative, con dati completi su quote altimetriche, versanti e natura dei suoli. La disanima ha potuto evidenziare quanto certi parametri abbiano un effetto maggiore rispetto al varietale, insomma il potere del terroir sulla cultivar, ed affrontare la differenza tra ciò che nel pomodorino del Piennolo è potenzialmente biodisponibile da ciò che è prontamente disponibile: una differenziazione fornita in base al modello multi-elementare, un modello capace di distinguere anche un pomodoro dop da un non dop al 100% o quasi.

Per poter ovviare a ciò la professoressa Adamo ha fatto presente che lo studio comparato è stato condotto fornendo ai produttori la varietà Principe Borghese, unitamente alle piante di Acampora, Cozzolino e Zizza di Vacca, ergo gli ecotipi del pomodorino vesuviano. Un lavoro complesso che ha potuto fornire ai produttori informazioni diversificate per terreni Dop e non Dop, grazie alla raccolta dei suoli per caratterizzazione, periodo, ambiente, clima e persino sulle principali varietà e sugli ecotipi, appunto.

Intervento evidentemente anticipato e benedetto dalla necessità di “certificare sempre di più” ed avere “strumenti più trasparenti sul mercato”, quello di Pino Coletti che ha evidenziato vecchi studi noti col nome di eyetracking, il tema della storicità del marchio, oltre che l’ovvia conseguenza dello spaccio di prodotti dop falsi comporti i sequestri e quindi la sfiducia nei brand, quindi di blockchain.

Certo il potenziale della certificazione blockchain è alto e i prodotti veicolati dallo stesso hanno un ottimo trend in fatto di penetrazione di mercato, ma sarebbe stato utile ribadire che si tratta pur sempre di una autocertificazione che il produttore di un bene, fuori da altri usi, può depositare in maniera incontrovertibile, certo, ma che non va a sostituire le certificazioni obbligatorie. Sussisterebbe poi uno strumento legale tale da tutelare i cittadini da una dichiarazione mendace, circa il contenuto, e che sanzioni rischierebbe il produttore che faccia uso distorto della blockchain?

Il discorso di Angelo Marciano, Colonnello dei Carabinieri alla guida del reparto dell’Arma deputato del Parco Nazionale del Vesuvio, ha fornito alcuni dati e spunti interessanti: intanto che l’Italian Sounding ha un valore odierno di 100 miliardi, con un’insospettabile crescita in Russia; il che vorrebbe dire che il falso Made in Italy ha un ottimo giro di affari anche durante l’embargo. <<Ha davvero senso, nel disciplinare, indicare i 250 quintali massimo per ettaro di resa, a fronte dei precedenti 150 che una produzione normale non riesce comunque ad esprimere?>>, ha chiesto al pubblico il Colonnello. Il militare ha proseguito dicendo che è importante evitare la perdita di suolo fertile, come accaduto dopo l’incendio sul Vesuvio del 2017, e che <<il rispetto della legalità non uccide l’economia, ma la salva>>.

A seguire Nicola Caputo, Assessore Regionale alle Politiche Agricole e Forestali della Regione Campania, ha richiamato tutti i presenti sulla necessità di una “Dop Economy campana” con aumento degli investimenti, in virtù del numero esiguo di aziende agricole e della bassa produzione. Caputo ha in pratica richiesto una migliore messa a sistema, facendo team work, per tutti i 18 comuni inclusi nel disciplinare, includendo possibilmente altri distretti agronomici, come quello della mela annurca e del pomodoro San Marzano, per un vicendevole sostegno. C’è bisogno di fare gioco di squadra con gli addetti alla ristorazione e trovare sinergie con gli operatori del turismo e dell’accoglienza, per un marketing ed una comunicazione più funzionali.

Al termine dei lavori l’intervento di Davide Parisi, amministratore delegato di Evja, azienda performante nella tecnologia e nell’intelligenza artificiale dedicate all’agricoltura: la sua realtà imprenditoriale ha saputo raccogliere oltre 150 milioni di dati microclimatici in tutto il mondo, grazie a dispositivi che raccolgono informazioni in tempo reale, fornenti anche elementi di geo-localizzazione. Nel discorso si è espresso che l‘esperienza sul campo non potrà mai essere sostituita dall’IA (Intelligenza Artificiale), ma che la stessa dovrà essere supportata per la misurazione dei parametri principali e la memoria dei raccolti, in correlazione tra sonde, stazioni meteorologiche e satelliti.

Presente in sala anche Pasquale Imperato, uno degli animi vesuviani che più fortemente ha voluto tutelare il pomodorino del Piennolo e che ha preteso venisse ancorato alla terra e quindi metterlo nelle mani degli agricoltori, per una maggiore tutela del bene orticolo, diversamente dal pomodoro San Marzano che vede invece la tutela del solo prodotto trasformato. Imperato, oggi fuori dal Consorzio per una scelta di coerenza, continua a produrre con immancabile passione il buonissimo pomodorino e si dice fiducioso circa le modifiche sui criteri per i disciplinari apportati dal Parlamento Europeo.

Per quanto gran parte degli interventi siano stati quantomeno generalisti, va riconosciuta l’importanza di alcuni interventi tecnici e di alcune considerazioni che si sono distaccate da un dibattito decisamente fuori dal titolo che si è voluto dare alla manifestazione: è grazie al pomodorino del Piennolo se il Vesuvio non è “caduto” addosso al territorio di cui è progenitore e custode, costituendo il motivo per cui l’agricoltura è tornata alle pendici del vulcano, favorendo migliorie a partire dal semplice ripristino dei muretti a secco, ai campi coltivati con tante altre varietà orticole ed ai vigneti, grazie a cui si contrasta quotidianamente il dissesto idrogeologico e la disgregazione delle comunità rurali. Per poter avviare un’attività ed ottenere dei permessi, chiedere il parere ad enti di varia natura, talvolta ci si imbatte in lungaggini farraginose, punitive, superflue e limitanti. Così come è troppo frequente che i moduli di denuncia anonima delle frodi, eccellente strumento per contrastare gli illeciti e superare il muro dell’omertà, restino inutilizzati. Fatto sta che si è sentita la nostalgia di una disanima concisa sul nocciolo della questione, a causa di un costante ruotarvi attorno con discorsi certo importanti, ma sin troppo periferici.

Va altresì considerato che nel corso degli anni la forza lavoro deputata ai controlli è stata più che dimezzata, per non parlare della soppressione del Corpo Forestale dello Stato, entrambi sintomo di una evidente impossibilità a ricoprire qualsiasi territorio per qualsivoglia verifica finalizzata a scoraggiare i brogli. Con l’attuale ammanco di personale, chi potrà eseguire i necessari controlli di conformità? E non sarebbe il caso di chiedersi se sia opportuno istituire dei panel test di modo che assaggiatori competenti canonizzino le proprietà organolettiche dell’oro rosso vesuviano? E, perché no, immaginare se si possano qualificare controlli in base ai rapporti isotopici che si generano peculiarmente ogni anno nella relazione tra il suolo ed il prodotto stesso?

Ai posteri l’ardua sentenza.

“Salutateli!” – La noce e l’arancio biondo della Penisola Sorrentina rischiano di scomparire per sempre nel silenzio

Dei giardini di aranci a Sorrento e del loro profumo ne parla una delle più celebri arie della canzone napoletana, “Torna a Surriento”, testimone del fatto che non solo erano presenti e rigogliosi già alla fine dell’800, ma che erano talmente radicati nell’immaginario collettivo da costituire un ricordo indelebile per chi partiva dopo un breve periodo di soggiorno. La coltivazione dell’arancio biondo in Penisola Sorrentina è attestata sin dal 1300: si tratta di un frutto dal gusto straordinario, molto riconoscibile, il cui succo è piacevole ed equilibrato.

Anche la noce appartiene alla cultura del territorio da tempo immemore, basti pensare che negli scavi di Villa Regina a Pompei è presente un calco di noce della stessa tipologia ancora esistente in Penisola Sorrentina, quello della cultivar Sorrento e coltivato secondo il metodo tradizionale. La peculiarità delle noci della Penisola Sorrentina risiede nelle specifiche caratteristiche organolettiche, determinate dal microclima di questa lingua di terra collinare distesa sul mare: dolci e aromatiche al palato, non presentano il retrogusto amaricante tipico della noce neanche quando vengono gustate fresche. Entrambi prodotti tipici che hanno scritto la storia, le tradizioni gastronomiche di un territorio e ne caratterizzano il paesaggio: due prodotti che rischiano l’estinzione perché minacciati dall’agricoltura industriale.

Slowfood e in particolare la Condotta Costiera Sorrentina e Capri cercano di tutelarne l’integrità attraverso la costituzione di presidii, comunità e l’organizzazione di eventi che ne favoriscano la conoscenza tra i consumatori. <<I Presidii sono delle Comunità>> spiega Pier Luigi D’Apuzzo, fiduciario della Condotta <<la cui costituzione avviene attraverso la sottoscrizione da parte di tutti i produttori di una dichiarazione fondativa che ne definisce gli obiettivi>>.

Uno degli obiettivi principali è chiaramente quello di salvare le biodiversità, tutelare gli ecosistemi e le risorse naturali di un determinato territorio. Fino al secolo scorso, la coltivazione della noce costituiva la principale fonte di reddito degli agricoltori della Penisola Sorrentina. Era considerata pregiata, tanto da essere quotata alla Borsa di Napoli, ricercata dai mediatori di tutta Italia ed esportata negli Stati Uniti.

L’albero raggiunge un’altezza compresa tra i 25 e i 30 metri e diventa produttivo a dieci anni dalla messa a dimora. La resa media di noci secche per pianta adulta nel pieno della sua produzione (ed in condizioni ottimali) è stimata in circa 25 – 30 Kg, come da Disciplinare. La raccolta tradizionale avviene tramite bacchiatura: i rami vengono colpiti con lunghe pertiche di legno di castagno da terra o arrampicandosi per arrivare a colpire le propaggini più alte. Successivamente alla smallatura, segue un periodo di essiccazione al sole, variabile da una settimana fino a tre, a seconda delle condizioni climatiche. Le caratteristiche della pianta e della sua coltivazione, unite a quelle geomorfologiche del territorio che non consentono la meccanizzazione, sono le motivazioni che hanno portato, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso,  al progressivo abbandono di questa coltivazione. Le varietà internazionali più fruttifere e di più facile gestione agronomica hanno poi nel tempo soppiantato sui mercati la noce proveniente dalla Penisola Sorrentina.

È ancora vivo, nella memoria delle persone più anziane, il ricordo del rumore secco procurato dalle pertiche che “bacchiavano” i rami dei noci: tac, tac, tac un suono cadenzato e secco, un richiamo che correva da un versante all’altro delle colline e rimbombava nel silenzio dell’autunno. Un rumore che oggi è possibile sentire solo nei pochi giardini che ancora conservano la tradizione di questa coltivazione. Il Presidio noce della Penisola Sorrentina è nato nel giugno 2018 e oggi conta una decina di produttori che hanno sottoscritto il disciplinare, in cui leggiamo che “secondo stime fatte con l’aiuto dei coltivatori, attualmente la produzione dovrebbe essere di circa 150 tonnellate”.

Stima da considerare al ribasso per gli anni successivi al 2018 visto che nel frattempo, causa i cambiamenti climatici in corso, il noce è stato soggetto a diversi infestanti e parassiti, che, nel 2022,  hanno compromesso buona parte del raccolto. Tra le iniziative promosse da Slowfood e dal presidio, ci sono i periodici laboratori del gusto, organizzati come sessioni di degustazione comparativa tra la noce coltivata in Penisola Sorrentina, quella della stessa qualità coltivata fuori dal territorio del presidio e le varietà internazionali più facilmente reperibili.

Leggermente diversa la situazione dell’arancio biondo, ancora presente nei giardini sorrentini, ma sempre meno conosciuto e apprezzato anche a livello locale. Il problema sono i semini presenti all’interno della polpa, per cui, a tavola, la preferenza dei consumatori ricade su altre varietà. Nonostante l’altissima resa dell’arancio sorrentino in termini di succo, la stagionalità del prodotto molto lunga (la raccolta parte a dicembre e si spinge fino a maggio) e il suo sapore particolarmente dolce, la difesa di questo prodotto è affidata ai rari produttori che ne curano ancora la coltivazione e al mercato esclusivamente locale.

<<Da anni stiamo lavorando per salvaguardare, tutelare e recuperare eccellenze dimenticate della penisola sorrentina come l’arancio biondo sorrentino>> spiega sempre Pierluigi D’Apuzzo. <<Importanti le iniziative per i più piccoli – tra le quali ricordiamo lo spremuta day che realizziamo ogni anno dal 2017 all’interno del parco di Villa Fiorentino (a Sorrento ndr) oltre che negli agrumeti, nelle scuole e nelle piazze di Piano di Sorrento, Massa Lubrense e Sant’Agnello. Questa è una delle iniziative che meglio incarna le idee di lotta allo spreco alimentare e riduzione degli scarti, vede ospiti gli alunni delle scuole primarie ed ha lo scopo di promuovere la conoscenza ed il consumo delle arance sorrentine sotto forma di succo, esaltandone le caratteristiche nutrizionali e le proprietà benefiche attraverso un percorso ludico-educativo pensato ad hoc per i più piccini che va dall’assaggio guidato, al gioco, al riconoscimento delle etichette. La difesa della salute, degli ambienti paesaggistici e delle piccole economie locali si realizza a tavola, educando il gusto dei più piccoli, imprimendo indelebilmente nella loro memoria sensoriale i sapori del territorio>>.

L’arancio biondo non è un presidio, ma è registrato nell’Arca del Gusto Slowfood, iniziativa che raccoglie i prodotti appartenenti alla cultura, alla storia e alle tradizione di tutto il pianeta, denunciando il rischio che possano scomparire.

<<È  però possibile che  anche i piccoli produttori delle arance della qualità biondo sorrentino si incontrino e si aggreghino per tutelare non solo un prodotto dalle qualità eccezionali ma anche per salvaguardare un paesaggio caratterizzante la penisola sorrentina: ovvero i famosi giardini sorrentini costituiti da alberi di arancio biondo sorrentino e limoni di Sorrento>> conclude D’Apuzzo.

Una delle ultime iniziative in ordine cronologico organizzate per favorire la conoscenza di questi prodotti, è stata la serata dello scorso 8 Marzo presso Antonino Esposito Pizza & Cucina – ristorante alla Marina Piccola di Sorrento segnalato nella Guida Osterie Slowfood. In occasione della serata dedicata all’abbinamento pizza vino, lo chef Esposito ha creato due pizze utilizzando noce e arancio biondo sorrentino: la pizza Sorrento con treccia sorrentina, limoni di Sorrento IGP, scaglie di Provolone del Monaco DOP, fiocchi di ricotta di fuscella e all’uscita noci della Penisola Sorrentina, la pizza con arancia bionda sorrentina, treccia sorrentina, scaglie di cioccolato fondente e arancia. Un’occasione unica per riportare l’attenzione dei consumatori su due prodotti della tradizione, rivisitati per assecondare il gusto moderno della pizza in abbinamento al vino.

Birrificio Serrocroce: la filiera agricola ha inizio dalle acque del territorio

Vito e Carmela Pagnotta hanno gli ingredienti giusti per produrre una birra di alta qualità. Ma la qualità dal Birrificio Serrocroce a Monteverde (AV), nel cuore dell’Irpinia, non può prescindere dal concetto di artigianalità e di filiera agricola.

Guardando le pubblicità e le comunicazioni spicciole del marketing, sembra ormai tutto “artigianale”; ma cosa significa davvero un termine abusato spesso per meri fini commerciali? Da Vito la risposta è semplice: non creare birre in base alla moda ed ai gusti del momento, senza grandi quantità stereotipate e mantenendo, invece, un sapore genuino in ogni aspetto della degustazione.

Ciò è possibile solo grazie ad una filiera agricola controllata, a “metro zero”, da coltivatore cerealicolo, di luppolo Cascade e di spezie come il coriandolo. Elementi fondamentali nel rapporto di proporzioni stabilito ancora dall’Editto della Purezza del sedicesimo secolo. Manca all’appello un componente indispensabile, che segna il passo tra Uomo e Natura. Un legame profondo con il territorio d’appartenenza, non replicabile in serie: l’acqua.

Serrocroce si approvvigiona dalle riserve idriche delle sorgenti di Caposele, tramite l’acquedotto pugliese. Ma il sogno di Pagnotta è un altro: quello di poter fruire dell’acqua potabile presente nei pozzi attigui al birrificio, ad 80 metri di profondità. Acque dure, ricche di sali minerali che donano carattere e consistenza all’assaggio. D’altro canto il panorama ancora selvaggio e aspro è esso stesso un valore aggiunto per chi si trova a visitare le sue verdi terre, a 740 metri d’altezza, nel territorio di Monteverde, precisamente ai piedi del Serro della Croce, il più alto dei colli che dominano la Valle dell’Osento.

Sei le versioni ideate, dalla classica Blonde Ale all’Ambrata, per finire con le Saison (una da grano Senatore Cappelli coltivato in fattoria) ed una gustosa Apa con quel tocco amaricante dato dai luppoli selezionati. E per non dimenticare il luogo natio della famiglia, una birra venduta unicamente a Monteverde, dedicata all’infaticabile lavoro dei propri contadini che salvaguarda un intero comparto economico, evitando lo spopolamento delle campagne.

Molte, infine, le iniziative gastronomiche: dalla composta di birra, alla panificazione, ai taralli e chissà, in futuro potrebbe essere il turno di un piccolo pastificio sempre con le farine locali. Di progetti in pentola ce ne sono tanti, ma quello più importante è tra le pagine non scritte della storia e parla di sacrificio, forza di volontà e resilienza. Un amore per la terra che può capire solo chi, con la terra, si sporca le mani ogni giorno.

Presentazione del primo VSQ Metodo Classico” Sheep” Extra Dry da coda di pecora della cantina Il Verro

Il Verro: da ‘U Verru, come localmente è chiamato il maschio del cinghiale, è l’azienda vitivinicola nata nel 2003 dal desiderio comune di cinque amici, oggi di proprietà di uno solo di loro, l’ingegnere Cesare Avenia. Situata nel comune di Formicola (CE), in una conca naturale tra i Monti Maggiore e Viggiano, con i suoi cinque ettari vitati produce circa 30.000 bottiglie annue da soli vitigni autoctoni in purezza. Era l’ottobre del 2017, in occasione di una loro “cantine aperte”, quando ho fatto loro visita per la prima volta ed ho avuto il piacere di conoscere Cesare e la consorte Bice De Pandis.

In quella splendida giornata di inizio autunno, abbiamo passato un bellissimo pomeriggio, interessante e rilassante. Cesare era all’inizio di un percorso fino ad allora a lui sconosciuto, ma da come gli brillavano gli occhi parlandoci di viti e di vino, capii che l’uomo tutto d’un pezzo, con una storia professionale importante nel mondo delle telecomunicazioni, avrebbe fatto grandi cose anche nella veste di produttore.

Ed arriviamo allo scorso 15 febbraio, nei locali della storica Hostaria Massa di Caserta, ritrovando Cesare con accanto la sua signora e negli suoi occhi la stessa luce di allora. L’occasione è stata quella di una serata molto “easy”, con amici che conoscono la storia, seduti attorno ad un tavolo per condividere la realizzazione di un sogno: il suo primo VSQ Metodo Classico dall’autoctono vitigno Coda di Pecora, lo “Sheep Extra Dry”, e per l’occasione, abbiamo assaggiato anche due vinificazioni sperimentali di Pallagrello Bianco e Pallagrello Nero. <<Ogni arrivo è comunque una partenza, una main stone>> dichiara Avenia.

Un team di collaboratori e comunicatori di altissimo livello siedono al suo fianco: l’amica e giornalista enogastronomica Antonella Amodio, l’enologo Vincenzo Mercurio e il microbiologo Giancarlo Moschetti che prende per primo la parola, Ordinario di Microbiologia Agraria e Presidente del Corso di Laurea in Viticoltura ed Enologia dell’Università di Palermo, per raccontarci il faticoso studio svolto sul DNA del Coda di Pecora, grazie anche alla collaborazione dell’ampelografa Antonella Monaco. Nel 2023 si è riusciti finalmente a farlo inserire con il numero 954 nel “Registro Nazionale delle Varietà di Vite” autorizzate alla produzione di vini. Tale vitigno, dopo anni di confusione con la Coda di Volpe, finalmente ha una sua identità che fin dai primi suoi assaggi smentiva qualsiasi legame con essa, sia per profumi che percezione gustativa.

Moschetti ci ha poi parlato del loro “Metodo Memo”, un modo per ritornare alle fermentazioni prima del 1980, quando i coadiuvanti erano vietati. Un lavoro in vigna per isolare un lievito aziendale, perché il territorio de “Il Verro” è un ambiente ricco di biodiversità: 36 specie di uccelli che nidificano, 405 specie di serpenti stanziali, istrici, lupi, api e vespe, tutti attori fondamentali per lo sviluppo dei lieviti in vigna. In laboratorio li hanno isolati e chiamati stagionali, visto l’apporto indispensabile della fauna nel diffonderli. I lieviti stagionali interagiranno, poi, con altri di cantina durante le fermentazioni spontanee.

La degustazione

Si è iniziato con due vini considerati sperimentali, da Pallagrello Bianco e Pallagrello Nero vendemmia 2019, imbottigliata in magnum. Nati con la collaborazione dell’Università di Palermo e della società di consulenza enologica “Le Ali di Mercurio”, queste bottiglie non sono in commercio e Cesare preferisce chiamarle piuttosto “le mie Riserve”, entrambe provenienti da un’annata eccellent durante la quale si è potuto iniziare l’uso dei lieviti stagionali.

Pallagrello Bianco Sperimentale 2019

L’enologo Vincenzo Mercurio ci prepara ad un vino dall’accattivante veste dorata, che si impadronisce subito della scena. Un vino dalla funzione esplorativa, a differenza delle vinificazioni che normalmente vengono imbottigliate verso maggio-giugno successivi alla vendemmia.

Gradevole intensità di profumi, dove le affumicature unite a pietra focaia anticipano un erbaceo di macchia mediterranea; non mancano il fruttato ed il floreale. Bocca proporzionata, con morbidezza in equilibrio ed a supporto delle freschezze, in un sorso da ripetere. Leggera astringenza da tè verde e lunga scia sapida finale. Un vino dalle grandi potenzialità evolutive.

Un Pallagrello Bianco da evoluzione, in grado di reggere l’affinamento in vetro fino e oltre dieci anni. Bisogna fare un po’ di sana autocritica, per riuscire finalmente a comunicare nel modo giusto che i bianchi non vanno bevuti solo d’annata.

Pallagrello Nero Sperimentale 2019

A questo vino non sono stati aggiunti solfiti e a detta di Vincenzo Mercurio, è un vino più estremo del Pallagrello Bianco, con fermentazione 100% spontanea. Inizialmente rustico, tramite il contatto con l’aria, si ingentilisce, dimostrando un naso da frutta (amarene) ancora croccante, tocchi di sottobosco e bocca succosa, fresca e sapida, dal finale leggermente amaricante. Un vino ancora in cerca della sua identità.

VSQ Metodo ClassicoSheep” Extra Dry

Da un ettaro e mezzo di Coda di Pecora, si producono appena 1.300 bottiglie di spumante e circa 3.000 di bianco fermo. Per non snaturare quelle che sono le caratteristiche del vitigno si è anticipata la raccolta per la spumantistica.

Affinamento sui lieviti di trenta mesi, anche se si punta a prolungarlo a sessanta mesi. Si intuisce che abbiamo difronte uno spumante evoluto, le bollicine sono fini e carezzevoli, manca però di quella leggera astringenza che ha lo Sheep fermo; il naso è molto fruttato, con richiami marini di conchiglie d’ostrica.

Anche noi continuiamo ad imparare, bevendo i vini delle persone che conosciamo. Grazie Cesare Avenia.

Il crescente mercato dei Vini Dealcolati: alcuni spunti per opportune riflessioni

Siamo cronisti. Osserviamo e cerchiamo di informare al nostro meglio chi ci legge sulle pagine di 20Italie. Il tema è quanto mai attuale e scottante. Merita un dovuto approfondimento in maniera imparziale dal nostro autore Olga Sofia Schiaffino.

Nell’ultimo anno, il mercato dei vini dealcolati ha conosciuto una crescita significativa, alimentata dalla domanda di alternative a basso contenuto alcolico e dalla sempre maggiore consapevolezza dei consumatori riguardo agli effetti del consumo di alcol sulla salute. Questa tendenza non solo riflette uno spostamento verso uno stile di vita più sano, ma anche un interesse crescente per l’innovazione nel settore vinicolo.

La tendenza verso i vini a basso contenuto alcolico

Mentre il vino tradizionale rimane popolare in molte regioni del mondo, c’è una chiara tendenza verso prodotti a minor contenuto alcolico. Questo è particolarmente evidente tra i consumatori più giovani e consapevoli della salute, che cercano alternative che permettano loro di godere della cultura del vino senza gli effetti negativi dell’eccessivo consumo di alcol.

Il processo di dealcolazione

I vini dealcolati vengono prodotti attraverso un processo di rimozione dell’alcol dal vino, che può essere realizzato in diversi modi. Uno dei metodi più comuni è l’osmosi inversa, in cui il vino viene filtrato attraverso membrane che separano l’alcol dagli altri componenti. Un altro metodo consiste nell’evaporazione sottovuoto, in cui il vino viene riscaldato a temperature inferiori al punto di ebollizione dell’alcol, consentendo la sua rimozione senza compromettere eccessivamente il profilo aromatico del vino.

L’importanza del profilo aromatico

Una delle sfide principali nella produzione di vini dealcolati è preservare il profilo aromatico e gustativo del vino originale. Poiché l’alcol contribuisce in modo significativo alla struttura e al sapore del vino, è essenziale utilizzare tecniche che minimizzino la perdita di composti aromatici durante il processo di dealcolazione. I produttori di successo investono quindi in tecnologie avanzate e processi delicati per garantire che il vino risultante mantenga le sue caratteristiche distintive.

La variegata offerta sul mercato

L’offerta di vini dealcolati è diventata sempre più variegata, con una vasta gamma di opzioni disponibili per i consumatori. Dai vini bianchi freschi e fruttati ai robusti rossi invecchiati, c’è qualcosa per tutti i gusti e le preferenze. Inoltre, molti produttori offrono vini dealcolati biologici e provenienti da viticoltura sostenibile, per soddisfare la crescente domanda di prodotti eco-friendly.

La tendenza verso la salute e il benessere fisico

Il crescente interesse per i vini dealcolati riflette anche una tendenza più ampia verso uno stile di vita sano e il benessere fisico. I consumatori sono sempre più consapevoli degli effetti negativi dell’eccessivo consumo di alcol sulla salute e cercano alternative che consentano loro di godere della convivialità e della socializzazione associate al consumo di vino, senza compromettere il loro benessere complessivo.

Durante la manifestazione Wine and Siena, promossa da Helmuth Köcher e da Merano Wine Festival era presente Vinuci, un’azienda di Bolzano che ha iniziato nel 2021 a creare vini dealcolati, proprio per rispondere a quella fetta di consumatori interessati alla socializzazione senza l’effetto dell’alcol. Le bevande analcoliche, a base di vino e spumante, vengono prodotte utilizzando le tecniche più innovative per garantire un’alta qualità e un profilo organolettico accattivante.

L’azienda produce 5 tipologie, partendo da una base di vino intorno al 93-94%, da mosto d’uva rettificato o succo di frutta, anidride carbonica per quanto concerne la tipologia frizzante. I vini utilizzati provengono in maggior parte dalla Germania e con una base riesling si ottiene Allegro, un vino frizzante dealcolato con sentori che ricordano la frutta gialla matura e gli agrumi. Sicuramente non si può approcciare questa tipologia pensando di trovarsi di fronte a un calice con i profumi e le sensazioni che ci potremmo aspettare dal vitigno dichiarato in etichetta; questo non vuol dire che si possano trovare esempi interessanti, in cui si ritrova una piacevolezza dell’assaggio. Allegro è tra questi ed è stato premiato con il bollino rosso di The Wine Hunter.

Una tipologia che merita sempre maggior approfondimento, per un giudizio onesto e accurato, che non risenta di preconcetti o di chiusure intellettuali. I vini dealcolati potrebbero rappresentare sempre di più una scelta attraente per coloro che desiderino godere di un prodotto alternativo al vino.

A Milano si parla dell’Oro verde della Puglia, in collaborazione con Gambero Rosso ed il Consorzio Igp Olio di Puglia

Abbiamo inviato i nostri cronisti Carolina Leonetti e Andrea Russetti a raccontare un evento importante nel panorama della produzione italiana dell’Olio Extravergine d’Oliva. Leggiamone il loro interessante resoconto.

Nella splendida cornice dell’Osteria del Treno, lo scorso 4 Marzo, Gambero Rosso e il Consorzio IGP Olio di Puglia hanno acceso i fari sull’Oro Verde di Puglia, l’Olio Extravergine d’Oliva. Un appellativo pregiato quanto la storia millenaria della coltivazione dell’ulivo in questa regione. Una tradizione produttiva che si tramanda di generazione in generazione.

Grande l’affluenza per le degustazioni, accompagnate da alcune eccellenze gastronomiche del territorio delle aziende: Le 4 Contrade, Il Quadrato Delle Rose, Masseria Cusmai e Masseria Miscioscia, oltre che da alcuni assaggi iconici dell’Osteria e da una bella selezione di vini del territorio del Consorzio Primitivo di Manduria DOP, Salice Salentino DOP e Brindisi DOP.

Un percorso di valorizzazione di questa eccellenza che Maria Francesca Di Martino, Presidente del Consorzio IGP Olio di Puglia, descrive così: “Il nostro Consorzio, in sinergia con Gambero Rosso, sta realizzando, in Italia ed all’estero, una serie di iniziative volte a promuovere il prodotto cardine della nostra regione, l’olio extra vergine di oliva. Il nostro obiettivo è quello di far conoscere e riconoscere anche e soprattutto ai non addetti al settore che più del 40% dell’olio evo di qualità prodotto in Italia è in realtà made in Puglia”.

Una bella carrellata delle tante tipicità varietali: l’oliva Leccino, la Coratina, la Cellina di Nardò, la Paranzana e l’Ogliarola. La presidentessa del Consorzio precisa che la nascita dello stesso avviene nel 2020 subito dopo l’ottenimento della certificazione IGP olio di Puglia del dicembre2019. Il Disciplinare prevede che tutte le fasi di produzione dell’olio siano effettuate in Puglia: le olive sono pugliesi, i frantoi hanno gli stabilimenti nella regione così come gli imbottigliatori. Il logo del Consorzio ha come simbolo una moneta traiana (una donna con in mano un trancio di olivo) riferimento alla strada traiana che fa da trait d’union tra le province pugliesi.

Un numero importante: in Puglia ci sono più di sessanta milioni di piante d’olivo, la regione rappresenta, da sola, circa la metà del prodotto oleario nazionale. Tanti i riconoscimenti: qui risiedono alcune delle aziende più iconiche del settore, sintomo di un prodotto che sta sempre più dimostrando che qualità e quantità possono andare di pari passo

Si dice che “Ogni Puglia ha il suo albero” perché gli ulivi secolari pugliesi sono dei monumenti viventi, un manifesto regionale. Queste piante influenzano l’ecosistema locale circostante, ma anche l’economia e la cultura da tante ere, basta guardare lo Stemma Regionale in cui campeggia un florido ulivo.

I marcatori più indicativi sono l’amaro leggero e un retrogusto che rimanda a erbe e/o ortaggi. I profumi ricordano mandorla, erba tagliata, carciofo, all’interno di un corredo aromatico mediamente intenso. Il colore dell’olio non dovrebbe influenzarci, d’altronde le degustazioni nelle commissioni tecniche prevedono calici che non lo lascino trapelare (al fine di non condizionare l’analisi organolettica), comunque le nuance possono andare dall’oro intenso al verde scuro. La torbidità è naturalmente dovuta a una voluta assenza di filtraggio al fine di conservare ancora di più le qualità del frutto.

Le qualità nutritive sono di ottimo livello, l’acidità è dello 0.4%, vi è ricchezza di acido oleico, antiossidanti (tocoferolo), vitamina E e caroteni. La raccolta avviene quasi esclusivamente a mano, garantendo selezione fin dall’inizio al fine di evitare malattie, fermentazioni o muffe.

La Xylella e il futuro

Non poteva mancare un accenno al male che ha falcidiato l’olivicoltura negli ultimi anni. Il Batterio Xylella Fastidiosa è giunto in Puglia nel 2008 presumibilmente da piante di Caffè Costaricane e in pochi anni ha ridotto la popolazione degli uliveti di quasi il 90%. Circa 21 milioni di ulivi morti, in alcuni casi espiantandoli preventivamente per tentare di arginare il male. Sebbene sia rallentata è ancora presente nel territorio e i produttori stanno rispondendo alla battaglia adottando cultivar resistenti come il Leccino, che vedremo sempre di più in futuro.

La degustazione tenuta da Indra Galbo, della guida Oli d’Italia di Gambero Rosso

Taurino – IGP Olio di Puglia monocultivar Leccino

Siamo nella zona del Salento, dove i fratelli Donato e Rosaria conducono l’Azienda Agricola. Tutte le fasi del processo produttivo, dalla produzione delle olive, all’estrazione, all’imbottigliamento avvengono nell’azienda stessa. Assaggiamo un olio delicato, equilibrato e leggermente fruttato che bene si abbina a piatti a base di pesce e ad insalate delicate.

Pantaleo – IGP Olio di Puglia monocultivar Coratina

Oltre cento anni di tradizione e quattro generazioni di imprenditori che creano prodotti di alta qualità. La varietà Coratina è la regina di gran parte della Puglia, è la varietà che contiene più polifenoli. L’olio degustato presenta un amaro e piccante importanti con sentori di rucola ed erba tagliata.

Olearia Clemente – IGP Olio di Puglia (blend di Coratina e Ogliarola)

Siamo a Manfredonia dove da oltre 120 anni la famiglia produce olio di oliva direttamente dai loro uliveti che si estendono nel cuore del Parco Nazionale del Gargano. Il prodotto in degustazione si presenta delicato con note di mandorla dolce ed erbacee.

Olio Guglielmi – IGP Olio di Puglia monocultivar Coratina

Azienda molto estesa e celebre di Andria. Naso erbaceo, vegetale, ricordi di mandorla, sensazioni di zenzero. L’assaggio è deciso, molto amaro ma anche piccante, coerentemente vegetale.

Frantoio Oleario Congedi – IGP Olio di Puglia (blend di Favolosa e Coratina)

Altra azienda salentina che unisce la qualità a un grande impegno nella sostenibilità. Sentori al naso di foglia di pomodoro, carciofo, mandorla amara e vegetale, corpo medio.

Frantoio Bitetti – IGP Olio di Puglia monocultivar Coratina

Siamo a Ginosa: l’azienda racconta una passione tramandata di padre in figlio. Di grande equilibrio, al naso emergono sensazioni di valeriana, verdure, piccantezza media e ben amalgamata.

De Carlo – IGP Olio di Puglia (blend di Coratina, Ogliarola Barese, Leccino, Peranzana)

Azienda storica del barese. Naso ricco di note vegetali, di vario genere, dalla cicoria al caco, passando per erbe di campo e mandorle. Equilibrio gustativo puntuale, lascia una lunga e piacevole scia al suo passaggio.

Le Ferre – IGP Olio di Puglia monocultivar Coratina

In provincia di Taranto, produce, confeziona e commercializza olio extravergine d’oliva. Posta in una vallata tra mare e collina con un microclima ideale per coltivazione delle olive. In assaggio un olio dalla spiccata piccantezza, sentori vegetali e mandorla amara.

Di Martino – IGP Olio di Puglia monocultivar Coratina

Da oltre trecento anni produce olio. Innovazione e tradizione si fondono per dare vita a prodotti di qualità espressione evidente del territorio. Verticale e tagliente in degustazione, dove il vegetale e la mandorla amara sono bene evidenti.

Le vigne di città

Sì, avete letto bene, le vigne in città esistono, si insediano nel caos cittadino regalando scorci verdi e grappoli urbani che osservano silenziosi la metropoli. Un patrimonio testimonianza di vita e storia, oggetto di conservazione e valorizzazione che contribuisce alla sostenibilità delle città.

Passeggiare tra i filari vi catapulterà in un’altra dimensione, silenzio, profumi e colori che fanno da contraltare al traffico e all’inquinamento.

Io ne ho visitate alcune, in Italia e all’estero, venite con me in questo racconto che unisce storia, tradizioni, cultura e VINO.

MILANO – La vigna di Leonardo

Il trentenne Leonardo da Vinci arriva a Milano nel 1482, abbandona la corte di Lorenzo de’ Medici per spostarsi in quella di Ludovico Maria Sforza, detto il Moro. Ad accogliere il Genio una città che nulla ha da invidiare a Firenze, si respira un grande fermento culturale ed artistico che gli consente di stringere amicizia con gli artisti e gli artigiani milanesi e riceve le prime commissioni per opere e scenografie.

Solo diversi anni più tardi, nel 1495, dopo che l’artista si è fatto le ossa, Ludovico il Moro gli assegna l’incarico di dipingere un’Ultima Cena nel refettorio dei frati Domenicani e nel 1498 concede a Leonardo la proprietà di una vigna di 16 pertiche (circa un ettaro di terreno).

Possiamo immaginare Leonardo che dopo una giornata di lavoro al cantiere del Cenacolo, attraversa il Borgo delle Grazie e la casa degli Atellani, per passeggiare tra i filari della sua vigna.

In seguito, quando le truppe francesi sconfiggono Ludovico il Moro, Leonardo lascia Milano ma continuerà ad occuparsi della sua vigna anche da lontano e la citerà nel suo testamento nel 1519 lasciandone una parte al suo allievo prediletto Gian Giacomo Caprotti, il Salaì.

Arrivando ai giorni nostri, grazie agli studi portati avanti dalla genetista Serena Imazio e dal professor Attilio Scienza, massimo esperto di DNA della vite, è stato individuato quale fosse il vitigno coltivato nel Rinascimento: Malvasia di Candia aromatica. Nel 2015 gli esperti dell’Università hanno reimpiantato proprio le barbatelle di Malvasia.  A settembre del 2018 è avvenuta la prima vendemmia, solo 330 bottiglie.

Il 15 settembre 2021, il Comitato Maria Letizia Verga, Fondazione che raccoglie fondi per la lotta contro la leucemia, ha organizzato la prima asta e le prime 3 bottiglie di 330 sono state battute in anteprima mondiale. L’intero ricavato dell’asta è stato destinato al progetto di ricerca sul passaporto genetico che mira ad individuare il profilo genetico di ogni bambino malato di leucemia e linfomi.

Una storia affascinante che lega Leonardo da Vinci al vino, e non poteva essere altrimenti visto che il padre Pietro, il nonno e lo zio avevano vigne a Vinci, visto che nei sui codici disegnava il modo con cui si doveva appendere l’uva per conservarla in inverno oltre ad altri particolari riferiti alla viticoltura.

Purtroppo attualmente la vigna di Leonardo è chiusa al pubblico.

PARIGI – Clos Montmartre

Il legame tra Parigi e il vino si perde nella notte dei tempi, la coltivazione della vite sulla collina di Montmartre risale al XI secolo quando il quartiere bohémien non era altro che un insieme di piccole case e mulini.

Nel 1500 l’attività vinicola si ampia con un maggior numero di filari che si estendono lungo tutto il pendio, sino alle pianure circostanti. Dai documenti storici compaiono vini bianchi, rossi, una piccola produzione locale.

Segue il periodo della forte urbanizzazione e il vigneto viene lasciato a sé stesso e pian piano abbandonato, fino agli anni Trenta quando pochi uomini di buona volontà decidono di recuperare quell’area verde reimpiantando vari vitigni: dal Pinot Noir al Beaujolais tra gli altri, mantenendo con cura il vigneto grazie anche all’aiuto di un enologo che monitora la qualità del prodotto.

La vigna è conosciuta con il nome di Clos Montmartre, è situata sul pendio di Montmartre, nei pressi della basilica del Sacre Coeur. Di proprietà della città di Parigi, la gestione della vigna è invece affidata al Comité des Fêtes et d’Actions Sociales de Montmartre – Paris 18ième.

Riunisce diverse denominazioni di vino, “Le Clos Berthaud”, “La Goutte d’Or” o ancora “Il Piccolo”. All’inizio la produzione di vino del Clos Montmartre era riservata solo al consumo locale, ora la vigna può contare su 1800 vigneti, con 30 diverse tipologie di vite.

Ogni anno in ottobre è organizzata “La Fête des Vendanges” per celebrare la raccolta annuale. La festa si svolge nell’arco di un fine settimana lungo (3 giorni), intorno al 7 di ottobre, e conta la presenza di numerose confraternite gastronomiche, sfilate in costumi d’epoca ed espositori provenienti dalle maggiori cantine di tutta la Francia. La produzione si attesta intorno alle 1500 bottiglie da 50cl che vengono fatte affinare nelle cantine del Municipio. Le bottiglie vengono dipinte da artisti famosi, anche Modigliani partecipò all’iniziativa, e poi battute all’asta. Il ricavato viene destinato alle opere sociali dell’Associazione di Montmartre.

Un vero tuffo nell’atmosfera bohémien dove si respira aria di altri tempi.

VIENNA – Il vino dell’Imperatore

Se avete in programma un viaggio nella capitale austriaca e se siete alla scoperta di qualcosa di particolare, mettete in agenda una mezza giornata, ma anche una giornata intera se avete tempo, per un’escursione sulle colline che si trovano a pochi Km dalla città e che regalano un incantevole panorama sulla città stessa e sul Danubio.

L’area vitata di Vienna ha una superficie di circa 700 ettari, una cosa più unica che rara per una metropoli, qui giocano un ruolo fondamentale il Danubio e il Bosco viennese che creano un microclima ideale alla coltivazione della vite.

I vigneti sono sparsi sulle colline di Kahlenberg, Nussberg, Bisamberg e nel sobborgo di Mauer, dove 230 viticoltori sono dediti a quest’arte che risale ai Celti e alle legioni romane, anche se notizie documentate si hanno dal XII secolo.

Una tradizione che risale al Medioevo quando però la qualità del vino era diversa. Ai tempi dell’imperatore Federico III il vino era così acido che lo stesso ne proibì il consumo perché temeva che potesse nuocere alle persone. Questo vino veniva chiamato “mangiabotti” perché era talmente acido da sciogliere i cerchi della botte. Veniva venduto in numerose cantine, chiamate “buchi”, e nei bar. Per migliorarne la qualità, spesso il veniva mescolato con sostanze come miele o zafferano. Successivamente le osterie furono trasferite nei vigneti, che ancora oggi sono i luoghi tradizionali in cui servire il vino.

Un regolamento dell’imperatore Giuseppe II, in vigore ancora oggi, prevedeva la distribuzione del vino nelle osterie. Così il 1784 fu l’anno in cui nacquero le tipiche osterie viennesi, Heurigen.

Alcune sono immerse nei vigneti e regalano un paesaggio bucolico dove poter trascorrere un po’ di tempo tra vino, piatti tipici e musica. Il periodo migliore per recarvisi è l’autunno durante la tradizionale Giornata escursionistica del vino viennese. Quattro percorsi permettono di esplorare il panorama enologico e nelle varie tappe i viticoltori della zona offrono degustazioni di prelibatezze provenienti sia dalla cantina che dalla cucina.

Per quanto riguarda la produzione questa è costituita per 80% da vini bianchi fruttati: Riesling, Weissburgunder, Gruner Veltliner, Sauvignon Blanc, Muskateller. I vini rossi sono invece il Zweigelt, St-Laurent, Merlot, Pinot Noir e Syrah.

Una specialità viennese con una lunga tradizione è il Gemischte Satz, un vino prodotto con diversi vitigni. Nulla a che vedere con la cuvée, per il Gemischte Satz si allevano nello stesso vigneto fino a 20 vitigni diversi; le uve vengono poi pressate e vinificate insieme per ottenere un vino del tutto particolare. Originariamente l’intenzione era quella di ridurre al minimo il rischio di annate con scarsa produzione, poiché, potendo contare su diversi livelli di maturazione e differenti tenori di acidità, era garantita una qualità stabile. Un vino che oggi è sotto il presidio Slow Food.

PRAGA – I vigneti divini

La storia della viticoltura a Praga risale al Medioevo, quando i vigneti circondavano la capitale, fu Carlo IV che favorì la coltivazione della vite grazie a degli editti che esentavano dal pagamento delle tasse i vignaioli. Oggi sono angoli per ritemprarsi dalla confusione della città. Poca produzione, sei vigneti per un totale di quasi 12 ettari, posti in posizioni panoramiche regalano viste indimenticabili.

Durante il mio viaggio nella capitale ceca ho avuto l’occasione di visitare il vigneto di San Venceslao proprio sotto il castello di Praga, recuperato alcuni anni fa è oggi accessibile al pubblico. Il principe Venceslao piantò le viti per avere il vino sacramentale. Viene considerato come il più vecchio vigneto fondato da San Venceslao all’inizio del X secolo, lo scopo era quello di avere il vino per le cerimonie religiose.  Qui si coltivano due uve, il Ryzlink del Reno (Riesling) e il Pinot Nero, ma lungo il sentiero panoramico sono state piantate altre decine di vigne. I vini del vigneto sono un’edizione limitata ed è possibile degustarli solo nell’adiacente e lussuoso ristorante Villa Richter.

Nel centro di Praga si trova un vigneto, Villa Grobe, con cantina sotterranea. Nel vigneto sono coltivate 8 varietà di uve, 4 bianche e 4 rosse. La vendemmia è fatta direttamente nell’annessa cantina che produce e vende vino dal 2009, anche a bicchiere. Ottimi il Müller Thurgau e il Pinot Grigio.

Nell’orto botanico della città si trova il vigneto di Santa Chiara con una storia di quasi 800 anni.

Non si sa con esattezza quando sia stato fondato il vigneto, ma il caldo pendio fu certamente utilizzato dall’imperatore Carlo IV, che fondò il ponte Carlo a Praga, quando la piantò con le viti. La viticoltura fiorì maggiormente durante il regno dell’imperatore Rodolfo II. Praga era allora chiamata la ‘città del vino”.

La parte produttiva è costituita da varietà di vitigni bianchi come Riesling, Müller-Thurgau, Sauvignon, Moscato di Moravia, Tramín Rosso e Pinot Nero. Tra le varietà di vitigni rossi, ci sono il Blue Portugal e il Pinot Nero. Recentemente, il vigneto produce vino spumante e vino di tipo Porto Fortis Magna. I vini rossi sono invecchiati in botti di rovere per un minimo di due anni.

Le feste del vino a Praga sono eventi molto popolari e tanto attesi tra i locali e gli appassionati di vino, vengono organizzate ogni anno dopo la fine della stagione della vendemmia. Le feste autunnali tradizionali includono in genere concerti, spettacoli, bancarelle di cibo con specialità regionali, nonché la degustazione di vino novello e vino parzialmente fermentato chiamato “burčák”

E se siete curiosi, di vigne urbane ce ne sono molte altre, dislocate nel vecchio continente e non solo.

Solo per citarne alcune possiamo trovarle ad Avignone; Barcellona; Bergamo; Siena; Palermo; Venezia e… a New York.

Sono sotto l’egida de La Urban Vineyards Association (U.V.A.) che nasce con l’intento di tutelare il patrimonio rurale, storico e paesaggistico rappresentato dalle vigne urbane e di valorizzarlo sotto il profilo culturale e turistico, rendendolo produttivo per la collettività e per il futuro nel rispetto dell’ambiente, attraverso politiche vitivinicole e sociali di integrazione e sostenibilità. Prosit!

Gambero Rosso e Osteria Fernanda insieme per il Mandrarossa on tour

Osteria Fernanda e Gambero Rosso: degustazione esclusiva con “Mandrarossa on Tour” a Roma.

L’Osteria Fernanda a Roma ha aperto le porte a un’esperienza culinaria unica, grazie al progetto Mandrarossa on Tour, frutto della collaborazione con il Gambero Rosso. Tre le cene-degustazione, due delle quali si svolgeranno a Roma e una a Milano. Per 20italie ho avuto l’opportunità di degustare una selezione dei vini più distintivi della cantina di Menfi, abilmente abbinati ai piatti creati dallo Chef Davide Del Duca.

Filosofia culinaria raffinata e sempre sorprendente. Abilità nel bilanciare sapientemente i sapori e nel presentare piatti freschi e creativi. L’ambiente del ristorante è già invitante, con un’estetica moderna, dal taglio minimalista, che richiama la tradizione avvolgendo gli ospiti con discreta cura. I tavoli posizionati di fronte alla luminosa e ampia vetrata della cucina offrono una vista coinvolgente sul lavoro della brigata, durante la preparazione delle portate.

Gambero Rosso è riuscito nell’intento ad esaltare in modo appropriato i punti di forza sia del menù che dei vini. Insieme a Lorenzo Ruggeri e Giuseppe Bonocore, ci siamo confrontati sugli abbinamenti, giudicati in sintonia per la serata. Roberta Urso, responsabile pubbliche relazioni e comunicazione di Mandrarossa, racconta la storia della cantina, una Cooperativa vitivinicola di qualità che raccoglie 160 conferitori selezionati tra i 2000 della famiglia maggiore Cantine Settesoli, con i suoi 500 ettari vitati. Studio approfondito dei terreni, basse rese e tutto il meglio della Sicilia raccolto vinificato con cura nelle bottiglie che avevo già provato in occasione dello scorso Vinitaly. Non mi resta che andare a Menfi e visitare di persona questa interessante cantina siciliana, da raccontare ancora su 20italie.

MENU E VINI IN ABBINAMENTO

  • Entrée
Selezione di finger food: Cioccolato bianco ripieno di arachidi con gel di crodino, sedano rapa con anacardi e fegatino di pollo.
  • Spuma di burro di Normandia e pane a lievitazione naturale appena sfornato.

Piccole esplosioni di sapore che stimolano l’acquolina in bocca.

Vini in abbinamento:

Calamossa Bianco Mandrarossa 2023

Metodo Charmat floreale fresco e piacevole, nota aromatica data dallo Zibibbo che bilancia

  • Antipasto
: Ostrica, topinambur fermentato olio di Perrillo e limone nero

Le note vegetali dell’olio e delle parti verdi coprivano un pochino l’ostrica

  • Calamaro, beurre blanc, cime di rapa, colatura e yuzu

Un piatto molto interessante con un trionfino di sapori giustamente dosati e bilanciati.

Vino in abbinamento:

Sicilia Urra di Mare Mandrarossa 2023 – Floreale gelsomino nella freschezza con finale sapido

  • Primo piatto: 
Tagliolino di spirulina, bottarga di tonno, finocchio e cerfoglio.

Vino in abbinamento:

Sicilia Bertolino Soprano Mandrarossa 2022


  • Secondo piatto: 
Manzo, mela cotogna, succo di pepe Sancho e olio al carbone d’erbe

Un piatto meraviglioso.

Vino in abbinamento:
 Sicilia Mandrarossa Cartagho 2020

Bella struttura, morbidezza e terziari. Forse troppo percepibile la nuance del legno.

  • Dolce: Cremino ai tre cioccolati Valrhona, latte salato e caffè.
  • Piccola pasticceria

Dolcezza bilanciata, non eccessiva ma di gran gusto. La giusta conclusione di una cena che ha sorpreso per qualità e la finezza.

Vino in abbinamento:
 Passito di Pantelleria Serapias Mandrarossa 2020.

Un passito che non stanca e invoglia alla beva, grazie alla spinta acida.

Il Vermentino Solosole di Poggio al Tesoro: una splendida “verticale in bianco”

Bolgheri è un anfiteatro di storie d’amore, una di queste è nascosta nel Vermentino Solosole di Poggio al Tesoro, lo scopriamo in una splendida verticale di 6 annate differenti, in compagnia del Responsabile di produzione Christian Coco.

“I cipressi che a Bolgheri alti e schietti Van da San Guido in duplice filar, Quasi in corsa giganti giovinetti, Mi balzarono incontro e mi guardar.”

Bolgheri è un luogo di cui ci si innamora. Ce lo dimostra Carducci, con la sua celebre ode “Davanti a San Guido”, che decanta quel fantastico “Red Carpet” di Cipressi con il quale i Romani molti anni prima incorniciarono la celebre via e prima ancora gli Etruschi che per primi si insediarono qui. Il Marchese Incisa della Rocchetta trovò qui l’amore di Clarice della Gherardesca, decise di lasciare il Piemonte e dedicarsi qui alla Tenuta San Guido che la moglie portava in dote.

Questo sentimento colpisce Marilisa Allegrini e suo fratello Walter, già grandi produttori in Valpolicella, che mossi alla ricerca di qualcosa di straordinario, nel 2001 è proprio qui che lo trovano fondando Poggio al Tesoro.

È anche la storia di Christian Coco, Londinese di Nascita, studi classici, che navigando per Mari sbarca in questa terra e rimane folgorato dalla cultura della vite. Si Laurea in Enologia a Pisa e, dopo importanti esperienze avviene il sodalizio enologico con l’azienda Poggio Al Tesoro, per la quale è Enologo e Responsabile di produzione.

LE TERRE DI BOLGHERI

Bolgheri è un teatro naturale, adornato a Est da Colline Metallifere ricoperte da boschi di macchia mediterranea che salvaguardano l’ecosistema e che si stendono dolcemente fino a Ovest, dove lasciano spazio a Pinete, spiagge e quindi al mare. La via Aurelia, antica strada romana, fissa il confine tra la denominazione e la costa, seguendo la strada verso nord invece, incroceremo il Viale dei Cipressi che segna il confine più alto.

L’Enosistema è complesso. La luce abbonda costantemente e nel pomeriggio si rifrange sul Mare Tirreno, continuando a scaldare fino al tardo crepuscolo. I Venti, panacea per ogni malattia della vite, sono frequenti e presenti tutto l’anno, tirano dal mare e dalla Collina Metallifera, polmone naturale e filtro per gli agenti atmosferici. Il Maestrale porta sentori sapidi e salmastri, nei pomeriggi estivi il suo tepore è ancor più potente di quello del sole.

LA FILOSOFIA DI POGGIO AL TESORO

I terreni su cui l’azienda poggia le sue radici sono di origine alluvionale, la terra brucia, è di colore rosso che svela la matrice ferrosa e calcarea. Siamo in pianura, dove il drenaggio è maggiore e la radice va più a fondo, 250 s.l.m.

Il Vermentino è un vitigno tipico delle coste Ovest del Mediterraneo. Ritenuto, pare erroneamente visti i recenti studi scientifici, originario della Spagna, ha preso piede dapprima in Francia in Languedoc-Roussillon col nome di Malvoisie à gros Grains poi in Corsica, quindi in Liguria, Toscana e Sardegna. A Bolgheri il calore fa la differenza e le uve prendono uno splendido colore ottone in maturazione.

Nella loro visione Marilisa e Walter vogliono la corposità e la grassezza di un Vermentino Sardo unita alla freschezza e mineralità di quello Ligure, il risultato li porta ad una selezione clonale Corsa, scrupolosamente clonata in azienda.

Quattro poderi formano la tavolozza delle vigne: Via Bolgherese, Chiesina di San Giuseppe, Le Sondraie, Valle di Cerbaia. I primi due sono collocati nella zona Soprastrada che dona al vino eleganza e complessità, mentre negli altri avremo più potenza e rotondità.

Tutto questo è il Solosole, Vermentino in purezza, in una parola S.A.L.E., acronimo di Struttura, Acidità, Longevità, Espressione aromatica marcata (ma anche Eleganza). La Vendemmia è rigorosamente al chiaro di luna per preservare la freschezza, i grappoli sono turgidi e ambrati. In cantina viene effettuata una sapiente macerazione sulle bucce, una stabulazione a freddo. L’uso di lieviti non fermentanti inoltre contribuisce all’esaltazione delle proprietà aromatiche e del profilo organolettico complessivo.

Le masse vengono vinificate separatamente per ottenere “Scale diverse di una diversa nota”, citando Christian Coco.

La degustazione

Vermentino Bolgheri DOC Solosole 2022

Colori giallo paglierino dalle sfumature oro chiaro, di spiccata lucentezza, gira sinuosamente. Al naso ci accoglie una nota iodata suadente, fiori freschi, frutta gialla fresca e toni agrumati che ricordano il lime, contornati da salvia fresca e gelsomino. In bocca è una carezza, l’ottimo corpo si slancia su una sapidità tonda e ricca, il ricordo di frutto giallo, di mela è qui più maturo. La sapidità è ricca e unita ad una vibrante freschezza dai rimandi citrini crea una succosa atmosfera. È un vino scalpitante, che col tempo si racconterà ancor di più e ancor meglio.

Vermentino Bolgheri DOC Solosole 2019 14%

Eccelsa annata, si presenta vestita di colori un po’ più caldi e un dorato ancor più luminescente nell’orlo. Il naso si apre su note di erba aromatica infusa, sta iniziando una virata verso altre nuance. Sbuffi di frutta, pesca sciroppata, ananas, mela cotogna e agrumi impreziositi da infusioni ai sentori di ginestra e macchia mediterranea, in un sottofondo iodato. È un naso metronomico, che a ogni olfazione ci scandisce una nota diversa della sinfonia. L’assaggio è notevole e colpisce la percezione di sale più maturo, più avvolgente, che si lega perfettamente all’agrumata freschezza lasciandoci il bellissimo ricordo di uno spicchio di pompelmo. Tanta stoffa e ancora tanti anni davanti per sorprendere ancor di più.

Vermentino Bolgheri DOC Solosole 2017

Annata bizzarra e a tratti calda, è in queste annate che la differenza la fa l’uomo e la sua sapienza. Ci accoglie un calice giallo paglierino dalle decise sfumature dorate. Naso che ammicca verso note idrocarburiche, protagoniste sono le sensazioni di frutta gialla succosa, pepe bianco, infuso al rosmarino, miele di tiglio. Al sorso troviamo ad accoglierci un vino che ha preso il suo tempo, ha un sorso succoso, è lungo, persistente e lascia ricordi di frutta sotto spirito. La sapidità è sempre ben presente ma di diversa fattura, palatale, granulosa.

Vermentino Bolgheri DOC Solosole 2015

Un suadente dorato intenso illumina il calice. Appoggiando il naso sale subito un sentore di scorzettina di cedro che fa da anticamera a note di miele al rododendro, pepe bianco, ancora agrume e poi ancora iodio e macchia mediterranea. Il sorso è burroso e carezzevole, impreziosito da sale e sentori di spezie, eccelso equilibrio, sorretto da basi solide della freschezza e del buon calore. Ottima persistenza.

Vermentino Bolgheri DOC Solosole 2012

Bellissima nuance dorata di ottima quantità colorifera. Il naso si delinea su trame “non zuccherine”, mango, albicocca matura cui seguono fiori di sambuco, ricordi di the giallo e di infuso e ancora spezie e note iodate. L’assaggio è verticale, dritto, il sale levigato, si spalma e aromatizza il palato. Eccellente equilibrio e persistenza, la massa è ormai armonizzata in tutte le sue componenti.

Vermentino Bolgheri DOC Solosole 2010

Nuance dorata dalle delicate sfumature ambra. Il naso è evoluto, si apre nelle note agrumate di limoni di sorrento, spezie dolci, burro nocciola. Ricordi di creme brulee, torta della nonna, ma anche the darjeeling, un naso esteso e sensuale. All’assaggio è un vino rotondo, morbido, ci accarezza velatamente posandosi come seta sul palato per poi lasciarsi ripulire dal sale, scioglievole ma al contempo palatale, completo. Notevole e fruttata persistenza.

Ringrazio Christian Coco per avermi svelato un po’ del suo mondo e il Miglior Sommelier di Lombardia Federico Bovarini col quale ho condiviso l’assaggio di queste splendide etichette. “Il vino è l’unico modo per toccare fisicamente il tempo”.