Intervista all’enologo Denise Cosentino: dalla Cina all’Italia il passo è davvero breve

Denise Cosentino, già enologa di Domaine Long Dai (Dbr Lafite) e adesso tra le fila della prestigiosa Ornellaia, racconta uno spaccato dell’enologia cinese e della sua voglia di “autoctono”.

La Cina del vino pian piano sta svelando le sue peculiarità e potenzialità, protagonista di una rivoluzione enologica importante, considerando le dimensioni del Paese. Con Denise Cosentino, già enologa italiana da qualche anno al timone della direzione tecnica del Domaine Long Dai – proprietà del gruppo Domaines Barons de Rothschild – siamo andati alla scoperta di quello che è il territorio viticolo cinese e perché ne sentiremo parlare sempre di più nel prossimo futuro.

Cina e vino. Si può fare

Partiamo dal presupposto che la Cina non ha una tradizione vitivinicola ben radicata come quella europea, ma sta costruendo la sua storia non trascurando i particolari. Numeri che sembrano essere premianti soprattutto quando si parla di consumo locale e che descrivono un popolo interessato alla cultura del vino locale e non solo ai “grandi classici” di importazione. A non cambiare è la voglia di imparare da chi effettivamente il vino ce l’ha nel sangue. Sono molti i professionisti che hanno scelto il grande Oriente per il successo, e a Denise Cosentino quest’opportunità è arrivata per meritocrazia.

Laureata in viticoltura ed enologia a Torino, con diverse esperienze all’estero compreso in Nuova Zelanda, viene selezionata come docente per il prestigioso College di Enologia della North West A&F (agriculture&forestry) University di Yangling, Xian, Shaanxi. Grazie a un percorso premiante è arrivata a lavorare in vigna. Dal Ningxia alla penisola dello Shandong Denise ha scoperto un mondo diverso, dove la tradizione europea gioca la sua parte, ma in maniera marginale. Fare vino in Cina è quindi possibile?

La Cina è enorme e non si può far vino ovunque, per via del clima diverso, a volte proibitivo. La mia esperienza in vigneto inizia nel nord, nello Ningxia dove si arrivano a toccare, di inverno, meno 25 gradi. La viticoltura qui è pensata proprio per affrontare temperature rigide, con l’interramento della vite per proteggerla dal freddo. Un sistema con diversi cordoni bassi che, a seconda della necessità, possono essere ricoperti di terra. Nel Shandong invece, più vicini al Mar Giallo, il clima è completamente diverso, con inverni sì rigidi, ma non troppo. Nella media cinese, si intende. Infatti si toccano temperature che si aggirano in media tra i meno 10 e meno 15 gradi – continua l’enologa – Anche qui si usa l’interramento della vite, ma non completo. Per questo utilizziamo un sistema a spalliera che ricorda le viti europee. Inverni secchi e primavere secche, concentrazione di pioggia sulla parte estiva, questo è ciò che ci aspetta generalmente, anche se stiamo risentendo del climate change che anche qui si manifesta con eventi estremi come violente piogge e calura anomala anche fuori stagione”.

Domaine Long Dai

Domaine Long Dai, nella penisola dello Shandong – dove Denise detiene ora la direzione tecnica di cantina – non è solo lo specchio della tradizione francese in Cina, anzi, è un modo per mettere alla prova blend che non riprendano il classico taglio bordolese, comunicando qualcosa di nuovo dal punto di vista enologico. Con il Marselan, varietà che sta riscontrando pareri positivi sia per adattamento al clima sia per le peculiarità organolettiche, si sperimentano assemblaggi “moderni”. “L’azienda è giovane, basti pensare che la prima annata in uscita è il 2019. L’imprinting europeo viene mantenuto solo in parte perché si misura prevalentemente con il mercato cinese. Per il momento cinque annate dedicate al mercato interno cinese. L’80% resta qui. La restante parte invece, arriva nei mercati del Sud Est Asiatico, Hong Kong, Giappone, Corea. Piccoli volumi che ridisegnano un modo di vivere all’occidentale”.

Chi è il consumatore di vino cinese

Se in Occidente il vino viene considerato parte storica della 2cultura pop”, in Cina si costruisce un’identità giorno dopo giorno. E allora qual è l’identikit del consumatore cinese e se è l’etichetta a rendere il vino d’appeal? Ce lo spiega Denise: “il fruitore medio del vino è appassionato, è colui che ha studiato ed è molto curioso. In Italia sarebbe il nostro “esperto”. Il vino qui non è una bevanda che arriva in tavola in automatico. Certamente l’etichetta conta e, come nel caso di Lafite, il nome colpisce perché è sinonimo di pregio e perché già dagli anni Ottanta è presente sul mercato asiatico. I cinesi però, studiano e diventano sempre più critici, andando alla ricerca della qualità e dello stile di vita all’occidentale. Il vino è uno status symbol, un cadeau di valore”.

Ma in Cina di vino se ne beve ancora troppo poco. Un dato sottolineato anche dalla Cosentino “ad oggi il picco potenziale di consumo locale non c’è ancora stato ma il picco delle importazioni si, pertanto la flessione di vino che proviene da fuori è quasi fisiologica”. Secondo il rapporto OIV del 2022 sulla salute del settore vitivinicolo mondiale, la Cina si attesta la terza posizione a livello globale per quanto riguarda l’estensioni totali dei vigneti; solo l’ottavo Paese per quanto riguarda il consumo di vino. Dati che indicano, comunque, una crescita delle cantine locali in termini di popolarità, prestigio ed enoturismo rispetto al passato.

Per quanto riguarda la produzione interna c’è ancora molto da fare, ovvio, ma la strada è quella giusta. “Oggi la Cina può diventare un polo di produzione, infatti siamo alla seconda produzione di enologi in Cina. Quindi tra qualche anno si potrà dire che il vino è un prodotto della tradizione, ma chiaramente non ce ne sarà per tutti perché non si può produrre ovunque come abbiamo già detto”. Buona notizia per gli importatori che dovranno fare i conti con un mercato non sempre stabile, ma comunque sempre aperto al prodotto estero. Se nel futuro enologico cinese il vino non mancherà, nel futuro di Denise invece, cosa c’è da aspettarsi? “ Spero che ci sia tanto altro buon vino, altri grandi progetti enologici che garantiscano sempre standard di qualità elevati in Italia, che rivedrò presto.Spero di tornare a casa  in Calabria certo, magari un giorno. Un vigneto a Papasidero in Calabria, il mio paese d’origine, farebbe tornare alla memoria la mia prima vendemmia, quella fatta con il nonno”.

Per intanto è arrivata la chiamata in Toscana da Ornellaia e non possiamo che esserne felici.

Casa Campania: al Merano Wine Festival pizza, sole, mandolino e tanto vino (di qualità)

Essere del Sud, vivere questa esperienza a volte ai confini della realtà. Sembra strano ma in 163 anni l’unità effettiva d’Italia non esiste di fatto se non sulla carta. Vallo a spiegare ai tanti visitatori esteri, che ancora ci vedono quelli del sole, pizza e mandolino.

Per fortuna, ribadiamo con le sole nostre forze e senza agevolazioni di cui godono altri territori, la Campania ha saputo riemergere a testa alta da una situazione oggettivamente difficile. Da due anni al Merano Wine Festival si cerca di diffondere il verbo della qualità delle eccellenze enologiche attraverso il padiglione appositamente dedicato Casa Campania. Grande la soddisfazione espressa nelle parole di Nicola Caputo Assessore all’Agricoltura della Regione Campania.

Una sorta di “Fuori Salone” in cui far confluire i Consorzi che stanno cercando, non senza difficoltà ad ogni livello, di fornire un’immagine unitaria agli operatori del settore. L’idea di un Consorzio di secondo livello pur nata da tempo fatica nel muovere i primi ingranaggi, ma le basi sono solide e le intenzioni meritevoli. Deus ex machina dell’iniziativa è Andrea Ferraioli, presidente del Consorzio Vita Salernum Vites (per i non addetti ai lavori il Consorzio vini della provincia di Salerno).

Un volto istituzionale che richiama attenzione mediatica e fiducia nel futuro. L’entusiasmo e la voglia propositiva ha coinvolto tutti, da Cesare Avenia presidente del Consorzio Tutela Vini Caserta VITICA a Ciro Giordano del Consorzio Tutela Vini Vesuvio per finire con Teresa Bruno che ha preso in mano la difficile gestione del Consorzio Tutela Vini d’Irpinia.

Immancabile la presenza accogliente e formativa dell’Associazione Italiana Sommelier, con il Delegato regionale Tommaso Luongo che ha condotto numerose Masterclass di presentazione dei vini e delle realtà più importanti campane. E Franco De Luca, docente e responsabile della didattica di A.I.S. Campania che prova a suggerrire abbinamenti stuzzicanti tra le tante tipologie messe a disposizione dall’impegno dei produttori vitivinicoli.

Madrina ed Ambasciatrice di Casa Campania è stata Chiara Giorleo, esperta di tutte le proposte più interessanti, rosati inclusi incredibili per versatilità ed eleganza. Qui la parte del leone la fa quasi sempre l’Aglianico, nobile varietà che racconta il proprio carattere mediterraneo all’interno del calice.

Numerosi i premi consegnati nella rassegna del Merano Wine Festival 2023 da The WineHunter e dalla Guida Vini Buoni d’Italia. Ai nostri microfoni Laura De Vito, giovane winemaker irpina di Lapio, con i suoi CRU di Fiano d’Avellino frutto di ricerca e zonazione dei poderi con la consulenza dell’enologo Vincenzo Mercurio. Infine Bartolo Sammarco che dalla Costiera Amalfitana, più precisamente Ravello, realizza piccoli capolavori del gusto dai ricordi tipici agrumati, salini e floreali.

Chiudiamo le nostre interviste con Libero Rillo, presidente del Sannio Consorzio Tutela Vini, dirimpettaio di Casa Campania con il proprio stand dedicato che ha fatto scuola partendo ancora 5 anni fa con tale progetto. Le ultime parole ad un grande rappresentante giunto al massimo vertice dell’OIV – Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino – l’enologo e titolare di Quinto Decimo prof. Luigi Moio.

L’arguta analisi sul futuro della Campania non poteva avere interprete migliore: siamo davvero sole, pizza e mandolino, o possiamo offrire molto altro a chi ancora non conosce una delle regioni più belle e ricche d’Italia dal punto di vista enogastronomico? A breve la risposta.

Champagne Bollinger: in principio era il legno

È un ventoso pomeriggio di settembre quando varchiamo il cancello di uno dei templi del Pinot Noir, la maison Bollinger. Siamo nel villaggio di Aÿ, uno dei diciassette grand cru di Champagne, vocato proprio al pinot noir, dove Bollinger produce bollicine dal 1829.

È tuttavia riduttivo circoscrivere la caratteristica produttiva  di Bollinger con l’utilizzo di non meno del 60% di pinot noir in tutte le cuvée. Lo stile della maison è più complesso: riusciamo a intuirne le sfaccettature durante la visita alla cantina storica e a catturarne l’essenza nella degustazione finale.

Iniziamo la nostra passeggiata all’aperto tra i filari del Clos Chaudes Terres, che insieme al Clos St. Jacques, per un totale di solo mezzo ettaro in Aÿ contro 179 di proprietà della Maison, è una parcella miracolosamente sopravvissuta alla fillossera e dunque ancora a piede franco. Da questo momento in poi ci prende metaforicamente per mano Tante Lily, al secolo Elisabeth Law de Lauriston-Boubers, che, vedova a soli 42 anni di Jacques Bollinger, dal 1941 tenne salde le redine aziendali fino al 1971, traghettando di fatto la maison nell’era moderna. A lei spetta l’intuizione del grande valore delle due piccole parcelle ancora a piede franco e la creazione nel 1969 del Blanc de Noirs Vieilles Vignes Françaises, che, nell’intenzione di Madame Bollinger, doveva rappresentare lo stile antico dello champagne. Le due parcelle vengono lavorate a mano con il solo ausilio di cavalli da traino e potate secondo l’antica tecnica della propaggine perpetuata. L’ultima annata commercializzata di Vieilles Vignes Françaises è la 2013, per un totale di 2477 bottiglie.

Attraversiamo la soglia della cantina storica e incontriamo immediatamente la barrique, vero fil rouge dello stile Bollinger. La prima fermentazione di tutte le uve viene effettuata in varia misura in acciaio e barrique. Solo il legno piccolo, però, è in grado di creare maggiore resistenza alla micro ossigenazione e un miglior potenziale di affinamento, tanto che le etichette millesimate della Maison provengono esclusivamente da fermentazione in legno. Le barrique, di terzo/quarto passaggio, provengono tutte dal Domaine Chanson, in Borgogna, proprietà acquisita nel 1999 da Bollinger. Ma per comprendere l’importanza che la barrique rappresenta nello stile produttivo della Maison, ci basti pensare che il legno per riparare le doghe proviene dalla foresta di Cuis, di proprietà della famiglia Bollinger dal 1829 e che tra le maestranze della casa, ci sono quelle dedicate esclusivamente alla manutenzione delle botti. Manutenzione che inizia circa tre mesi prima della vendemmia, quando vengono riempite d’acqua, per garantirne l’impermeabilizzazione, successivamente asciugate e infine sterilizzate, pronte ad accogliere esclusivamente la prima pressatura delle uve, la cuvée.

In seguito alla fermentazione alcolica, tutti i vini sono sottoposti a fermentazione malolattica e al termine del processo di vinificazione, dopo circa 6-8 mesi, avviene l’imbottigliamento. Notevole il fatto che anche i vins de reserve vengono imbottigliati in magnum e tappati con sugheri in attesa dell’utilizzo: si tratta di  circa 800.000 bottiglie conservate nei sotterranei della cantina, dove affinano tra i cinque e i quindici anni, con una piccola aggiunta di zucchero e lievito, che di fatto li rende delle vere e proprie bombe aromatiche. Il legno dunque è la firma Bollinger, utilizzato in  varie fasi e misure: parzialmente per vinificare gli champagne sans année, esclusivamente non solo per i millesimati ma anche per i vins de reserve, che andranno ad arricchire in percentuali differenti tutte le etichette della Maison.

Anche il tempo di affinamento in bottiglia è uno dei caratteri rappresentativi di Bollinger: la Special Cuvée affina per 36 mesi; la Grande Année, riposa per non meno di sette anni (l’ultimo millesimo imbottigliato è stato il 2014 e probabilmente il prossimo sarà il 2022); solo le migliori espressioni della già selezionata Grande Année superano i dieci anni di affinamento e vestono l’etichetta Bollinger R.D., dove le iniziali R.D. stanno per Récemment Degorgée, a sottolineare la caratteristica del prodotto che viene commercializzato poco dopo la sboccatura.  Anche quest’ultima etichetta geniale intuizione di Tante Lily, che lanciò nel 1967 il millesimo 1952 con l’intenzione di esaltare sia l’immediata freschezza della recente sboccatura sia il palato sontuoso, risultato del lunghissimo affinamento. 

SPECIAL CUVÉE

60% Pinot Noir, 25% Chardonnay; 15% Meunier

10% della massa vinificato in barrique

6/7% di vins de réserve affinate in magnum

36 mesi di affinamento

Dosaggio: 8 g/l

Remuage meccanico

Signature label della Maison, ne racchiude tutte le caratteristiche sopra descritte. La scelta del nome anglofono strizza l’occhio a uno dei mercati più importanti per Bollinger, il Regno Unito, dove la Maison è presente sin dal 1834. Legame rafforzato anche dal fatto che Bollinger è l’unico champagne bevuto da James Bond sin dal 1978.

Oro brillante alla vista, si caratterizza sin da subito per il carattere speziato, che si alterna ai sentori di finocchietto,  zucchero a velo, buccia d’arancia, e frutta secca tostata. Entra morbido in bocca, con effervescenza delicata e ricorda il pain d’epices di Natale. Al coup de nez è capace di rivelare anche un delicato carattere floreale.

GRANDE ANNÉE ROSÉ 2014

67% Pinot Noir, 33% Chardonnay

100% della massa vinificata in barrique

5% di vino Côte aux Enfants

7 anni di affinamento

5% di vino Côte aux Enfants

Sboccatura: Marzo 2022

Dosaggio 8 g/l

Remuage manuale

Rosato ottenuto da blend di vino bianco e rosso, come previsto da disciplinare in Champagne. Il vino rosso è il coteaux-champenois Côte aux Enfants, pinot noir di singolo appezzamento non vinificato in tutte le annate.

Brillante nel color rame, cattura immediatamente il naso per i sentori di petali di rose rosa e gelsomino africano che fanno da trama al caramello salato e al croccante di mandorle tostate. Il palato sensuale e avvolgente richiama continuamente al sorso e ammalia nel rimando alle spezie orientali e all’incenso. Per meditare se proprio da soli, ma meglio da godere in piacevole compagnia.

BRUNELLO DI MONTALCINO 2018 DI ARGIANO È IL MIGLIOR VINO DEL MONDO PER WINE SPECTATOR

BINDOCCI (PRES. CONSORZIO BRUNELLO): RICONOSCIMENTO ENORME PER L’AZIENDA E PER L’INTERA DENOMINAZIONE. A MONTALCINO QUALITÀ A PRESCINDERE DA ANNATE

(Montalcino – SI, 10 novembre 2023) Comunicato Stampa

È un Brunello di Montalcino il miglior vino del mondo 2023 per la celebre rivista americana Wine Spectator. L’Argiano 2018 diventa così il secondo Brunello ad aggiudicarsi il premio più ambito a livello globale, dopo l’affermazione di Tenuta Nuova di Casanova di Neri, nel 2001. “Siamo felici per l’azienda senese guidata da Bernardino Sani, sotto la proprietà dell’imprenditore brasiliano André Santos Esteves – ha detto il presidente del Consorzio del vino Brunello di Montalcino, Fabrizio Bindocci –. Questo premio, che vede per il secondo anno consecutivo la presenza di un Brunello sul podio di Wine Spectator, rappresenta un enorme riconoscimento per tutta la denominazione e conferma da una parte il rapporto virtuoso di Montalcino con gli investitori stranieri, dall’altra la capacità delle nostre imprese di esprimere la massima qualità anche in annate spesso accolte tiepidamente dalla critica”. Il Brunello di Montalcino 2018 di Argiano è il quinto “Wine of The Year” nella storia – tutta toscana – dell’Italia premiata da Wine Spectator. La qualità stellare dell’Argiano Brunello di Montalcino 2018 – cita nella presentazione la rivista statunitense – è frutto di oltre 10 milioni di dollari di investimenti realizzati nella tenuta in un decennio. Segno che nel mondo del vino, un cambio di proprietà o di paradigma stilistico può portare enormi benefici. Argiano è una proprietà con 57 ettari di vigneto, di questi quasi 22 sono destinati al Brunello e 10 al Rosso di Montalcino. Citata dal Carducci a fine ‘800 (“Mi tersi con il vin d’Argiano, il quale è buono tanto”), la tenuta dispone di un wine relais nella villa cinquecentesca.

50 Top Pizza World 2023: la pizza è ancora italiana?

Ci siamo sempre chiesti se sia nato prima l’uovo o la gallina. Adesso, nella splendida cornice del Teatro di Corte del Palazzo Reale di Napoli, la domanda che ci balena in mente è una sola: la pizza è ancora italiana?

Foto © Alessandra Farinelli

A giudicare dal primo posto parimerito tra Diego Vitagliano e Francesco Martucci, nella classifica di 50 Top Pizza World 2023, potremmo propendere per un responso positivo. Questo se non si tenesse conto della cronologia completa delle altre 99 posizioni, ove, con grande stupore, ne abbiamo davvero viste di tutti i colori.

Nulla di nuovo in realtà: l’Italian Style (da non confondere col famigerato Italian Sounding) è sinonimo di buona tavola e, soprattutto, buona vita. La pizza non poteva esimersi dal rispecchiare la parte positiva del Belpaese, fonte di allegria, convivialità e sapori. Da Napoli, capitale di questa nobile pietanza, al mondo intero, il passo è stato breve.

Foto © Alessandra Farinelli

E per sfatare un altro tabù, non sono solo emigrati a portare il verbo dell’Italia all’estero. Sempre più cittadini di varie nazionalità, per nulla imparentati con le nostre origini e cultura, riescono a compiere il passo decisivo aprendo locali da Top player della categoria. Posti dove la pizza diventa regina assoluta del territorio, ambita dalle classi sociali senza distinzioni di natura economica. Una sorta di “livella”, per citare un altro grande partenopeo come Totò, che pone sullo stesso piano il ricco e il povero, alla ricerca continua di sperimentazioni o di classicità.

Foto © Alessandra Farinelli

L’alimento viene contaminato, trasfigurato, per poi ritornare tale dalle vie della globalizzazione nelle nostre case. Non possiamo pensare che tale processo a ritroso manchi di influenzare anche le visioni dei padroni di casa, eccellenti maestri negli impasti e ancor più nel dressing, così come viene chiamato, in termine tecnico, il condimento.

Nella scelta delle materie prime di assoluta qualità, nel loro accostamento a volte quasi onirico, sta il segreto di ogni artista che dedica anima e corpo alla pizza. Un marchio che contraddistingue una “setta” di buongustai prima che pizzaioli, rispettosi di esaltare al meglio i gusti degli avventori, colpendo la loro fantasia e insegnando cosa voglia dire mangiar bene.

Spazio, dunque, ai protagonisti, tra premiati e organizzatori, in attesa della classifica 2024 di Top 50 Pizza.

(Le foto allegate al presente articolo sono di ph. Alessandra Farinelli per 50TopPizza)

Fontodi: la magia del Sangiovese in purezza nel cuore del Chianti Classico

Non capita tutti i giorni di varcare il cancello di cantine affascinanti come quella di Fontodi.

Ad accoglierci c’era il dinamico e autoctono Silvano Marcucci, panzanese doc, cuore pulsante dell’azienda, orgoglioso e consapevole di trovarsi in un territorio di rara bellezza. Dopo esserci sgranchiti le gambe passeggiando in vigna, Silvano ci ha illustrato la storia dell’azienda, per poi entrare in cantina e degustare con enorme piacere i vini. Dalla terrazza di Fontodi si gode di un panorama senza pari digradante verso le Alpi Apuane, l’Appennino Tosco-emiliano e lo splendore dei vigneti e oliveti sotto e circostanti.

Un’esperienza memorabile ed emozionante.

Fontodi si trova nel cuore del Chianti Classico, più precisamente nella vallata che si apre a sud del borgo di Panzano a forma di anfiteatro, denominata “Conca d’oro“.  Il biodistretto nel comune fiorentino di Greve in Chianti.

Un terroir rinomato da secoli per la sua alta vocazione alla viticoltura di qualità dovuta alla combinazione unica di elevata altitudine, terreni galestrosi, esposizioni ottimali e un microclima favorevole per l’allevamento della vite. Caldo e asciutto, caratterizzato da notevoli escursioni termiche tra le ore diurne e notturne.

L’azienda è, dal 1968, di proprietà della famiglia Manetti, con Giovanni Manetti attuale Presidente del Consorzio Vino Chianti Classico. Vanta circa  110 ettari di vigneti, condotti secondo i dettami dell’agricoltura biologica. La cantina è disposta su tre livelli e si avvale della forza di gravità, evitando l’uso di pompe elettriche. Negli anni ottanta qui è nato Flaccianello della Pieve e da allora il  successo è stato enorme, fra i grandissimi nomi della vitivinicoltura toscana. 

Panzano con il recente arrivo delle UGA (Unità Geografiche Aggiuntive) per la Gran Selezione, ha visto ancor di più certificare la propria qualità.

I vini degustati

Flaccianello della Pieve IGT 2019 – Sangiovese in purezza, matura in barriques e botti di rovere francese per 24 mesi. Tonalità rosso rubino intenso e luminoso, ricco e complesso, sprigiona sentori floreali di viola mammola, ribes, marasca, mora e di visciole sotto spirito, poi tabacco e china. Avvolgente e dotato di una nobile trama tannica, con un finale lunghissimo su cenni balsamici ed un sorso duraturo.

Chianti Classico Gran Selezione Vigna del Sorbo 2020 – Sangiovese in purezza, matura per 24 mesi in barriques e botti di rovere francese. Rosso rubino intenso, al naso è un’ esplosione di profumi, viola, lampone, fragola  ciliegia, prugna, rabarbaro e bacche di ginepro, al gusto è pieno ed appagante,  morbido, generoso ed armonioso.

Chianti Classico 2020 – Sangiovese in purezza – Matura in legno piccolo e botti grandi di rovere per 18 mesi – Rosso rubino luminoso, al naso rimanda sentori inizialmente di viola mammola e frutti a bacca rossa, come ribes e ciliegie, per poi proseguire su gradevoli note di spezie dolci. Al gusto è fine, sapido e suadente.

Chianti Classico Filetta di Lamole 2020 – Sangiovese 100% –  Rubino trasparente, rivela note ciclamino, erbe aromatiche, la tipica arancia sanguinella e spezie dolci.  Tannini setosi e vivace freschezza a conclusione di un elegante sorso.

Fontodi

Via San Leonino 89 – Loc. Panzano

50022 Greve in Chianti (Fi)

http://www.fontodi.com

Puglia: “Gusto Jazz” enogastronomia e musica per fare grande il territorio di Corato (BA) e delle Murge

La Quinta edizione di Gusto Jazz a Corato è di diritto tra i Grandi Eventi di Puglia.

Come ci è riuscita? Grazie al vincente connubio, ormai rodato, tra musica ed enogastronomia 100% pugliese. Non è mancata la stoccata di Joe Bastianich alla “sacralità del cibo italiano”, ovviamente con la sua inconfondibile, agrodolce ironia.

Otto giorni in cui la parola d’ordine è stata sinergia tra musica e buon cibo, questa la sintesi di Gusto Jazz. Giunta alla quinta edizione, la rassegna quest’anno si è arricchita del Parco del Gusto: due serate di confronto tra eccellenze enogastronomiche murgiane le cui caratteristiche sono, da sempre, artigianalità, estro creativo e grandi certezze a tavola.

La musica, sempre protagonista, ha scandito i passaggi della manifestazione verso il futuro. Con Alberto La Monica, direttore artistico e mentore della rassegna, abbiamo ripercorso i momenti salienti che hanno fatto di Gusto Jazz un evento imperdibile.

Photo credits: Francesco De Marinis

La musica al centro

Partiamo dall’inizio. Un sogno portare il Jazz lontano dalle classiche mete turistiche blasonate marittime. Alberto La Monica ci è riuscito: “l’idea è nata dal nostro desiderio – quello dell’associazione Art Promotion – di organizzare un evento che potesse diventare una punta di diamante nel cartellone culturale coratino. Volevamo realizzare qualcosa che fosse in grado di promuovere a 360 gradi il territorio sulla scia del Corato Jazz Festival che, negli anni, ha lasciato il suo segno. Si tratta di una naturale evoluzione che tiene al centro sempre la musica”.

Quest’anno il Festival è stato improntato alle voci femminili. Ad aprire la rassegna il 20 luglio Niki Nicolai. E poi Serena Brancale, Simona Bencini, Carolina Bubbico, Costanza Alegiani, Francesca Tandoni e Kelly Joyce. Voci internazionali nel panorama musicale soul e jazz. L’outsider di lusso è stato senz’altro Joe Bastianich, che in veste di musicista folk accompagnato dalla band Terza Classe, ha inaugurato il Parco del Gusto il 24 luglio. E chi meglio di lui avrebbe potuto farlo?

L’etica del buon mangiare

Il primo Parco del Gusto della rassegna ha messo insieme le eccellenze coratine e murgiane fatte di panificatori eccellenti come Marco Lattanzi del Panificio Toscano (tre pani Gambero Rosso 2024) fino alle golosità casearie di cui la città ne è ambasciatrice. Non sono mancate birre artigianali e le migliori cantine del circondario, tra cui Azienda Agricola Mazzone e la cooperativa Terra Maiorum che hanno dato voce alla cultura vitivinicola cittadina.

Il Parco del Gusto, secondo La Monica, è la naturale evoluzione di Gusto Jazz: “da quest’anno siamo tornati in centro con il Parco del Gusto, l’obiettivo è creare maggiore coinvolgimento. Una serie di eventi che contribuiscono alla promozione del territorio che è anche sinonimo di eccellenze enogastronomiche. Negli anni scorsi ci sono sempre stati momenti dedicati al tema, però come tutte le cose, si cresce. Il programma di quest’anno è stato ancora più ricco dal punto di vista gustativo”.

Photo credits: Francesco De Marinis

A Corato quando si parla di pasta c’è una voce che unisce tutti: quella della Pastificio Granoro, un’eccellenza a livello internazionale. Un passo ulteriori in avanti con la linea proveniente da grano 100% pugliese biologico. Si chiama Linea Dedicato ed è un modo per rassicurare il consumatore su un prodotto integro e salutare, importante per la dieta, simbolo dell’italianità e della Regione. Con lo chef Antonio Reale, re del padellone pugliese, sono state proposte due ricette, una in omaggio alla famiglia Bastianich dal sapore americano ma non troppo, l’altra ispirata all’orgoglio pugliese con tanto di salsiccia di cavallo e provola.

Quando si parla di carboidrati non si può prescindere dal comfort food per eccellenza, la pizza. Alimento su cui si potrebbe dibattere per ore, a Gusto Jazz è stata raccontata nella sua accezione contemporanea, ben diversa dalla classica espressione napoletana. Si chiama Contemporanea Pugliese e l’Italian Pizza Master Vincenzo Florio è tra i maggiori esponenti in materia. Anche in questo caso uno show cooking alla scoperta dei segreti che hanno reso la contemporanea non solo una combinazione di ingredienti, ma un vero e proprio stato d’animo da stendere a colpi di farina ed esperienza.

Photo credits: Francesco De Marinis

Un ensemble incredibile le due serate, proprio come farebbe un duo jazz. Se fare cibo è come comporre musica, l’abbiamo chiesto a tutti i protagonisti, Joe Bastianich compreso. A questa domanda, in conferenza stampa, ha risposto così “Non si può fare improvvisazione né in musica né col cibo, bisogna saper mettere insieme in modo ragionato ogni ingrediente come ispirazione, melodia, suoni, tecnica ed emozioni. Tutto questo può creare un brano e anche un piatto da mangiare”.

E pur riconoscendo la sacralità della cultura enogastronomica italiana, Bastianich invita tutti a prendersi un po’ meno sul serio, chiedendo, con ironia ovviamente, di derogare anche ad alcuni canoni del buon mangiare “Cappuccino dopo il branzino? Speriamo di no, ma non escludiamolo per chi proprio non può farne a meno. Dategli questo cappuccino e non rompete”. Senza mezzi termini, ma con il sorriso.

Photo credits Francesco De Marinis – al centro Alberto La Monica

Il cibo come musica per la bocca

Il cibo in ogni sua declinazione diventa gusto e diventa piacere, così come la musica. Ci chiediamo se serve una kermesse così grande e strutturata. La risposta è più che affermativa, soprattutto ora in cui il mangiare consapevole è fondamentale, così come ascoltare musica di qualità. Dal prossimo Gusto Jazz, secondo La Monica, dobbiamo aspettarci una coerenza con le passate edizioni, ma non solo: “non mancherà grande attenzione per ciò che il nostro territorio esprime con le sue eccellenze enogastronomiche a 360 gradi”.

Viva il Gusto, viva il Jazz!

Photo credits: Francesco De Marinis

Montefalco Green: esperienza “sostenibile” alla scoperta del territorio del Sagrantino

Il 14 e 15 giugno il Consorzio Tutela Vini Montefalco ha organizzato un press tour con l’intento di promuovere una declinazione ecologica del turismo in cantina e di valorizzare la produzione vinicola di una terra unica, “verde” per definizione.

Recentemente Il Consorzio, aderendo a Wine in Moderation, il principale programma di responsabilità sociale del settore, ha confermato l’impegno a praticare la sostenibilità, in modo etico e coerente. i territori di produzione delle Denominazioni di Origine Spoleto, Montefalco e Montefalco Sagrantino si contraddistinguono, infatti,  per l’attenzione a ridurre sempre di più l’impatto ambientale.

Montefalco Green ha voluto proporre un modo sostenibile per approcciarsi al mondo del vino, alla scoperta di vini, delle cantine e delle denominazioni, attuando una conversione ecologica del modo di concepire l’enoturismo: i giornalisti e bloggers intervenuti hanno potuto sperimentare bici e auto elettriche, le “Sagreentino”, per spostarsi lungo le strade del comprensorio di Montefalco, in visita alle cantine aderenti al progetto. Questi mezzi  propongono una mobilità lenta, nel rispetto appunto del territorio, che viene solo “sfiorato”: a questo proposito il Consorzio Tutela Vini di Montefalco ha stipulato un accordo con Enel X e sono stati già stati attivati 12 punti di ricarica in 6 cantine, in attesa di raggiungere quota 15 infrastrutture in altrettante aziende.

 

Il punto cardine del Consorzio è quello di proporre strategie innovative sempre nel rispetto della sostenibilità ambientale. Da tempo è già operativo il progetto Grape Assistance, un nuovo modello di assistenza tecnica per la gestione sostenibile del vigneto, applicato dal 2017 in tutta la regione Umbria.

Inoltre, molte aziende hanno aderito al New Green Revolution con lo scopo di installare impianti fotovoltaici e caldaie a biomassa per la riduzione del gas serra e ad Agroforestry , ovvero l’allevamento di avicoli e le lavorazioni con i cavalli nei vigneti.

La quota di aziende che praticano agricoltura biologica certificata o sono in conversione è salito al 31%; un dato che è sicuramente in aumento, che candida i territori di Montefalco e Spoleto a essere una delle aree vinicole più “green” dell’Italia.

L’evento è stato organizzato in modo impeccabile, nonostante la variabile del meteo che non ha certo assistito i partecipanti.

Il percorso con la green car ha toccato per prima l’azienda Romanelli, dove Devis ha raccontato la storia della famiglia, iniziata nel 1978, quando suo nonno e suo padre decisero di creare l’azienda agricola sul Colle di San Clemente a Montefalco. La biodiversità è rispettata nella scelta di dedicare 8 ettari alla vigne e 12 all’olivocoltura dei circa trenta posseduti, tutti condotti in regime biologico.

Durante la degustazione, accompagnata da quella dell’olio prodotto dagli stessi Romanelli (da ben quattro varietà quali leccino, frantoio, san Felice e moraiolo), abbiamo assaggiato Le Tese, da uve Trebbiano Spoletino provenienti da un vecchio vigneto, che ha ancora le viti maritate agli alberi. Poi il Terra Cupa Montefalco Sagrantino lasciato maturare a lungo in botti di rovere di diverse grandezza, ottenuto dalla parte più argillosa e calcarea del vigneto del Colle ove sorge la cantina e infine Medeo Montefalco Sagrantino prodotto solo nelle annate eccezionali, dedicato ad Amedeo Romanelli, che fu il primo a imbottigliare il vino di famiglia.

La seconda realtà del comprensorio visitata è stata Agricola Mevante, cantina di recente costruzione con una elegante e luminosa sala degustazione: Paolo e Antonella Presciutti hanno fatto diventare la loro passione un lavoro e la produzione si attesta per ora sulle 60.000 bottiglie. Abbiamo assaggiato Birbanteo sur lie da Trebbiano Spoletino e un rosato ottenuto da uve Sagrantino coltivato in vigneti nel comune di Bevagna impiantati da circa vent’anni.

Tra un temporale e l’altro siamo arrivati all’ora di pranzo alla cantina La Fonte: una realtà nata a Bevagna all’inizio del ‘900 grazie al bisnonno Angelo e che col passare del tempo è stata divisa tra i figli. Negli anni novanta del secolo scorso, Guido, da sempre appassionato di agricoltura decise insieme alla moglie Patrizia, di avviare lì attività producendo olio e vino. Il nome “la fonte” deriva dalla sorgente naturale ancora visibile, nascosta nel bosco a pochi passi dell’agriturismo.

L’incontro con Bevanato, macerato sulle bucce per una decina di giorni, è stato spettacolare: un tripudio di frutta matura a polpa gialla e tropicale, freschezza e chiusura sapida, grande bevibilità e piacevolezza. Amorosa è  il rosè ottenuto da Sangiovese raccolto anticipatamente e Cabernet Sauvignon. Profumato, fragrante, succoso. Si è proseguito con l’assaggio del Montefalco Rosso e del Montefalco Sagrantino, entrambi di notevole qualità.

Nel pomeriggio, riprese le Sagreentino Car il gruppo si è diretto alla Fattoria Colsanto, di proprietà della famiglia Livon del Friuli Venezia Giulia e che nel 2001 ha voluto investire in questo bellissimo territorio, ristrutturando un casale del ‘700 e acquisendo circa 20 ettari impiantati tra Sagrantino, Sangiovese, Montepulciano e Merlot.

Un viale costeggiato da cipressi conduce all’ingresso della struttura, che comprende anche un agriturismo: dopo la visita in cantina, l’enologo ha illustrato i vini in degustazione, focalizzando il nostro interesse sul Cantalupo proposto in diverse annate: un vino ispirato al bianco pluripremiato dell’azienda madre, ottenuto da Trebbiano Spoletino coltivato nel territorio di Bevagna e affinato in legno. Abbiamo poi assaggiato un ricco tagliere con salumi e formaggi prodotti localmente e finito un’esperienza molto interessante  con il servizio del Montefalco Sagrantino.

Ultima realtà raggiunta dal tour è stata Briziarelli: i lavori per la costruzione della cantina, vero gioiello architettonico, sono iniziati nel 2012 e la struttura domina i 50 ettari posseduti, di cui 22 vitati. Qui vengono coltivate le varietà autoctone ed è stato scelto uno stile di vinificazione tradizionale.

In degustazione Sua Signoria, un Trebbiano Spoletino che dopo la fermentazione matura in legno e Anthaia, il rosato ottenuto dalle uve a bacca nera coltivate in azienda. Abbiamo proseguito sui rossi con Rosso Mattone Montefalco Rosso Riserva e, infine, il Montefalco Sagrantino, intenso, potente e strutturato.

La giornata si è conclusa con la cena di gala ospiti, della cantina del presidente del Consorzio Tutela Vini Montefalco Giampaolo Tabarrini, al quale sono intervenuti i produttori tra cui Filippo Antonelli di Antonelli San Marco, Paolo Romaggioli enologo di Terre De la Custodia  e Liù Pambuffetti di Scacciadiavoli, dove gli ospiti hanno potuto proseguire al tavolo gli assaggi, serviti dai sommelier AIS, dei vini di questo luogo magico, dove tutto riesce a emozionare e a lasciare ricordi indelebili nella memoria.

Un ringraziamento, infine, a MG Logos per l’invito e la splendida opportunità di conoscere Montefalco e le sue produzioni.

Torna a Salerno la Festa della Pizza

Oltre ottantamila presenze e centoquarantamila tranci di pizza sfornati. Questi i numeri con cui è tornata, per spegnere le sue venticinque candeline, la Festa della Pizza a Salerno, dopo una pausa lunga quattordici anni.

Una kermesse organizzata da Associazione Alimenta con Maurizio Falcone e Alfonso Aufiero, in collaborazione con Ivano Santoro di Santoro Creative Hub per il piano marketing e comunicazione, che si è nuovamente proposta come la giusta combinazione di gastronomia e spettacolo.

Piazza Salerno Capitale, sul lungomare del capoluogo campano, si è trasformata in un vero e proprio villaggio del gusto, dove dodici pizzerie storiche hanno lavorato per cinque sere consecutive, dal 12 al 16 luglio, per far conoscere le proprie specialità, mentre sul palcoscenico si sono alternati otto cantanti, sei band e otto scuole di danza, per animare ogni singola serata.

<<Avevamo voglia di tornare! – ha dichiarato Alfonso Aufiero – La location è la migliore: nel centro di Salerno, in un luogo dal clima ideale in giorni di caldo infernale, ventilato e vicino al mare. La missione della festa è sempre stata quella di esaltare la tradizione campana della pizza>>.

In ciascuna delle serate è stato possibile assaggiare, con un ticket a pagamento, quattro tranci di pizza e bere una bibita, scegliendo tra uno o più dei tredici forni a legna presenti.

A partire dalle tradizionali margherita e marinara, proposte dall’Antica Pizzeria Brandi attiva a Napoli dal 1780, alla pizza col pomodoro arruscato della Pizzeria Umberto Falcone, specialità cilentana che su una base bianca prevede l’utilizzo di pomodorini cotti in forno a legna; dalla pizza con impasto gragnanese, diverso da quello napoletano perché più alto e più soffice, della pizzeria Ai Tre Monelli, al classico panuozzo, un vero e proprio panino in pasta di pizza con provola e pancetta, di Luigi o’ Furnar. Presente anche il forno Madison dell’AIC, con le proposte per i celiaci.

E nonostante il caldo, sono state lunghe le file ad ogni forno per mangiare la pizza all’aperto, con tanti numeri d’intrattenimento alternati sul palcoscenico. La conduzione delle cinque serate, come in tutte le edizioni precedenti, è stata affidata a Pippo Pelo, noto conduttore di Radio Kiss Kiss.

Alla domanda su cosa significhi tornare dopo anni a condurre questo evento, Pippo non ci ha pensato due volte: <<Per me la Festa della Pizza è intanto famiglia, è una festa, è lavoro, lavoro nella mia città. Mi sento accolto e amato dai salernitani e non solo, perché questo evento è conosciuto in tutta la regione e anche oltre>>.

Ad affiancarlo sul palcoscenico anche Adriana Petro, sua compagna di “battaglia radiofonica” nella trasmissione di radio Kiss Kiss che tra le 7.00 e le 9.00 dà il buongiorno all’Italia: Pippo Pelo Show.

Il palinsesto della manifestazione ha contato su artisti del calibro di Lele Blade, Napoleone, Neri per Caso, Dadà, Davide De Marinis, Ciccio Merolla, LDA, che hanno intrattenuto il pubblico in attesa della propria pizza o intento a gustare una delle specialità appena sfornate.

<<Gastronomia e spettacolo sono un connubio perfetto>> sottolinea infine Alfonso Aufiero. E in questo caso la gastronomia è quella della grande tradizione della pizza partenopea e campana. Una tradizione che ha il difficile compito di mantenersi attraente in un’epoca in cui l’offerta, sempre più multiforme e multietnica, ha sortito lo stesso effetto delle Sirene su Ulisse. Se dobbiamo dare ascolto ai maestri pizzaioli che hanno partecipato alla Festa, la vera originalità della pizza oggi risiede unicamente nell’eccellente rielaborazione della grande tradizione e nelle materie prime.

L’ELENCO DELLE PIZZERIE PRESENTI ALLA MANIFESTAZIONE

Ai Tre Monelli – Angri (SA)

Pizzeria l’Angelo e il Diavolo – Salerno

Antica Pizzeria Brandi – Napoli

Antica Pizzeria Reginé – Salerno e Firenze

Criscemunno – Salerno

I Due Fratelli – Salerno

I Love Pizza – Baronissi (SA)

Luigi ‘o Furnar – Gragnano (NA)

Madison – Cava de’ Tirreni (SA)

Ma Tu Vulive ‘a Pizza – Napoli

La Pizza di Umberto Falcone – Salerno

Tutù Pizza – Bivio Pratole (SA) Vaco ‘e Pressa – Salerno

Toscana: “Talamo a Mare” il bordolese di profondità

di Augusta Boes

Marco Bacci, imprenditore da sempre e vignaiolo per amore, raccoglie la sfida del caso e prova ad affinare il più classico dei tagli bordolesi nel profondo degli abissi della costa maremmana, con risultati davvero sorprendenti con il suo progetto “Talamo a mare”.

In un nostro precedente articolo (Bacci Wines: equazione risolta) avevamo anticipato che ci sarebbero state interessanti novità all’orizzonte in casa Bacci Wines, e che ne avremmo parlato a tempo debito: il momento è arrivato e “ogni promessa è debito”.

Il sorriso solare e l’entusiasmo sincero con cui Marco Bacci ha accolto media e giornalisti nella sua tenuta Terre di Talamo, nei pressi di Fonteblanda (GR) in piena Maremma Toscana, hanno immediatamente conquistato tutti. In un caldo pomeriggio di luglio, coccolati da un rinfrescante calice di spumante e dalla brezza che porta i sussurri del mare fin su la collina, ci siamo sentiti subito a casa. Uno spumate peraltro d’eccezione, il Barbaione AD 1111 Dosaggio Zero, un metodo classico da uve Sangiovese di cui si producono poco più di 3.000 bottiglie per una fresca carezza dal gusto decisamente toscano.

Non è raro che imprenditori nazionali e internazionali decidano di investire in tenute vitivinicole qui in Italia. Tuttavia, sono pochi quelli che si lasciano coinvolgere così profondamente da decidere di cambiare radicalmente vita.

Bacci Wines: una scelta di vita all’insegna dell’eccellenza

La storia di Bacci Wines comincia come tante altre: un giovanissimo ed esuberante imprenditore decide di acquistare una tenuta vitivinicola, un po’ per gioco, un po’ come investimento e un po’ perché fa tendenza.  Si innamora di Castello di Bossi nell’areale del Chianti Classico, i cui spazi di cantina, tra l’altro, custodiscono storie e segreti del grandissimo enologo Giacomo Tachis. Ed è così che questo ragazzo di 25 anni intraprende, più o meno inconsapevolmente, una nuova avventura che avrebbe cambiato per sempre la sua vita. «Il primo segno di pazzia, che poi mi ha preso tutto» ci racconta Marco, a tal punto che nel 1996 decide di vendere le sue aziende d’abbigliamento per sposare senza compromessi la sua nuova missione: fare vino e farlo anche molto bene.

Da allora l’azienda si è espansa notevolmente, e ad oggi conta 5 tenute a conduzione biologica certificata: Castello di Bossi, Tenuta di Renieri e Barbaione in Chianti Classico, Renieri a Montalcino, e Terre di Talamo qui in Maremma. Una “pazzia” davvero dilagante.

Terre di Talamo: il rifugio del lupo di mare

La tenuta maremmana è incantevole: un anfiteatro naturale con i vigneti che baciano Talamone in lontananza, declinando dolcemente verso il mare azzurro. Affascinato dalla sua bellezza, Marco all’epoca concluse l’affare in soli cinque giorni, aggiungendo Terre di Talamo alla sua collezione di gioielli. Il posto perfetto per lui che ama le immersioni e la pesca di profondità; che poi, a guardarlo bene, è difficile distinguere il vignaiolo dal lupo di mare.

Tra questi filari nascono, tra le altre cose, due interpretazioni davvero interessanti del Vermentino di Toscana, rispettivamente il Vento e il Vento Forte. Il primo, vinificato in acciaio, cattura l’essenza della brezza marina e delle erbe aromatiche, offrendo un vino piacevole e dalla personalità leggiadra. Il secondo, invece, maturato in barrique, colpisce per la sua delicata cremosità e si distingue per i suoi piacevoli sentori di frutta bianca, salvia, alloro, tiglio e ginestra. Inconfondibile la nota iodata che, anche in questo caso, richiama la carezza del vento marino sia nell’aroma che nel gusto.

Talamo a mare: il vino rosso affidato alle cure di re Tritone

Il vero protagonista della giornata però è stato il Talamo a Mare, il vino nato per caso da una dimenticanza. Il destino ha voluto che Marco scordasse per lungo tempo una cassa di Talamo, il taglio bordolese dell’azienda, nella stiva della sua barca. Al ritrovamento la sorpresa è stata grande. Il rollio delle onde, la temperatura e il grado di umidità pressoché costanti avevano conferito al vino una marcia in più. È da qui che nasce l’idea di sperimentare l’affinamento in fondo al mare, il primo tentativo in assoluto per un vino rosso in Toscana, tant’è che la mancanza di norme specifiche ha fatto sì che ci volessero poi 3 anni per poter inabissare la prima cassa a 35 metri.

Non lascia alcun dubbio la degustazione comparativa di questi gemelli diversi, di terra e di mare, figli della stessa botte, assaggiati nei millesimi 2018 e 2019. Custodito e coccolato da dio Tritone, sebbene il ventaglio olfattivo e la piacevolezza del sorso fossero molto simili, il Talamo a Mare è decisamente un vino in dolby surround. L’intensità e la profondità dei profumi, di frutti rossi croccanti, rose carnose, ibiscus e delicate spezie dolci, risultano amplificati come ci fosse una sorta di reverbero a sostenerne la complessità. La stessa cosa si può dire del sorso che risulta teso, dinamico e piacevolissimo, con tannini carezzevoli, grande equilibrio e tanta freschezza. Puntuale e precisa la corrispondenza gusto-olfattiva, caratteristica sempre importante nel valutare la qualità di un vino.

Un esperimento che sin qui ha dato ottimi risultati che hanno premiato la tenacia e la caparbietà di Marco Bacci nel perseguire questo suo sfidante obiettivo. E la storia non finisce certo qui; non mancano le idee e i nuovi progetti ma nessuna anticipazione, per non rovinare la sorpresa. Ne parleremo a tempo debito. Braccia fortunatamente restituite all’agricoltura quelle di Marco, perché se un vino non è fatto prima per passione e poi per il mercato, la differenza si sente tutta, e qui il supplemento d’anima risulta davvero rilevante.