Brisighella Anima dei tre Colli: la degustazione delle nuove Albana “Brix”

La Romagna sta maturando la consapevolezza che è arrivato il momento di cambiare marcia per affermarsi definitivamente sul mercato vinicolo nazionale e internazionale. L’Albana, prima DOCG d’Italia, si trova oggi di fronte a una sfida importante: è stata interpretata in innumerevoli forme, al punto da rischiare di smarrire una chiara connotazione. Questa crisi d’identità richiede un nuovo approccio culturale che sappia valorizzarne appieno le potenzialità.

È necessario un racconto più concentrato, più univoco, capace di comunicare con forza la qualità intrinseca di questo vitigno. Proprio in questo contesto si inserisce l’ambizioso progetto dell’associazione Brisighella Anima dei tre Colli, culminato con il lancio della versione “Brix” dell’Albana di Romagna DOCG. Dell’evento di presentazione al pubblico ne abbiamo già parlato nell’articolo Brisighella Anima dei tre Colli: e “Brix” fu!

Mancava all’appello la masterclass riservata alla stampa, dedicata alle prime 8 interpretazioni dell’Albana “Brix” della vendemmia 2022, guidata da Federica Randazzo. È stata un’occasione per approfondire il legame tra il vitigno e il territorio di Brisighella. Ci concentreremo sull’analisi di queste espressioni uniche e su come esse incarnano l’anima del progetto.

La prima batteria è dedicata al confronto fra due espressioni di Valpiana, zona di Brisighella con suoli caratterizzati da una forte componente marnoso arenacea.

Vigne dei Boschi – Monteré Brix 2022

Ad aprire le danze è Paolo Babini, vice-presidente dell’associazione. Il calice si tinge di oro antico e luminoso, dalla consistenza cremosa. Il naso parte con la classica nota boschiva che contraddistingue i suoi vini. Arriva poi la parte di frutta tropicale e il calice si apre in altre note di cipresso, gelsomino e un pizzico di etereo. La bocca conferma calore e freschezza che si spalleggiano e permangono in una piacevole chiusura. Fermentazione e affinamento in barrique nuove che lasciano il “segno del legno”.

Fondo San Giuseppe – Fiorile Brix 2022

Il dirimpettaio di Paolo, Stefano Bariani, sembra che faccia Brix da una vita. Colore oro zecchino, incredibilmente saturo e brillante. Note di rosmarino, spezie delicate come la cannella e un piacevole aroma di mela. In bocca è caldo, avvolgente, le durezze arretrano, ma le morbidezze sono soavi. In chiusura un respiro di prato di montagna. Qui il legno è ben digerito, da 10 e lode.

Per la seconda batteria rimaniamo in terreno marnoso arenaceo, spostandoci di qualche chilometro verso la via Emilia.

La Collina – Na Brix 2022

Questo non è solo il primo Brix per Mirja Scarpellini, ma il primo esperimento di Albana in assoluto. Il colore del vino è un oro cupo e saturo, con un naso spinto sull’aromaticità, sulla dolcezza da datteri e uva sultanina, con note al limite del surmaturo di prugne sciroppate e zafferano. Se il naso è importante, lo è ancora di più la bocca, dove troviamo un vino complicato da interpretare e una componente dolce che ruba la scena a una sapidità fortunatamente elevata che sostiene il sorso per infiniti secondi. Vino “di ciccia”, manca di un po’ d’agilità di beva.

Vigne di San Lorenzo – Montesiepe Brix 2022

Completamente ambrato e opalescente, alla vista sembra aranciato. Filippo, il cui stile di far vino è ben conosciuto, ci ha colpito veramente con questa espressione di quello che si può considerare a tutti gli effetti un orange wine. La volatile contribuisce a innalzare la complessità olfattiva che si esprime in un mix di frutti, dai più maturi ai più aciduli. In bocca c’è una forte componente astringente (che ritorna in chiusura) e fresco-sapida, che lo rende un vino molto esuberante che non stanca. Nel lato morbidezze si ravvisa tuttavia una mancanza. Insolito, non “scimmiotta” nessun altro, dal punto di vista tecnico è un ottimo lavoro. Ma nella diversità bisogna anche vendere…

La terza batteria ha in realtà un solo campione, ci spostiamo nella zona dei gessi per apprezzare una sfumatura differente del territorio Brisighellese.

Casadio – Albagnese Brix 2022

Siamo in zona Rontana, nel bel mezzo della “Vena del gesso” Romagnola. Il Brix di Antonio si colora di oro caldo con sfumature bilanciate. Il naso è orientale, fusion, caratterizzato da nespola giapponese, zenzero e curcuma. Ci sono in sottofondo le note caratteristiche di Albana, come albicocca e salvia. Attacco di bocca freschissimo, agrumato, agile e ben bilanciato. Un vino che ha letto in misura particolarmente efficace la mineralità che contraddistingue il territorio. Chiusura corta e ammandorlata: peccato!

La quarta e ultima batteria è dedicata ai terreni fini e calcarei, la zona più bassa del Brisighellese.

Poggio della Dogana – Farfarello Brix 2022

È Aldo Rametta a rappresentare la cantina e a presentare una Brix che di Belladama (la loro Romagna Albana DOCG) non ha cenni. Un oro pallido seppur dalla bella luminescenza. Al naso è inizialmente timido, ma poi si apre in una parte verde, terrosa e una bella traccia marina. Anche in bocca si conferma la timidezza, il vino si chiude, delicato, fa fatica ad aprirsi per poi sfociare finalmente in note fresche e citrine, come mela verde, pompelmo e fiori bianchi. La tostatura non è particolarmente suadente. Ciò che mi ha colpito, però, è l’attacco internazionale di questo vino, a tratti “chablis-eggiante”, che lo rende molto appetibile al mercato d’oltreoceano.

Bulzaga – Scorzanera Brix 2022

Anche Alessandro si è cimentato in questo esperimento, dando vita a un vino avvolgente caratterizzato da ricchezza del frutto. Ricchezza che tuttavia non è sinonimo di espressività, rendendo difficile l’interpretazione olfattiva e palatale. Ritorna, in chiusura di bocca, la buona definizione del frutto e un allungo piacevole.

Gallegati – Corallo oro Brix 2022

Altro “corallo” che va ad aggiungersi ai 7 già prodotti da Cesare Gallegati, presidente dell’associazione, che chiude questa batteria e l’intera degustazione. Il colore ricalca il nome del vino, saturo, denso e pieno di luce. Un naso che interpreta alla perfezione una “Vieilles Vignes”, con note tropicali, balsamiche, glicine in fiore. In bocca troviamo succo di agrume che eleva la parte acida e coraggiosamente prende il sopravvento, seguito a ruota dalle rotondità. Vogliamo assaggiarlo l’anno prossimo, ha bisogno di un po’ di affinamento in vetro e di tempo, proprio come conviene a un vero Riserva.

In conclusione possiamo dire il progetto ha centrato l’obiettivo, la prima versa versione ufficiale dell’Albana Riserva, che ha contribuito a un’unione vera dei produttori di Brisighella. Nonostante la chiara identità del disciplinare, permane la diversità, come se l’Albana fosse un adolescente ribelle che non vuole farsi vincolare. Dobbiamo aspettare altri esperimenti per capirlo.

Per il momento, buona la prima!

Sakè: il Nihonshu al tempo dei Samurai

L’élite militare giapponese nel relativo periodo medievale e lo storico fermentato di riso e koji sono stati secolarmente uniti tra loro. La figura del Samurai, classe guerriera del Giappone feudale, e il sakè costituiscono tutt’oggi dei simboli iconici fortemente radicati nella cultura del Paese dell’Estremo Oriente da cui traggono origine.

Infatti, per quanto la genesi del sakè, meglio chiamarlo Nihonshu, e l’affermazione dei samurai non siano state sincrone, sarà proprio la storia del Giappone a intrecciarli tra loro e ad ancorarli alla tradizione di questo Popolo nel fluire del tempo.

Un salto nel passato

Ci sono non poche probabilità che il casuale processo di fermentazione del riso, indispensabile per ottenere il sakè, abbia avuto origine in Cina attorno al V millennio a.C. nei pressi del Fiume Azzurro, per quanto altre ipotesi sostengano invece che sia avvenuto in prossimità del Fiume Giallo, durante il periodo della dinastia Shang, tra il XVII ed il XI secolo a.C. Nella grande Cina, tre secoli prima della nascita di Gesù Cristo, viene fatta menzione di una particolare muffa per la prima volta nello Zhouli, libro dei riti della dinastia Zhou, che in seguito verrà classificata come aspergillus oryzae, un fungo filamentoso di estrema importanza per l’alimentazione Estremo Oriente, persino oggigiorno, e noto appunto come koji.

Quel che è certo è che, durante il Periodo Jomon, circa 1200 anni fa, era nota la sola presenza di uva selvatica in Giappone che, assieme ad altra frutta spontanea, serviva alla produzione di bevande rudimentalmente fermentate. Plausibilmente il nihonshu nasce tra il 300 a.C. e il 300 d.C. durante il Periodo Yayoi: le più antiche ed accreditate testimonianze in forma scritta, a riportare notizia sul consumo di sakè in Giappone, risalgono a questa epoca e sono riportate nelle Cronache dei Tre Regni, o “Gishi Wajin Den”, più precisamente nel Libro di Wei, testo cinese importantissimo in cui è descritto come interpretare e decifrare gli ideogrammi giapponesi su costumi, cariche pubbliche, luoghi geografici e, appunto, la consuetudine di bere alcol, sia durante le danze popolari che nei periodi di lutto a quel tempo.

Non è dunque un caso se, proprio in questo periodo, venne importata dalla Cina la tecnica di coltivazione del riso e furono compiuti i primi passi nel tentativo di produrre una bevanda fermentata antesignana del sake odierno. Grazie ai cinesi quindi, già maestri nella coltivazione del riso in terrazzamenti ed ambiente umido, si realizzarono le condizioni ideali per la produzione del sakè moderno nella penisola nipponica e fu possibile produrne il suo primo vero antenato: il kuchikami no zake; prodotto dalle sacerdotesse attraverso la masticazione del riso caldo, usando spesso anche miglio, castagne e talvolta ghiande che, sputato in tini di legno,  cominciava a fermentare anche grazie all’innesco di ptialina e ad enzimi come l’amilasi contenuti nella saliva. Da allora i progressi e le migliorie che hanno condotto il sakè primordiale a diventare la bevanda che conosciamo oggi sono stati innumerevoli.

La comparsa dei samurai

Questa casta di guerrieri, detta anche Bushi, apparve in Giappone intorno al X secolo d.C. e consolidò il suo ruolo, diventando un gruppo privilegiato, verso il 1191, grazie all’ascesa di Yoritomo, del clan Minamoto, il quale assunse il titolo di Shogun di Kamakura un anno dopo; erano noti per il loro coraggio in battaglia e per il loro rigido codice d’onore, il Bushido, oltre che per essere eccelsi spadaccini ed arcieri, abilissimi a cavallo e nelle arti marziali. La cultura dei Samurai aveva quali fondamenta disciplina, rispetto e autocontrollo, basandosi sul forte senso di lealtà verso i loro Daimyō, il clan di appartenenza e quindi lo Shogun, mostrando attitudine per il sacrificio di sé stessi e mettendosi a difesa degli oppressi. Tappe importanti per i Samurai sono il 1868, anno in cui l’imperatore Meiji istituì il “Giuramento dei Cinque Articoli“, con il quale inizia a smantellare, di fatto, la classe dei Samurai, vedendone ufficialmente sciolta la casta in questo periodo. Infine, nel 1876, lo stesso imperatore dichiarò illegale portare spade: scomparvero così i Samurai dopo un’esistenza quasi millenaria.

E la relazione tra Samurai e Nihonshu?

Sembra che i Samurai fossero in grado di reggere formidabili quantità di alcol e persino gareggiare a chi ne bevesse di più per dimostrare forza, resistenza, determinazione e lucidità, senza perdere il loro proverbiare autocontrollo. Ciò non vuol dire che fossero dei beoni, anzi contribuirono a migliorare la produzione e il consumo del sakè, grazie al loro gusto raffinato, arrivando in certi casi a plasmarne lo stile, essendo il Nihonshu inequivocabilmente parte della loro identità culturale. Insomma, essere samurai voleva dire a tal punto di avere un palato raffinato che consentiva loro di selezionare un particolare sakè in base al suo sapore, aroma e la sakagura in cui veniva fatto, al fine di intrattenere gli ospiti, dimostrando quindi abilità sensoriali e comunicative. Alcuni arrivarono addirittura a commissionare tazze e contenitori speciali che meglio riflettevano il loro status e il loro gusto personale.

La storia dei 47 Ronin, Samurai senza padrone, risale al 1701: in pratica, un gruppo di Samurai si vendicò su un potente e corrotto Daimyō, tal Kira Yoshinaka, poiché aveva dapprima insultato e poi messo il loro signore, Asano Naganori, nelle condizioni di commettere seppuku, il suicidio rituale. In particolare Yoshikane Oishi, che era stato prosciolto nel suo ruolo di Bushi e lasciato senza padrone, trascorse più di un anno a pianificare i suoi propositi di vendetta assieme agli altri camerati del clan Naganori e, la notte dell’attacco, bevve una tazza di sake prima di dare l’ordine di assalto.

Esistevano comunque altri rituali fondamentali nella vita di un Samurai, come la lucidatura della sua spada e il gesto dello sputo su di essa. Infatti, prima che un samurai pulisse la sua spada, vi sputava sopra del sakè, essendo un simbolo di purezza, atto a rappresentare la purificazione dell’arma sacra. In secondo luogo il sakè costituiva un simbolo dell’onore del Samurai e quest’ultimo giurava il suo onore alla spada. Infine, impegnava il samurai a trasmettere il suo coraggio nell’uso della spada.

Il rito, noto come Bushi-Nin Sake, era un passaggio fondamentale compiuto prima che un guerriero o un Samurai andassero in battaglia, praticato persino dai kamikaze durante la Seconda Guerra Mondiale e richiedeva che il samurai-pilota sorseggiasse sakè prima di ingaggiare il nemico nel duello aereo. Costituitosi nel 2004, a tutela della cultura e del bere giapponese, il JapanSake Brewers Association Junior Council, ha istituito la figura del Sake Samurai, titolo onorifico concesso a coloro che nel mondo divulgano la conoscenza e la passione per il Nihonshu, conferendo le prime nomination annuali a partire dal 2006.

Consorzio di Tutela Vini Roma DOC: Rossella Macchia eletta Presidente

Rossella Macchia è stata eletta come nuova presidente del Consorzio di Tutela Vini Roma DOC, succedendo a Tullio Galassini.

Dopo aver ricoperto per anni la carica di vicepresidente e con esperienza da general manager dell’azienda Poggio le Volpi, Rossella proseguirà il lavoro di promozione dei territori, della cultura enologica e dei vini rappresentati all’interno dai confini della Doc Roma.

Il Consorzio di Tutela Vini Roma Doc ha espresso, altresì, grande apprezzamento per l’impegno profuso da Tullio Galassini, riconoscendone la dedizione e la competenza dimostrate nel corso della sua presidenza.

Con la nomina di Rossella Macchia, il Consorzio punta a consolidare e approfondire ulteriormente il lavoro svolto fino ad oggi, rafforzando la valorizzazione del patrimonio vitivinicolo romano.

Consapevoli che la strada per la gloria dei vini di Roma è ardua e in salita, auguriamo a Rossella Macchia un buon lavoro, continuando nel segno dell’innovazione, alla continua ricerca della qualità finale dei vini.

Romagna: i vini di Tenute Bacana

Ogni buon appassionato di vini del proprio territorio è spesso incuriosito (e a volte prevenuto) alla presenza di nuove realtà. Si pensa che ormai nessuno abbia qualcosa di nuovo da offrire in un mondo vitivinicolo già dominato dai “big” storici.

Questo atteggiamento è comprensibile, soprattutto se consideriamo che molti ci provano, ma pochissimi riescono a emergere, e quei pochi pagano lo scotto dell’immaturità dei primi anni non avendo un background consolidato alle spalle.

Fortunatamente, noi “curiosi” cerchiamo di osare e trovare un equilibrio tra l’esplorare qualsiasi proposta e il restare unicamente nella zona di comfort. La nostra audacia viene ricompensata quando troviamo produttori come Filippo Poggi di Tenute Bacana.

Siamo a Villa Vezzano, una minuscola frazione di appena 300 anime, confinante con Tebano (Faenza) ma che fregiarsi di essere, seppur di poco, sotto il comune di Brisighella. Lo si capisce anche dai terreni variegati: argillo-ferrosi e sasso-sabbiosi, a seconda della particella, ma sempre con buone dosi di calcare, tipici della Brisighella “bassa”.

La storia di Tenute Bacana affonda le radici nel secondo dopoguerra, quando il nonno materno di Filippo, Angelo Liverani, coltivava viti nei poderi di famiglia. Come avveniva nella stragrande maggioranza dei casi di quell’epoca, l’uva veniva poi conferita alle Cooperative vitivinicole sociali, ad eccezione di quei grappoli riservati per produrre il “vino per la casa”.

Facciamo ora un salto avanti di almeno 70 anni. È il 2020, e in Italia imperversa l’epidemia di Covid-19. Filippo (classe 1998), stanco del suo lavoro di trasfertista per una nota azienda di packaging, decide che è arrivato il momento di provar a fare qualcosa di suo. In fondo lui le viti le ha sempre coltivate assieme al nonno e la passione non gli manca.

Parte l’esperimento non senza un pizzico di sana follia. Filippo dimostra audacia nel produrre, già il primo anno, 5.000 bottiglie di Sangiovese e 5.000 bottiglie di Albana. Senza un aiuto. Senza qualcuno che curasse la parte commerciale o il marketing. La sera, dopo il lavoro e nei weekend, caricava le bottiglie in macchina e bussava a tutti i locali e ristoranti della zona. Ed ha funzionato. Il vino riscuoteva così tanto successo che ogni volta tornava a casa senza bottiglie. Quell’anno fece il tutto esaurito e anche l’anno successivo e pure quello seguente.

Un successo che trova la sua chiave di volta in un prodotto genuino che si è ben guardato dallo scimmiottare qualcosa già esistente, aggiungendo quindi un tocco di personalità tramite il legame con i vitigni e il territorio. Il tutto condito da una grandissima dose di umiltà. Sì, perché Filippo è rimasto umile, continuando a fare un secondo lavoro, l’agente finanziario, in modo da potersi permettere di fare qualche investimento per vedere il nome di Tenute Bacana crescere Un’umiltà che dimostra nell’accogliermi a casa sua preparando tagliatelle al ragù della tradizione con l’entusiasmo di farmi assaggiare i suoi vini.

Albana 2023

Un sapiente di mix di una parte raccolta in leggero anticipo con criomacerazione per donare freschezza e una parte in vendemmia leggermente tardiva (fine settembre) per donare spessore, condite da sosta di 3 mesi sulle fecce fini.

Al naso regala un’esplosione di profumi, più che altro di fiori delicati come la camomilla ed erbe aromatiche come il rosmarino. La frutta, la classica albicocca, arriva solo dopo qualche olfazione. C’è spazio anche per tanta mineralità e per un finale su aromi di lavanda, talco e altre essenze floreali. In bocca è rotondo, masticabile. C’è concentrazione ed estratto senza risultare pesante.

Intento 2023

Eliminiamo subito la curiosità del nome riportato in etichetta (che fra l’altro è l’unico dato che Albana e Sangiovese non hanno ancora un nome). Il romagnolo ha l’intento di far grande il Trebbiano, da sempre bistrattato ed accostato al vino in brick. Inizialmente non era l’idea di Filippo, che con appena 15 quintali voleva conferirlo alla cantina sociale. Però quest’anno, complici altri impegni in vigna, l’ha lasciato lì fino alla prima settimana di ottobre, constatando che l’uva era perfetta. Ed ecco il primo tentativo di sole 2000 bottiglie proprio con questa annata, la 2023.

La presa al naso è più timida rispetto all’Albana. Un vino che vira sul vegetale fresco/mentolato. Frutta che ricorda pera, mela renetta e perché no, la giuggiola.

In bocca è materia pura. Cremoso, a tratti quasi da sorbetto. L’acidità purtroppo non prevale, ma c’è estrema sapidità a reggere la spalla delle durezze. Finale di bocca lungo e non amaro.

Piccola curiosità: esce in denominazione Brisighella Bianco.

Sangiovese 2022

Il colore è davvero invitante, quello “bello” del Sangiovese rosso carminio saturo e con buona trasparenza. Il naso è gracile e spinge a tratti su freschezza di mora, fragolina di bosco e nepitella, mentre il calore ci rimanda a una frutta leggermente macerata. In bocca l’alcool è ben integrato, con accenni di rotondità. Il sale dona un ottimo equilibrio. Manca un po’ di lunghezza ma il coup-de-nez finale rivela l’integrità aromatica riscontrata all’inizio. Da perfezionare.

Filippo, vorremmo davvero assaggiare questi vini fra qualche anno, ma se vendi sempre tutte le bottiglie attenderemo con piacere.

Sinfonia di note internazionali: Paul Balke e Anneke Van Santen incantano il Castello Marchionale di Taurasi

In una serata d’estate, il Castello Marchionale di Taurasi ha aperto le sue antiche porte per accogliere un evento straordinario: un concerto per pianoforte e voce. Il contesto suggestivo del castello, con le sue mura cariche di storia e le torri che si stagliano contro il cielo stellato, ha offerto la cornice perfetta per una serata di pura magia musicale.

Il concerto di musica classica è stato un evento imperdibile per gli amanti del genere. Il repertorio, che spazia da Bach a Mozart passando per Vivaldi e Chopin, è stato magistralmente interpretato dalla voce del soprano Anneke Van Santen accompagnata dal pianista olandese Paul Balke, organizzatore dell’evento.

E’ stato un evento memorabile che ha unito la passione per la musica e il vino. Balke, olandese, noto come scrittore e giornalista enologico, produttore di vino e pianista, ha incantato il pubblico con esecuzioni di brani di Bach, Vivaldi e Chopin, mostrando maestria e sensibilità interpretativa. Anneke Van Santen è invece un soprano di talento, celebre per la voce cristallina e la sua notevole estensione vocale, con una tecnica impeccabile che le consente di affrontare con facilità anche le arie più complesse del vasto repertorio, dal bel canto italiano ai drammi operistici romantici tedeschi e francesi. Anneke conquista il pubblico con le sue interpretazioni appassionate e la sua presenza scenica magnetica.

L’atmosfera intima e la suggestiva location del castello hanno reso l’esperienza ancora più speciale per gli spettatori presenti.

Oltre alla sua abilità musicale, Balke è conosciuto per il suo impegno nella promozione del vino Taurasi, evidenziando le potenzialità inespresse di questo rinomato vino DOCG. Trasferitosi in Irpinia da qualche anno, ha da subito sottolineato l’importanza della cooperazione tra produttori e ristoratori locali per migliorare la qualità e la visibilità del territorio, paragonato a una macchina da Formula 1 che necessita di essere promossa adeguatamente per raggiungere il suo pieno potenziale. Una carriera iniziata come importatore di vini in Olanda, ma la passione lo ha portato a trasferirsi dapprima in Piemonte, dove ha approfondito la sua conoscenza e il suo amore per le varietà locali, ed ora in Irpinia.

Balke, è un sostenitore del concetto di “blend”, ovvero la mescolanza di vini da diverse varietà di uve, che insegue anche nei suoi vini per creare grande qualità e complessità, preservando uve autoctone che potrebbero altrimenti scomparire. Tra le sue creazioni più conosciute, il Piemonte DOC rosso è un blend di Freisa e Croatina, varietà storiche spesso trascurate dai produttori locali.

Paul ha inoltre scritto diversi libri che esplorano il mondo del vino e delle regioni vinicole italiane. I suoi lavori più significativi sono “Alto Adriatico”, un saggio che presenta le aree vinicole tra Friuli-Venezia Giulia, Slovenia e Istria, e “Piemonte, wine and travel atlas”, dove esplora non solo i vini più celebri come Barolo e Barbaresco, ma anche varietà meno conosciute come il Timorasso. Nei libri, ricchi di fotografie e mappe, analizza le caratteristiche geologiche, climatiche e storiche di queste regioni, oltre a discutere i disciplinari di produzione dei vini e le tradizioni gastronomiche locali.


Paul è una figura chiave nel panorama enologico irpino, con una visione innovativa e un forte impegno verso la valorizzazione delle varietà autoctone e delle tradizioni vinicole italiane. La sua scrittura e i suoi vini riflettono una passione profonda per il vino e un desiderio di condividere la ricchezza del patrimonio vitivinicolo con un pubblico più ampio.

Al termine del concerto, un lungo e caloroso applauso ha avvolto gli artisti, espressione di gratitudine e ammirazione da parte di un pubblico visibilmente emozionato. Un gradito calice del fresco e aromatico Vino Spumante Di Qualità Brut “Oro Spumante” di Tenute Cavalier Pepe è stato offerto al pubblico a sigillo della cooperazione tra il territorio e il giornalista olandese.

Metti una sera a cena al Castello di Rocca Cilento

Esistono castelli e castelli: quello di Rocca Cilento, nel restauro proposto dalla famiglia Sgueglia e dal compianto Stefano, sfiora senza dubbio l’immaginario collettivo in tema di ricordi medievali.

Non manca davvero nulla, neppure il ponte che collega un’ala all’altra della dimora storica e che assomiglia ai ponti levatoi con tanto di fossati utilizzati nei kolossal del cinema americano, tra nobili cavalieri, disfide e tenzoni romantiche, panorami bucolici mozzafiato.

In tale contesto, sotto gli occhi ammirevoli dei presenti, è andato in onda (proprio il caso di dirlo) un evento unico nel suo genere, la cena a 4 mani tra due chef che stanno scrivendo pagine importanti nella ristorazione della Campania.

La parte del “padrone di casa” viene ben recitata da Matteo Sangiovanni, di recente approdato in questi magnifici luoghi dopo esperienze prestigiose. L’invitato di lusso è invece Vincenzo Cucolo di Aquadulcis, ristorante in capo alla famiglia Cobellis a Massa di Vallo della Lucania (SA).

Nell’attesa di avvicinarsi ai tavoli del Bistrot dei Sanseverino, che fa parte del resort con 6 stanze per gli ospiti, di cui 4 suite arredate in chiave luxury, viene servito un aperitivo in terrazza al tramonto, con le primizie proposte dagli assistenti di chef Sangiovanni ed i Franciacorta dell’azienda Montina, la giusta atmosfera per un momento di festa enogastronomica.

Potersi rilassare per un attimo al calar del sole estivo, osservando in lontananza il mare di Agropoli e le colline retrostanti in direzione del Monte Cervati e della diga di Alento, è un lusso che non ha prezzo.

Trascorso nella convivialità l’inizio di serata, arriva il clou con l’esibizione ai fornelli dei due chef, nella proposizione di un ricco menù.

Dal filetto di trota, pesto di prezzemolo, wasabi e pomodoro rosa di Cucolo ai ravioli con carpaccio di gamberi rossi di Acciaroli e fonduta di piselli, per terminare prima dei dessert con un tonno rosso scottato, salsa di Franciacorta “Montina” e fiori di zucca in tempura entrambi di Matteo Sangiovanni.

Coccole finali tra ricotta, rhum, pere, frolla e fondente del giovane talento di Aquadulcis e la piccola pasticceria realizzata da Federico Sorrentino pastry chef del Castello di Rocca Cilento.

Un “contest” in cui nessuno vince davvero, se non il palato di chi ha potuto assistere comodamente seduto tra miti, leggende e tanta concretezza culinaria.

Benevento: tra cavalieri, streghe, santi e buona tavola

Sanniti: popolo fiero di ceppo sia irpino che caudino, originatosi dagli Osci. I Romani conoscono bene l’orgoglio delle genti che abitavano queste vallate così ricche di bellezza e di mistero. Il nome stesso di Benevento, punto di partenza del nostro racconto di una delle perle della Campania, è intriso di storia e leggenda. Forse un’antica storpiatura del termine malies (che richiama le origini greche dei fondatori) o mallos a simboleggiare il vello della pecora, e l’abilità di allevatori e coltivatori degli abitanti.

La fondazione di Benevento la si deve, secondo ipotesi recenti, a un rituale tipico dei sanniti, che consacravano al dio Mamerte i nati tra il 1 marzo e il 1 giugno secondo i canoni della “primavera sacra” (ver sacrum). Gli stessi, divenuti giovani uomini, si sacrificavano per il bene comune spostandosi alla ricerca di luoghi da colonizzare, seguendo le orme di un animale sacro, qui da sempre incarnato nel cinghiale.

Da allora sono poche le fonti disponibili che testimoniano la volgarizzazione del nome in Maleventum, poi diventato, dopo il 275 a.C. Beneventum per buon auspicio da parte del nuovo conquistatore, Roma, che concederà subito il beneficio di Municipium, quale punto nevralgico per gli scambi mercantili lungo la Via Appia.

Gli invasori non furono usurpatori anzi: provvidero nei secoli al benessere complessivo di Benevento, con la costruzione di numerosi monumenti ancora esistenti, come l’Arco Traiano, il Teatro Romano, le antiche Terme e persino un’importante scuola di gladiatori. Alla caduta dell’Impero d’Occidente seguì la fase di dominio dei Longobardi, stirpe di guerrieri provenienti dalla Pannonia. Capitali della “Longobardia Minor” divennero Benevento e Spoleto.

Dal loro buon governo vennero edificate la Chiesa di Santa Sofia, patrimonio Unesco e le cinta murarie aperte da 9 porte ancora in parte visibili. Il 1077 d.C. segna il passo con l’ultimo re Longobardo, prima che Benevento fosse amministrata dal papato per il tramite di Rettori Pontifici.

La Rocca dei Rettori e l’astio crescente della popolazione per il nuovo potere, causarono un lento declino durato fino al 1860, con la deposizione di Edoardo Agnelli. Da quell’istante di libertà ci fu il ritorno dell’attenzione sulla cittadina e le sue leggende, come quella delle Streghe, le cosiddette “Janare”, seguaci di Diana nei culti pagani, o della dea Iside per l’abilità nelle pratiche di magia occulta, che volavano con la scopa e praticavano il rito del Sabba ai piedi dei nocelleti.

Le janare nascevano durante la vigilia di Natale. Tra le loro abitudini avrebbero avuto quella di fare di notte le treccine alla criniera dei cavalli, lasciando dei nodi come una sorta di incantesimi capaci di legare certe linee di forza sottili.

Furono ampiamente perseguitate e fino al secondo dopoguerra il termine stesso comprendeva un’accezione negativa rivolta alle donne non osservanti delle rigide regole sociali dell’epoca. Nell’archivio arcivescovile erano conservati circa 200 verbali di processi per stregoneria, in buona parte distrutti nel 1860 per evitare di conservare documenti che potessero infiammare ulteriormente le tendenze anticlericali che accompagnarono l’epoca dell’unificazione italiana. Un’altra parte è andata persa a causa dei bombardamenti che hanno quasi distrutto la città.

La Rocca dei Rettori è l’attuale sede della Provincia. Fu completata tra il 1320 e il 1340 d.C. dai Rettori che prima vivevano nel palazzo del duca longobardo Arechi II.

La costruzione della Chiesa di Santa Sofia venne invece completata nel 760, anno in cui furono accolte le reliquie dei XII Fratelli Martiri. Circa 23 metri e mezzo di lunghezza, fungeva inizialmente da cappella privata palatina o più probabilmente, per la redenzione di Arechi II e a vantaggio della salvezza del suo popolo e della sua patria. Evidente l’intento devozionale e lo scopo dichiaratamente politico e terreno a cui il duca si richiama: sin dalla fondazione, la chiesa venne concepita quale santuario non solo del principe, ma anche e soprattutto dell’intero organismo sociale e territoriale posto sotto il dominio del principe.

Il Complesso Monumentale di Santa Sofia fu poi ampliato di un convento ed un campanile, ricostruito ex novo distante dalla Chiesa dopo il terremoto distruttivo del 1688, nell’ambito delle mura del monastero benedettino. Presenti anche le reliquie traslate di San Mercurio e San Bartolomeo martire. Le colonne di granito grigio provenivano dall’Egitto e lo splendido chiostro interno annovera 47 colonne con 47 capitelli differenti per stile e composizione.

L’Hortus Conclusus di proprietà dell’ex Convento di San Domenico comprende le opere di Mimmo (Domenico) Palladino, artista appartenente alla corrente della transavanguardia nata con Achille Bonito Oliva. Un piccolo giardino incantato dove trovare la pace tanto desiderata e il silenzio della natura circostante.

Da lì il nostro percorso conduce verso il Triggio (o trivium), incontro di tre strade, quartiere medievale costruito sui resti di un precedente teatro romano. Qui alberga da sempre “A’ Zucculara”, spirito del teatro romano, l’antica dea Ecate protettrice degli incroci e della magia, che camminava con gli zoccoli per avvisare tutti della sua presenza.

Passeggiando tra i vicoli si giunge davanti al Teatro Romano edificato sotto imperatore Adriano, figlio adottivo di Traiano da ben 7500 spettatori, che vedeva l’esibizione di vari giochi e sfide, comprese le naumachie, vere e proprie battaglie navali. Perfetta l’acustica anche per opere e recite classiche di drammaturgia.

La nostra visita a Benevento termina con l’Arco Traiano, da dove la via Appia conduceva a Brindisi. Traiano era un imperatore di origine germanica e, sotto impero longobardo, l’Arco diverrà una delle Porte Auree di ingresso al centro cittadino.

L’appetito deve essere soddisfatto, però, non solo dalla cultura e dalla storia, ma dal buon cibo e vino. All’Agriturismo Le Peonie, che offre anche camere confortevoli in stile shabby chic, ce ne parla la titolare Annamaria Colanera seguita poi dalle parole del Presidente del Sannio Consorzio Tutela Vini Libero Rillo. Un territorio unico, intriso di rara magia e bellezza.

Morellino del Cuore 2024

Lo scorso 19 giugno si è svolta la seconda edizione di “Morellino del Cuore” serata dedicata al Morellino di Scansano. L’evento si è svolto  a Firenze presso il Ristorante Olio, una degustazione di 10 vini selezionati da una commissione di Sommelier ed importanti Ristoranti del Belpaese.

Nella prima edizione la commissione era composta da giornalisti, esperti e collaboratori di importanti guide e riviste enogastronomiche.  La degustazione  è stata organizzata dai giornalisti Roberta Perna e Antonio Stelli in collaborazione con il Consorzio Tutela Morellino di Scansano.

Prima di passare all’analisi sensoriale dei vini in degustazione, lasciamo il tempo ad alcune nozioni su questo incantevole areale.

Il Morellino di Scansano è una perla enologica localizzata tra l’antico vulcano Monte Amiata e la meravigliosa costa Tirrenica in provincia di Grosseto. L’etimologia del termine sembrerebbe derivare dai cavalli neri detti morelli che trainavano le carrozze. La vicinanza al mare e al Monte Amiata danno origine a  un microclima unico e propizio per l’allevamento della vite; tuttavia, i suoli e le altimetrie variano nei comuni  ricadenti nella denominazione quali: Scansano,  Manciano, Magliano in Toscana, Semproniano, Roccalbegna, Campagnatico e Grosseto. Terreni, argillosi,  sabbiosi con presenza di galestro ed alberese.

Il Morellino di Scansano per disciplinare deve essere prodotto con uve Sangiovese almeno per l’85%, possono concorrere al completamento nella misura massima del 15%: Alicante, Ciliegiolo, Colorino, Malvasia Nera, Canaiolo, Montepulciano, Merlot, Syrah, Cabernet Franc e Cabernet Sauvignon. Tuttavia, prevalentemente i produttori prediligono lavorare  il Sangiovese in purezza. Nelle annate  migliori viene prodotta anche la tipologia Riserva. 

La Doc è nata nel 1978 e l’ambito riconoscimento a Docg è giunto nel 2007. A fine anni ottanta è  stato un vino molto apprezzato e presente nelle carte vini di molti ristoranti sia in Italia sia all’estero. Un breve periodo di pausa ed è  di nuovo tornato meritatamente nella sfera dei grandi vini rossi italiani.

I vini in degustazione

“Annata”
Cantina Vignaioli Morellino di Scansano Roggiano Docg 2023 – Sangiovese 95% e Ciliegiolo 5% – Piacevoli note di violetta,  visciola ed erbe aromatiche. Fresco, saporito, dinamico con buona facilità di beva.

San Felo Morellino di Scansano Docg 2023 – Sangiovese 85%, Cabernet Sauvignon e Merlot 15% – Note di rosa, ciclamino, ciliegia e fragola, dal sorso setoso, lungo e armonioso.

Terenzi Morellino di Scansano Docg 2022 – Sangiovese 100% – Emana note di frutti di bosco, scorza d’arancia  e spezie dolci,  avvolgente, deciso, preciso è composito.

“Intermedio”
Boschetto di Montiano PerBene Morellino di Scansano Docg 2022 – Sangiovese 90%, Cabernet Franc e Merlot 10% – Sprigiona sentori di lampone, mirtillo, tabacco e cuoio. Gusto pieno e soddisfacente.

Morisfarms Morellino di Scansano Docg 2022 – Sangiovese 90% , Cabernet Sauvignon e Merlot 10% – Ciliegia, prugna, pepe e nuances terragne. Al palato è succoso, setoso e armonioso.

Roccapesta Morellino di Scansano Docg 2022 – Sangiovese con un saldo di Ciliegiolo. Libera sentori di rosa, mora, melagrana e bacche di ginepro; sorso vibrante, avvolgente e armonico.

Podere 414 Morellino di Scansano Docg 2021 – Sangiovese 85%, Ciliegiolo, Colorino, Alicante, Syrah 15% –  Rivela note di cassis, amarena,  liquirizia, pepe e nuances mentolate. Setoso, avvolgente e leggiadro.

“Riserva”
Alberto Motta Morellino di Scansano Docg Riserva 2021 – Sangiovese 100% – Note di mirtillo,  mora, amarena e spezie orientali, dal sorso accattivante e duraturo, con tannini ben integrati.

Val delle Rose Poggio al Leone Morellino di Scansano Docg Riserva 2021 – Rimanda sentori di prugna, marasca, tabacco su scie balsamiche. Trama tannica nobile, saporita e coerente.

Santa Lucia Tore del Moro Morellino di Scansano Docg Riserva 2020 – Sangiovese 100% – Emana note di frutti di bosco, sottobosco e nuance boisée. Rotondo, appagante e persistente.

Dopo la degustazione delle 10 etichette è seguita una gustosa cena, con piatti ben preparati e ben presentati in abbinamento ai campioni degustati.

Rauscedo: alle radici del Vino

Avrete spesso sentito parlare di quanto lavoro ci sia dietro ad un calice di vino: anni di grande sacrificio, di passione e dedizione da parte di produttori, enologi e tutte quelle persone che rendono possibili le nostre degustazioni: dalla cura dei vigneti, alla trasformazione dell’uva in vino, dall’imbottigliamento alla distribuzione. Oggi affronteremo un viaggio che inizia ancor prima del vigneto, nei primi 12 mesi di vita della vite (scusate il gioco di parole), quando la stessa prende il nome di “barbatella”.

La visita al VCR Research Center – Vivai Rauscedo si è rivelata istruttiva e al tempo stesso suggestiva: un percorso iniziato con la visione di un documentario sulla storia di Rauscedo e delle barbatelle, la passeggiata nei vivai, la degustazione e la visita alla cantina storica.

Un po’ di storia

I primi documenti storici sulla storia di Rauscedo, piccola frazione del comune di San Giorgio della Richinvelda, in Friuli-Venezia Giulia, risalgono al 1204, l’etimologia del nome “Rauscedo” deriva da “rausea” che nel basso latino significa “canna” o “canneto”. In tale ambiente estremamente dinamico e complesso, per via dei fiumi che lo percorrono, nella prima decade del Novecento è fiorita la produzione delle barbatelle, un’attività che ha consegnato Rauscedo alla storia mondiale.

Nel XIX un insetto proveniente dall’America sconvolse la vite: il parassita della fillossera, un afide che si nutre di linfa e attacca le radici della vite. Svolge il suo intero ciclo di vita a contatto con la pianta: dalle foglie, dove depone le uova, alle radici dove inizia a creare danni. Un vero e proprio flagello di natura che portò alla distruzione di interi vigneti in tutta Europa.

Correva l’anno 1880 quando due ricercatori Charles Valentine Riley e Jules Émile Planchon capirono come l’unica strada percorribile fosse cambiare l’innesto. Avevano notato la resistenza dell’apparato radicale di alcune varietà di vite americana, da innestare con le varietà di vite europea, aggirando il parassita. Inizialmente l’innesto veniva fatto su un ceppo di vite americana già presente sul terreno.

Bisogna attendere qualche anno ancora, nel 1917, quando un caporale maggiore dell’esercito sabaudo, sopravvissuto alla disfatta di Caporetto, nel tornare a casa, ricevette ospitalità da Andrea Rauscedo a cui insegnò la tecnica dell’innesto al tavolo. Non fu più necessario unire la gemma europea su un ceppo americano già sul terreno, era sufficiente avere un tralcio di vite americana e una gemma, unirli in modo che i legni attecchissero e solo dopo fare in modo che la nuova piante sviluppasse radici e foglie. Una tecnica questa che cambiò radicalmente l’approccio dei rauscedesi che oggi arrivano a produrre il 75% delle barbatelle italiane e più di ¼ di quelle mondiali.

Il processo di produzione delle barbatelle

Verso la fine di dicembre e gli inizi di febbraio avviene la raccolta dei tralci di vite europea e di quella americana; il legno americano viene ripulito e tagliato ad una lunghezza di 40/50 cm, etichettato e conservato in frigo. Stessa sorte per le gemme di vite europea che però vengono tagliate ad una lunghezza di 5/6 cm. Agli inizi di febbraio si avvia la fase dell’innesto al tavolo: la marza, gemma europea, viene innestata sul piede americano, il porta innesto.

L’incisione può avere diverse forme, la più comune è il taglio ad omega. L’innesto passa quindi alla paraffinatura che protegge e rinforza la zona di contatto dei due legni. Da questa unione nascerà la nuova pianta che, sistemata in una cassa di legno con segatura umida, creerà il callo di cicatrizzazione tra la marza e il porta innesto. 

A metà aprile si controlla la cicatrizzazione e si ripuliscono le barbatelle che vengono sottoposte ad una seconda paraffinatura di protezione coprirà metà pianta e dopo 10/15 giorni si procederà con la messa a dimora della barbatella nel vivaio. Questa operazione è totalmente manuale: inserite una ad una ad una distanza che varia dagli 8 agli 11 cm garantiscono lo sviluppo dell’apparato fogliale e di quello radicale. In estate seguono controlli, irrigazione, pulitura dei polloni prodotti dal porta innesto.

A settembre la maturazione della pianta è oramai vicina e ad ottobre inizia l’espianto; le barbatelle saranno conservate in ambienti chiusi e umidi fino a quando avverrà l’ultima paraffinatura di protezione per essere poi etichettate e conservato in locali refrigerati in attesa di essere vendute.

Da più di un secolo la produzione di barbatelle di vite accomuna i cittadini di Rauscedo, paese ai piedi delle Alpi Carniche, un’avventura diventata ormai leggenda. Oggi oltre 200 aziende e tante cooperative, come quella dei Vivai Cooperativi Rauscedo. Costituita nel 1930, vanta attualmente duemila dipendenti, 210 soci-produttori, oltre 80 milioni di barbatelle innestate all’anno e una presenza commerciale capillarmente distribuita in 35 Paesi nel mondo. Una realtà che ha saputo trasformare una terra povera nel primo distretto al mondo per la produzione di barbatelle.

Nel 1965 la creazione del primo centro sperimentale della Cooperativa. Da qui sono partite le prime selezioni clonali e le sperimentazioni delle varietà resistenti. La visita al VCR Research Center, ampliato e rinnovato nel 2019, si è svolta percorrendo le sale adibite ai laboratori, la cantina di microvinificazione, un vero e proprio gioiello unico nel suo genere dove vengono effettuate 900 microvinificazioni all’anno, le celle climatizzate per l’imbottigliamento e la sala per le degustazioni dove abbiamo assaggiato tre anteprime di varietà resistenti: il Sauvignon Kretos con una linea aromatica di buona intensità e un buon potenziale di invecchiamento; il Sauvignon Rytos dalla bella mineralità e sentori di frutta tropicale; il Pinot Iskra spumantizzato con notevole freschezza e persistenza.

La visita è proseguita nella cantina storia Rauscedo, nata nel 1951, una cooperativa che unisce persone con ideali di condivisione e aggregazione. 1900 ettari di superficie vitata, la più importante del Friuli, il 92% di uve è a bacca bianca. Gli spazi ampi ospitano le cisterne e i sistemi all’avanguardia con cui si vinifica.

Abbiamo degustato anche il Metodo Classico Brut Villamanin, Pinot Nero e Chardonnay, oltre 32 mesi di affinamento sui lieviti, dai sentori fruttati di ananas e mela, ottima mineralità e lunghezza; il Traminer Aromatico, dai ricordi floreali di rosa e di frutta a polpa gialla, elegante e di buon corpo; lo Chardonnay Rauscedo secco e armonico, elegante e intenso.

I vini di Rauscedo esprimono l’essenza di questo territorio con terreni di origine alluvionale, prevalentemente sassosi e ghiaiosi dove la vite ha trovato il suo habitat ideale. La visita è terminata con una pausa pranzo da Antica Osteria Il Favri per assaggiare le prelibatezze culinarie di questi luoghi. Un posto autentico con una cucina casalinga da 10 e lode.

Un grazie sincero a Lorenzo Tosi, Michele Leon e Mauro Genovese, senza dimenticare le amiche divine e di vino Claudia e Marta.

Prosit!

I Borboni si confermano tra le 50 migliori pizzerie d’Italia secondo la guida 50 TOP PIZZA

Comunicato Stampa

Anche per il 2024, I Borboni si riconfermano tra le 50 migliori pizzerie d’Italia secondo la prestigiosa guida 50 Top Pizza. Ideata da Barbara Guerra, Albert Sapere e il giornalista Luciano Pignataro, questa guida è la più influente nel mondo della pizza, selezionando le eccellenze in Italia e nel mondo con oltre 100.000 pizzerie esaminate.

L’annuncio, atteso con trepidazione, è stato dato al Teatro Manzoni di Milano, durante un evento scintillante presentato da Federico Quaranta, volto noto della Rai: I Borboni classificati al 40° posto su oltre 100.000 pizzerie in Italia e con l’accesso alla finale Mondiale di Settembre che decreterà le 100 migliori pizzerie al Mondo.

“Riconfermare questi risultati ed essere nell’élite dei pizzaioli, accanto a maestri che hanno fatto e continuano a fare la storia di questo antico e sempre in evoluzione alimento, è un’emozione profonda. Questa sensazione amplifica l’energia che dedichiamo al nostro lavoro e rafforza la passione che ci mettiamo ogni giorno e che ci dà la forza di fare sempre meglio,” dichiarano con orgoglio Valerio Iessi, Daniele Ferrara e Adriano Romano.

E del resto, buon sangue “borbone” non mente: basti ricordare l’avanguardia di re Ferdinando di Borbone, a cui si deve il merito della costruzione del primo forno a legna di Palazzo Reale a Capodimonte – lo stesso in cui nel 1889 venne cotta per la prima volta la pizza “alla Margherita”, dedicata alla regina Margherita di Savoia e poi diventata il piatto più celebre al mondo.

Dall’anno della sua apertura nel 2018, Valerio Iessi e Daniele Ferrara hanno portato avanti con dedizione e innovazione il percorso tracciato secoli prima da re Ferdinando. Impegnandosi a salvaguardare la nobile arte della pizza napoletana e a farla evolvere, hanno trasformato I Borboni in un faro di eccellenza.

Fin dalla sua nascita, I Borboni ha puntato su una sperimentazione costante, unita alla ricerca dell’eccellenza nella materia prima, studio attento degli impasti e alla valorizzazione degli ingredienti Made in Sud. Completano l’offerta una carta delle birre artigianali e una lista vini più volte premiata per la qualità e l’attenzione al territorio Campano.

Questo progetto visionario ha subito raccolto ampi consensi da parte del pubblico buongustaio e dei critici gastronomici, attirando l’attenzione degli esperti e guadagnandosi menzioni speciali in numerose guide di settore. I Borboni non sono solo una pizzeria, ma un simbolo di tradizione, innovazione e passione. Ogni pizza è un viaggio sensoriale che celebra la storia e la maestria della cucina napoletana, portando avanti con orgoglio l’eredità di re Ferdinando e scrivendo nuove pagine nella storia della pizza.

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