Ci voleva davvero un miracolo per vedere tanti produttori presenti ad una serata dedicata interamente al Fiano di Avellino. Ci voleva Marco Ricciardi, abile comunicatore e relatore tra le fila dell’Associazione Italiana Sommelier, figlio d’arte di Vincenzo “Enzo” Ricciardi, che ha cambiato il passo alla cultura enologica del pubblico campano, tra le sale della sua storica Enoteca La Botte a Caserta.
Una masterclass forse dilungatasi oltre i tempi comuni, proprio per dar spazio ai convenuti ed ai loro racconti. Un areale, quello della Denominazione di Origine Controllata e Garantita Fiano di Avellino, immutato sulle carte toponomastiche, ancora poco conosciuto, che sa offrire uno dei vini bianchi più interessanti al mondo.
Si sa che il campanilismo regna sovrano in Italia; i vitivinicoltori irpini viaggiano uniti a macchia di leopardo. Si conoscono benissimo, tra di essi intervengono anche sani rapporti economici, eppure veder riuniti alcuni tra i big del panorama a parlare dei loro prodotti è raro quanto possedere un Gronchi Rosa (per chi ama la filatelia).
Moderatore della serata, organizzata in collaborazione con l‘ufficio stampa IconicA – Iconic Agency, è stato Pietro Iadicicco, delegato A.I.S. Caserta, promotore dell’evento. Unici assenti i vertici del Consorzio Tutela dei Vini d’Irpinia, assenza “di peso” che abbiamo notato e che avrebbe arricchito ulteriormente il panorama in un momento di glorificazione per l’intero comparto.
Uno scorrere tra le 3 macro aree – ovest, centro, est – poste a mo’ di ferro di cavallo attorno alla città di Avellino e individuate dai tecnici in un più vasto territorio ricompreso tra le pendici dei Monti Picentini, del Partenio e del Vallo di Lauro. Circa 550 ettari iscritti a Fiano su 2.180 complessivi ed una produzione annua di 3 milioni di bottiglie certificate. Terreni diversificati, uniti dal filo rosso di polveri piroclastiche, argille sciolte e calcare dalle proporzioni differenti in funzione delle esposizioni e delle pendenze. A farla da padrone in tale contesto sono ancora le abilità dell’uomo, che riesce a plasmare l’ottima materia prima proveniente in cantina in base al proprio stile. Discorso a parte per Lapio, il comune maggiormente vocato dal timbro indelebile nel riconoscimento al calice.
La degustazione
Guido Marsella 2014: da Summonte, guardando dritto al Partenio a 600 metri d’altezza. Uno dei campioni di razza, il pioniere dell’evoluzione in bottiglia prima dell’immissione in commercio del prodotto finale. Nota finale lievemente di mandorla, ma l’inizio è tutto un brivido di frutta gialla, spezie dolci e sensazioni iodate. Salatissimo.
Ciro Picariello “Ciro 906” 2014: sempre a Summonte. Rapido nel finale, con scarsa pressione nel centro bocca, dimostra comunque eleganza e freschezza sottile che rimanda al cedro e al fiore d’acacia.
Vadiaperti “Aipierti” 2014: Raffaele Troisi, erede di Antonio e di vigne tra le più storiche in Irpinia ha realizzato un vino straordinario, ben fatto dalle sfumature agrumate avvolgenti e succulenti.
Villa Diamante “Congregazione – Clos d’Haut” – 2023: ancora molto tecnico e giovane, su note di albicocca matura, balsamicità e vaniglia. Serve riposo in vetro e un nuovo assaggio magari tra un anno.
Cantina del Barone “Particella 928” 2021: il più curioso con le sue essenze maltate e citrine unite a sbuffi officinali. Termina su pesca tabacchera.
I Favati “Pietramara etichetta bianca” 2018: il migliore della batteria. Visione modernista molto efficace quella proposta dall’enologo Vincenzo Mercurio. Fine e lungo su miele di millefiori, albicocca e cedro candito. Salmastro.
Feudi di San Gregorio “Feudi Studi” 2020: suoli marnoso-argillosi. Bella prospettiva, quasi didascalico nel suo racconto. Attacco tropicale da mango e maracujá, con pepe bianco ed erbe mediterranee persistenti.
Rocca del Principe “Neviera di sopra” 2019: altro capolavoro, dal sorso espressivo, di carattere e tanta materia. Parte su arancia bionda e finisce su iodio di mare. In mezzo infinita qualità.
Famiglia Pagano 1968 “Le Pietre” 2022: completo, dinamico, identitario. Forse ammicca troppo ad un gusto “per tutte le stagioni”, mancando di spinta in avanti sul finale di bocca. Resta comunque dotato di grande bevibilità.