Terre di Toscana 2024

L’appuntamento giunto alla XVI edizione che ha registrato un enorme successo di pubblico e stampa, si conferma la vetrina delle eccellenze vitivinicole della regione.

“Stessa spiaggia, stesso mare”: l’appuntamento all’Hotel Una di Lido di Camaiore per l’evento Terre di Toscana è diventato imperdibile, per la stampa, gli operatori e i winelovers. Nei giorni di domenica 24 e lunedì 25 marzo il 2400 visitatori hanno potuto incontrare 140 aziende di tutti i distretti enologici della Toscana, assaggiare ben 700 etichette, comprese 80 di vecchie annate.

L’evento, promosso da L’Acquabona, nata nel 1999, per comunicare esperienze che avessero a che fare con il vino e il suo mondo, ha visto la prima edizione nel 2007: il successo ottenuto e che continua ottenere, la rende una manifestazione molto interessante e a misura d’uomo (e di vignaiolo).

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In degustazione vini prestigiosi, orgoglio italiano nel mondo, di blasonate denominazioni e di altre sempre più emergenti e sotto i riflettori della critica enologica. Tra queste, la mia selezione di realtà che mi hanno piacevolmente colpito, per le novità presentate o per le annate vecchie, che non ti aspettavi così emozionanti.

Iniziamo proprio da Ivan Giuliani di Terenzuola, azienda a cavallo di Liguria e Toscana, che ha portato Fosso di Corsano 2017: Vermentino in purezza, solo acciaio che esprime bene le potenzialità in evoluzione di questo vitigno. La frutta si apprezza con note tropicali, la scorza degli agrumi volge al candito, poi miele di acacia e il timbro di idrocarburo che svetta, come una bandiera, regalando al vino una complessità elegante e invidiabile. In bocca, seppur ancora vibrante per l’acidità, scorre dando la sensazione di aver raggiunto equilibrio e maturità, ma con ancora molte cose da raccontare.  Lunga persistenza e finale marino, con sbuffi iodati. La prova che i vini bianchi non sempre devono essere consumati in annata, tantomeno il vermentino (e il pigato) di Liguria.

L’azienda agricola nacque nel 1993: Ivan ereditò dei terreni dal nonno e si trasferì da Stresa a Fosdinovo. Lavora i 23 ettari, svolgendo le operazioni in vigna manualmente, seguendo i principi del biologico, in un’ottica di sostenibilità, volta al rispetto delle uve autoctone tra i quali lo scontroso vermentino nero. Altro vino che rappresenta un forte legame con la terra e la tradizione è il Permano Bianco, da un blend composto da vermentino e poi trebbiano, malvasia, albarola, albana, durella e verdella. Macerazione sulle bucce di quasi 20 giorni, a temperatura controllata, fermenta e affina in acciaio. Viene prodotto in soli 2600 esemplari. Un tripudio di frutta gialla, erbe aromatiche e note balsamiche. In bocca è preciso e affilato e si congeda con cenni di pietra focaia.

Antonio Camillo, dopo aver collaborato con realtà importanti della Maremma, ha creato nel 2006 la propria cantina a Marciano ed è sicuramente un nome di riferimento per il Ciliegiolo, che sa esprimere in vini che non si dimenticano facilmente, tra cui il Vigna Vallerana Alta. Fiero sostenitore di un approccio il più possibile naturale, senza utilizzo di chimica, sia in vigna che in cantina, ha portato in degustazione a Terre di Toscana una novità, il Mediterraneo 2023. L’etichetta è di un turchese che fa immaginare immediatamente l’estate, il sole che si riflette sul mare, l’abbraccio delle culture dei popoli che si affacciamo su questa via secolare di traffici e comunicazioni.

Il colore rubino luminoso del vino, invita a sentirne i profumi e d’improvviso sei catapultato su di un sentiero scosceso, che guarda il mare, circondato dalla macchia mediterranea. Un tripudio in bocca di sale, frutti di rovo e  delicate carezze balsamiche. Colpo di fulmine.  Nasce da un blend uve da vigne giovani di Ciliegiolo 50%, Alicante 35% e Carignano 15%. Un altro vino davvero interessante è Granè 2023, un Carignano in purezza, che si esprime con note di ciliegia e viola, a cui seguono erbe officinali, timo, cuoio. Tannino levigato, perfettamente integrato, esso mantiene una garbata piacevolezza e bevibilità. Sempre a Marciano, Tenuta di Montauto è stata apprezzata in passato per Silio, un ciliegiolo succoso ed espressivo. L’azienda è nata nel 2001, con vigne di proprietà impiantate dal nonno Enos di Riccardo Lepri. Di grande impatto è sicuramente il Sauvignon Blanc, che viene celebrato nelle etichette Enos I e Gessaia. A catturare l’attenzione i due Pinot Nero. Il primo raccoglie il frutto di viti di circa 15 anni, gestite in regime biologico, che crescono su terreni argillosi ricchi di quarzi. La vinificazione procede, dove aver messo le uve vendemmiate una notte in cella frigorifera, in contenitori di legno. L’affinamento prevede  l’uso di barrique, nuove per circa 1/3 della dotazione. Rosso rubino, simile al velluto, esprime durante le ripetute olfazioni, i descrittori tipici del vitigno, con aggiunta di una gradevole speziatura. Al palato si apprezza la cifra elegante del tannino e la persistenza, con un finale su note fruttate.

Lo stupore è stato generato dall’assaggio di Poggio al Crine, un Pinot Nero ottenuto da vigne di circa 30 anni. Dopo la raccolta manuale, le uve riposano in cella frigo per una notte e dopo la fermentazione, il vino resta 10 mesi in barrique a cui seguono 3 anni di bottiglia. Mettere il calice al naso fa venire alla mente immediatamente la Borgogna, i sentori sono eleganti, puliti precisi e vivaci. In bocca il vino è teso, il tannino serico e nel finale si apprezza una rinfrescante sapidità. Chapeau! Solo 600 bottiglie.

Tenute Piccolo Brunelli: una nuova concezione del Sangiovese di Romagna

Ai lembi estremi della Romagna, quando il confine dell’Appennino Tosco-Romagnolo è già all’orizzonte, esiste un luogo dove il Sangiovese risulta di gran carattere e dalle interessanti potenzialità evolutive.

A Strada San Zeno gli ettari di vigna si contano forse sulla punta delle dita di due mani, in un territorio ricco di suoli marnoso-arenacei tra i più antichi d’Italia, ben oltre i 10 milioni di anni. Torbiditi stratificate frutto dell’emersione delle terre dal mare preistorico, unite a limo ed argille dal dilavamento dei terreni nel corso dei millenni. Qui la varietà principe a bacca rossa ha sempre richiesto maggior tempo per arrivare alle corrette maturazioni polifenoliche.

Tenute Piccolo Brunelli esiste da sempre, un’azienda che fino al 2011 contava oltre 300 ettari dedicati ad agricoltura ed allevamento. Dal 2013 la svolta con il giovane erede Pietro Piccolo Brunelli e la scelta di produrre unicamente vino dando in fitto quasi 284 ettari di campi. Cinque i cloni di Sangiovese piantati, compresi i diffusi T19 e R24 molto espressivi. La cura dell’enologo Vincenzo Tommasi ha fatto la differenza, imponendo la vinificazione praticamente in purezza del varietale e l’utilizzo dei contenitori di cemento, che stabilizzano il vino senza cedere eccessive sensazioni boisé. Nulla ovviamente contro il legno, che dona comunque struttura all’intera trama, adoperato però con sapienza e mani delicate per non coprire l’eleganza del frutto.

La degustazione

“Pietro 1904” Sangiovese di Predappio 2021 – dedicato al nonno, prima era etichettato come Sangiovese Superiore e adesso ha conseguito l’ambita indicazione della Sottozona Predappio. Note polpose di visciola matura, particolarmente denso, con richiami di viola matura e spezie scure. Tannino completo, saporito e dalle nuance di affumicatura davvero stuzzicanti.

“Cesco 1938” Sangiovese di Predappio 2021 – il padre di Pietro e l’interpretazione pura di Predappio. Già dal colore si comprende che la materia ricca di cui è composto. Dalla vigna di Fabbri. Arancia sanguinella, tensione salmastra, succoso ed austero. Pulisce perfettamente il palato su sfumature di ciliegia alcolica.

“Dante 1872” Sangiovese Riserva 2020 – evoluto, declinato per intero su pepe in grani e petali di rosa essiccata. Amaricanze e riverberi di chinotto in chiusura con tocchi di rabarbaro. Annata non facile tra gelate primaverili e picchi di calore estivo. Il vino, si sa, è lo specchio delle stagioni.

Paestum Wine Fest 2024: quest’anno non ce n’è per nessuno

Capita poche volte di trovarci di fronte ad un evento senza pecche o sbavature, dove l’interazione tra produttori, operatori del settore, stampa e appassionati è stata semplicemente perfetta.

Ad evento sano e competitivo corrisponde un’altrettanta affluenza di visitatori, attratti non soltanto dalla conoscenza diretta con i produttori presenti, ma anche dalle numerose degustazioni guidate e dalla punta di spicco dell’enologia moderna come Riccardo Cotarella, ammirato dai vini caldi del Sud Italia.

20Italie era presente con la troupe al completo al NEXT – Nuova Esposizione Ex Tabacchificio SAIM, borgo di Cafasso – Capaccio (SA). Nei prossimi giorni amplieremo la vasta playlist sul canale YouTube con delle interviste che lasceranno l’acquolina in bocca agli ascoltatori, esattamente come i vini presenti alla manifestazione. Non basta: ci sarà un piccolo approfondimento tematico con una giovane azienda cilentana di spirits ed un gin fortemente identitario a base di fico.

Spazio gastronomico all’aperto complice le giornate primaverili all’insegna del bel tempo, con materie prime a chilometro zero. Start il 23 marzo con il consueto saluto delle Autorità e di Angelo Zarra, patron della manifestazione. Eventi di tale portata non possono che far bene all’intero comparto, ultimamente in fermento per alcune polemiche nate a seguito di inchieste giornalistiche.

Angelo Zarra

Osserviamo quanto accade con spirito critico, ma consci del sacrificio di tanti viticoltori che cercano di quadrare i conti nel rispetto della legalità e della qualità finale. Bisogna tenerne conto quando si toccano temi delicati che potrebbero nuocere ad un settore fiore all’occhiello del Made in Italy ed il Paestum Wine Fest è il luogo giusto per discuterne con professionalità e competenza.

Vinòforum 2024: al Circo Massimo di Roma la nuova edizione

A Roma, il palazzo situato al numero 87 di via dei Cerchi, è avvolto da una suggestiva atmosfera di mistero e incanto. Nelle immediate vicinanze di quello che si ritiene essere stato il sito del Lupercale, dove la leggenda narra che Romolo e Remo, gli eroi fondatori di Roma, furono allattati dalla Lupa, rende questa dimora un luogo intriso delle radici di un popolo che ha plasmato in modo indelebile la storia della nostra civiltà. È qui che il 29 gennaio si è tenuto l’incontro inaugurale di Vinòforum 2024, un’edizione speciale dell’evento enologico più importante della Capitale.

Vinòforum Class ha rappresentato l’antipasto perfetto per gli appassionati del vino, con l’annuncio clamoroso della nuova sede della 21ª edizione: il prestigioso Circo Massimo. Dal 17 al 23 giugno, questo monumento storico sarà il palcoscenico di uno degli eventi più attesi dell’anno.

Al saluto di Emiliano De Venuti, organizzatore di Vinòforum, è seguito quello di Alessandro Scorsone, sommelier e amico fedele della manifestazione fin dalle sue origini. Moderatore Stefano Carboni dell’Agenzia MG Logos.

<<La scelta del Circo Massimo come nuova sede di Vinòforum è il risultato di una collaborazione tra l’evento e le istituzioni locali>> ha dichiarato De Venuti <<Con oltre 40.000 imprese legate al settore enogastronomico solo a Roma, il Lazio si conferma come un hub strategico per il Made in Italy. Vinòforum non solo promuoverà le eccellenze del territorio, ma contribuirà anche a valorizzare l’offerta turistica della capitale>>.

Durante la conferenza stampa hanno preso la parola illustri rappresentanti delle Istituzioni. Massimiliano Raffa, Commissario Straordinario di A.R.S.I.A.L. – Agenzia Regionale per lo Sviluppo e l’Innovazione dell’Agricoltura del Lazio – ha annunciato il supporto dell’agenzia alle aziende vitivinicole del territorio.

Rodolfo Maralli, Presidente di Fondazione Banfi e Presidente di Banfi Srl, ha evidenziato il ruolo cruciale delle manifestazioni enogastronomiche nella valorizzazione delle produzioni di qualità, lodando Vinòforum per la capacità di adattarsi alle mutevoli esigenze del pubblico nel corso degli anni. In ultimo, Ernesto di Renzo, docente di Antropologia del Gusto all’Università di Roma Tor Vergata, ha concluso l’evento con una riflessione sull’importanza dei vigneti urbani di Roma, simbolo del legame millenario tra la Capitale e il vino.

La degustazione dei Vini dei Masi Chiusi al Farm Food Festival a Merano: esperienza guidata da Helmuth Köcher

La seconda edizione del Farm Food Festival ha riscosso un enorme successo di pubblico e apprezzamento presso il Kurhaus di Merano, sabato 9 marzo. Un evento che ha visto la partecipazione dei prodotti dei soci del Gallo Rosso, associazione dedicata alla promozione dell’eccellenza delle specialità altoatesine.

Il Gallo Rosso annovera ben 86 Masi “chiusi”, un termine che richiama alla mente la tradizione locale. Sin dal 1526, quando l’Alto Adige faceva parte dell’Impero Austro-Ungarico, fu emanato un primo editto che regolamentava i Masi. Maria Teresa D’Austria confermò questa disposizione nel 1770 con un regolamento preciso. Anche se nel 1929 questa legge tirolese fu abolita sotto il regime fascista, la cultura dei Masi Chiusi continuò a essere praticata fino a essere nuovamente riconosciuta nel 1954. In Alto Adige, questa peculiarità conta più di 11.000 Masi chiusi, una caratteristica che non si riscontra nel vicino Trentino.

Le caratteristiche distintive di un Maso chiuso riguardano l’estensione dei terreni, intorno ai 3,5 ettari, la produzione e la lavorazione delle materie prime all’interno della stessa realtà, nonché la capacità di garantire l’autosufficienza attraverso la produzione stessa. I prodotti assaggiati durante il Farm Food Festival erano di eccellente qualità e rispettavano rigorosi criteri di produzione.

Per quanto riguarda la produzione di vino, un Maso non può essere considerato una vera e propria azienda vinicola; si fa riferimento alla cultura contadina, espressa nel termine “weingut”. Tuttavia, la limitata produzione è di grande interesse e qualità, come dimostrato dagli assaggi proposti dal patron del Merano Wine Festival Helmuth Köcher.

Il contadino non si affida a un enologo, a un direttore commerciale o a un esperto di marketing, ma produce secondo le competenze acquisite e tramandate nel tempo, che riflettono la cultura altoatesina e la ricerca di soluzioni per adattarsi al cambiamento climatico.

Durante la degustazione, sono stati proposti 4 vini bianchi e 4 rossi. Il primo vino, prodotto da Griesserhof situato a 750 metri sul livello del mare nel comprensorio di Bressanone, è un Kerner, vitigno nato dall’incrocio tra il Riesling Renano e la Schiava Grossa (conosciuta anche come Trollinger). Con note di pesca bianca e frutta tropicale, coltivato nel vigneto Gall con esposizione sud-est, questo vino si distingue per la sua freschezza e pulizia.

La seconda proposta è un Pinot Bianco di grande eleganza e precisione, proveniente dal Maso Rinnhof nella zona di Termeno, con vigneti a circa 300 metri di altitudine. Note di mela, acidità equilibrata e piacevolezza di beva caratterizzano questo vino.

Segue una terza referenza, il Gewürztraminer dell’azienda Rasslhof, varietà vocata in Alto Adige. Con note di litchi, rosa e spezie, questo vino aromatico si abbina perfettamente a piatti esotici e a base di zafferano.

Particolare attenzione è stata dedicata ai vini da vitigni Piwi, resistenti alle malattie. Il Quessaris, prodotto da Muscaris, è un incrocio tra Solaris e Moscato Giallo dell’azienda Höuslerhof a Varna, in Alta Valle Isarco. Caratterizzato da garbata aromaticità e una nota sapida in chiusura.

La degustazione prosegue con una selezione di vini rossi, a cominciare dalla Schiava Grigia prodotta dal Maso St. Quirinus di Caldaro. Questo vino, che rappresentava un tempo l’identità della regione, mostra una qualità intrinseca con delicati sentori fruttati e un tannino setoso.

Il Blauburgunder prodotto a circa mille metri di altitudine dal Maso Widum Baumann sopra Bolzano, offre espressioni di frutta rossa succosa al naso e una struttura che invita a una piacevole e appagante bevuta.

Tra i vini rossi da vitigni Piwi, il JPK 2016, prodotto da Chambourcin dallo Strickerhof, ne rappresenta l’ultima uscita poiché il figlio del produttore non ha creduto nelle potenzialità di questo vitigno e ha espiantato il vigneto. Peccato.

La degustazione si conclude con il Cabermol di Höuslerhof, dal vitigno Cabernet Cortis nato dall’incrocio tra Cabernet Sauvignon e Solaris, che promette un buon potenziale evolutivo.

Il messaggio trasmesso da Helmuth Köcher riguardo all’utilizzo dei vitigni Piwi, come risposta al cambiamento climatico, sottolinea l’importanza della ricerca e dell’adattamento alle nuove sfide, sia a livello individuale che collettivo, per non rimanere semplici spettatori impotenti di ciò che accade.

È importante mantenere l’attenzione alla produzione dei vini dei contadini dei Masi, per il grande pregio, l’identità e la personalità.

L’Italian Sounding Food miete un’altra vittima illustre: il Pomodorino del Piennolo

Il reportage del collega Gaetano Cataldo ai margini di un fenomeno dilagante, che non risparmia neppure il comparto agricolo del Made in Italy.

Da bravi estimatori delle eccellenze della Campania, abbiamo scoperto che per avere contezza del giro di affari attorno all’Italian Sounding, ergo i prodotti farlocchi che imitano il made in Italy, basta ad esempio andare sui canali social, digitare l’hashtag #piennolo e scoprire basiti un mondo di pomodorini gialli e di ogni altro colore, che non sembra certo corrispondere ai canoni di quelli provenienti del Vesuvio. La vera sorpresa, però, arriva dall’esistenza di produzioni di origine europee, scandinave e statunitense, con improbabili dizioni in etichetta, spacciate per il famoso e squisito oro rosso campano.

Se gli organi di controllo non avessero idea di dove andare a pescare i prodotti taroccati, dovrebbero fare semplicemente amicizia con il web per scoprire l’oscuro business sul Pomodorino del Piennolo dop del Vesuvio. La sua origine, il colore, la tecnica del venire appeso per essere degustato anche a distanza di mesi dalla raccolta, è come svuotare il mare con un secchiello.

Parliamo del famoso Pomodorino Pizzutello tradizionalmente coltivato, come indicato nel Disciplinare di Produzione, nei territori dei comuni di Boscoreale, Boscotrecase, Cercola, Ercolano, Massa Di Somma, Ottaviano, Pollena Trocchia, Portici, Sant’Anastasia, San Giorgio a Cremano, San Giuseppe Vesuviano, San Sebastiano al Vesuvio, Somma Vesuviana, Terzigno, Torre Annunziata, Torre del Greco, Trecase, oltre che parte del territorio del comune di Nola, delimitata perimetralmente dalla strada provinciale congiungente Piazzola di Nola al Rione Trieste, per il tratto che va sotto il nome di “Costantinopoli”, dal “Lagno Rosario”, dal limite del comune di Ottaviano e dal limite del comune di Somma Vesuviana.

Nulla di nuovo per i consumatori dell’area napoletana e di tutta la Campania, che da decenni conoscono ed apprezzano le indiscusse proprietà organolettiche del Pomodorino del Piennolo Dop, per non parlare dei tanti italiani che dimostrano un interesse sempre maggiore per la prelibatissima cultivar di Solanum Lycopersicum, il nome tecnico della varietà appartenente alla famiglia delle Solanacee.

Un momento decisamente delicato in cui la tutela dei produttori virtuosi e dei diritti dei consumatori deve poter essere garantita e blindata. Nel pomeriggio di giovedì 29 febbraio si è tenuta la terza edizione di “Piennolo Forum”, organizzata da Agros-Consulenti in Campo presso il Castello di Santa Caterina a Pollena Trocchia. Tema del convegno, come riportato anche da alcuni quotidiani, “frodi e contraffazioni, sfide e opportunità”. Sulla carta stampata si leggeva anche che “si tratta di tematiche che non saranno trattate solo ed esclusivamente come argomenti di soppressione di comportamenti errati, ma verranno letti in un’ottica propositiva, offrendo una veduta su strategia di marketing e comunicazione che possano far trasmettere i propri virtuosismi a quelle aziende rispettose delle regole”. Per quanto si evinca un tono alquanto buonista, il target dell’evento è la trattazione del drammatico fenomemo delle frodi e contraffazioni, per discutere insieme delle possibili soluzioni al problema e leproposte a vantaggio dei produttori virtuosi.

Com’è andata in effetti?

Dopo i saluti istituzionali durante la moderazione di Gianluca Iovine, CEO di Agros, arrivano gli interventi istituzionali e, a seguire, i premi istituzionali di “Patto per il Piennolo”: un riconoscimento all’impegno verso la protezione del patrimonio agricolo vesuviano. Raffaele De Luca, presidente del Parco Nazionale del Vesuvio, Salvatore Loffreda, di Coldiretti Napoli, Cristina Leardi, presidente del Consorzio di Tutela del Pomodorino del Piennolo del Vesuvio, Ciro Giordano, presidente del Consorzio di Tutela dei Vini del Vesuvio, e Gabriele Melluso di Assoutenti, sono stati tra i primi relatori, piuttosto allineati su un corale “frodi come opportunità e non un problema”.

Interessante l’intervento culturale della professoressa Paola Adamo, docente dell’Università Federico II di Napoli al Dipartimento di Agraria riguardante il progetto “tomato trace 4.0” utile ai fini della tracciabilità del prodotto. Ci si è occupati principalmente di tessitura del terreno, fornendo la georeferenziazione di tutta l’area inclusa nella Denominazione di Origine Protetta e delle aziende più rappresentative, con dati completi su quote altimetriche, versanti e natura dei suoli. La disanima ha potuto evidenziare quanto certi parametri abbiano un effetto maggiore rispetto al varietale, insomma il potere del terroir sulla cultivar, ed affrontare la differenza tra ciò che nel pomodorino del Piennolo è potenzialmente biodisponibile da ciò che è prontamente disponibile: una differenziazione fornita in base al modello multi-elementare, un modello capace di distinguere anche un pomodoro dop da un non dop al 100% o quasi.

Per poter ovviare a ciò la professoressa Adamo ha fatto presente che lo studio comparato è stato condotto fornendo ai produttori la varietà Principe Borghese, unitamente alle piante di Acampora, Cozzolino e Zizza di Vacca, ergo gli ecotipi del pomodorino vesuviano. Un lavoro complesso che ha potuto fornire ai produttori informazioni diversificate per terreni Dop e non Dop, grazie alla raccolta dei suoli per caratterizzazione, periodo, ambiente, clima e persino sulle principali varietà e sugli ecotipi, appunto.

Intervento evidentemente anticipato e benedetto dalla necessità di “certificare sempre di più” ed avere “strumenti più trasparenti sul mercato”, quello di Pino Coletti che ha evidenziato vecchi studi noti col nome di eyetracking, il tema della storicità del marchio, oltre che l’ovvia conseguenza dello spaccio di prodotti dop falsi comporti i sequestri e quindi la sfiducia nei brand, quindi di blockchain.

Certo il potenziale della certificazione blockchain è alto e i prodotti veicolati dallo stesso hanno un ottimo trend in fatto di penetrazione di mercato, ma sarebbe stato utile ribadire che si tratta pur sempre di una autocertificazione che il produttore di un bene, fuori da altri usi, può depositare in maniera incontrovertibile, certo, ma che non va a sostituire le certificazioni obbligatorie. Sussisterebbe poi uno strumento legale tale da tutelare i cittadini da una dichiarazione mendace, circa il contenuto, e che sanzioni rischierebbe il produttore che faccia uso distorto della blockchain?

Il discorso di Angelo Marciano, Colonnello dei Carabinieri alla guida del reparto dell’Arma deputato del Parco Nazionale del Vesuvio, ha fornito alcuni dati e spunti interessanti: intanto che l’Italian Sounding ha un valore odierno di 100 miliardi, con un’insospettabile crescita in Russia; il che vorrebbe dire che il falso Made in Italy ha un ottimo giro di affari anche durante l’embargo. <<Ha davvero senso, nel disciplinare, indicare i 250 quintali massimo per ettaro di resa, a fronte dei precedenti 150 che una produzione normale non riesce comunque ad esprimere?>>, ha chiesto al pubblico il Colonnello. Il militare ha proseguito dicendo che è importante evitare la perdita di suolo fertile, come accaduto dopo l’incendio sul Vesuvio del 2017, e che <<il rispetto della legalità non uccide l’economia, ma la salva>>.

A seguire Nicola Caputo, Assessore Regionale alle Politiche Agricole e Forestali della Regione Campania, ha richiamato tutti i presenti sulla necessità di una “Dop Economy campana” con aumento degli investimenti, in virtù del numero esiguo di aziende agricole e della bassa produzione. Caputo ha in pratica richiesto una migliore messa a sistema, facendo team work, per tutti i 18 comuni inclusi nel disciplinare, includendo possibilmente altri distretti agronomici, come quello della mela annurca e del pomodoro San Marzano, per un vicendevole sostegno. C’è bisogno di fare gioco di squadra con gli addetti alla ristorazione e trovare sinergie con gli operatori del turismo e dell’accoglienza, per un marketing ed una comunicazione più funzionali.

Al termine dei lavori l’intervento di Davide Parisi, amministratore delegato di Evja, azienda performante nella tecnologia e nell’intelligenza artificiale dedicate all’agricoltura: la sua realtà imprenditoriale ha saputo raccogliere oltre 150 milioni di dati microclimatici in tutto il mondo, grazie a dispositivi che raccolgono informazioni in tempo reale, fornenti anche elementi di geo-localizzazione. Nel discorso si è espresso che l‘esperienza sul campo non potrà mai essere sostituita dall’IA (Intelligenza Artificiale), ma che la stessa dovrà essere supportata per la misurazione dei parametri principali e la memoria dei raccolti, in correlazione tra sonde, stazioni meteorologiche e satelliti.

Presente in sala anche Pasquale Imperato, uno degli animi vesuviani che più fortemente ha voluto tutelare il pomodorino del Piennolo e che ha preteso venisse ancorato alla terra e quindi metterlo nelle mani degli agricoltori, per una maggiore tutela del bene orticolo, diversamente dal pomodoro San Marzano che vede invece la tutela del solo prodotto trasformato. Imperato, oggi fuori dal Consorzio per una scelta di coerenza, continua a produrre con immancabile passione il buonissimo pomodorino e si dice fiducioso circa le modifiche sui criteri per i disciplinari apportati dal Parlamento Europeo.

Per quanto gran parte degli interventi siano stati quantomeno generalisti, va riconosciuta l’importanza di alcuni interventi tecnici e di alcune considerazioni che si sono distaccate da un dibattito decisamente fuori dal titolo che si è voluto dare alla manifestazione: è grazie al pomodorino del Piennolo se il Vesuvio non è “caduto” addosso al territorio di cui è progenitore e custode, costituendo il motivo per cui l’agricoltura è tornata alle pendici del vulcano, favorendo migliorie a partire dal semplice ripristino dei muretti a secco, ai campi coltivati con tante altre varietà orticole ed ai vigneti, grazie a cui si contrasta quotidianamente il dissesto idrogeologico e la disgregazione delle comunità rurali. Per poter avviare un’attività ed ottenere dei permessi, chiedere il parere ad enti di varia natura, talvolta ci si imbatte in lungaggini farraginose, punitive, superflue e limitanti. Così come è troppo frequente che i moduli di denuncia anonima delle frodi, eccellente strumento per contrastare gli illeciti e superare il muro dell’omertà, restino inutilizzati. Fatto sta che si è sentita la nostalgia di una disanima concisa sul nocciolo della questione, a causa di un costante ruotarvi attorno con discorsi certo importanti, ma sin troppo periferici.

Va altresì considerato che nel corso degli anni la forza lavoro deputata ai controlli è stata più che dimezzata, per non parlare della soppressione del Corpo Forestale dello Stato, entrambi sintomo di una evidente impossibilità a ricoprire qualsiasi territorio per qualsivoglia verifica finalizzata a scoraggiare i brogli. Con l’attuale ammanco di personale, chi potrà eseguire i necessari controlli di conformità? E non sarebbe il caso di chiedersi se sia opportuno istituire dei panel test di modo che assaggiatori competenti canonizzino le proprietà organolettiche dell’oro rosso vesuviano? E, perché no, immaginare se si possano qualificare controlli in base ai rapporti isotopici che si generano peculiarmente ogni anno nella relazione tra il suolo ed il prodotto stesso?

Ai posteri l’ardua sentenza.

Birrificio Serrocroce: la filiera agricola ha inizio dalle acque del territorio

Vito e Carmela Pagnotta hanno gli ingredienti giusti per produrre una birra di alta qualità. Ma la qualità dal Birrificio Serrocroce a Monteverde (AV), nel cuore dell’Irpinia, non può prescindere dal concetto di artigianalità e di filiera agricola.

Guardando le pubblicità e le comunicazioni spicciole del marketing, sembra ormai tutto “artigianale”; ma cosa significa davvero un termine abusato spesso per meri fini commerciali? Da Vito la risposta è semplice: non creare birre in base alla moda ed ai gusti del momento, senza grandi quantità stereotipate e mantenendo, invece, un sapore genuino in ogni aspetto della degustazione.

Ciò è possibile solo grazie ad una filiera agricola controllata, a “metro zero”, da coltivatore cerealicolo, di luppolo Cascade e di spezie come il coriandolo. Elementi fondamentali nel rapporto di proporzioni stabilito ancora dall’Editto della Purezza del sedicesimo secolo. Manca all’appello un componente indispensabile, che segna il passo tra Uomo e Natura. Un legame profondo con il territorio d’appartenenza, non replicabile in serie: l’acqua.

Serrocroce si approvvigiona dalle riserve idriche delle sorgenti di Caposele, tramite l’acquedotto pugliese. Ma il sogno di Pagnotta è un altro: quello di poter fruire dell’acqua potabile presente nei pozzi attigui al birrificio, ad 80 metri di profondità. Acque dure, ricche di sali minerali che donano carattere e consistenza all’assaggio. D’altro canto il panorama ancora selvaggio e aspro è esso stesso un valore aggiunto per chi si trova a visitare le sue verdi terre, a 740 metri d’altezza, nel territorio di Monteverde, precisamente ai piedi del Serro della Croce, il più alto dei colli che dominano la Valle dell’Osento.

Sei le versioni ideate, dalla classica Blonde Ale all’Ambrata, per finire con le Saison (una da grano Senatore Cappelli coltivato in fattoria) ed una gustosa Apa con quel tocco amaricante dato dai luppoli selezionati. E per non dimenticare il luogo natio della famiglia, una birra venduta unicamente a Monteverde, dedicata all’infaticabile lavoro dei propri contadini che salvaguarda un intero comparto economico, evitando lo spopolamento delle campagne.

Molte, infine, le iniziative gastronomiche: dalla composta di birra, alla panificazione, ai taralli e chissà, in futuro potrebbe essere il turno di un piccolo pastificio sempre con le farine locali. Di progetti in pentola ce ne sono tanti, ma quello più importante è tra le pagine non scritte della storia e parla di sacrificio, forza di volontà e resilienza. Un amore per la terra che può capire solo chi, con la terra, si sporca le mani ogni giorno.

Presentazione del primo VSQ Metodo Classico” Sheep” Extra Dry da coda di pecora della cantina Il Verro

Il Verro: da ‘U Verru, come localmente è chiamato il maschio del cinghiale, è l’azienda vitivinicola nata nel 2003 dal desiderio comune di cinque amici, oggi di proprietà di uno solo di loro, l’ingegnere Cesare Avenia. Situata nel comune di Formicola (CE), in una conca naturale tra i Monti Maggiore e Viggiano, con i suoi cinque ettari vitati produce circa 30.000 bottiglie annue da soli vitigni autoctoni in purezza. Era l’ottobre del 2017, in occasione di una loro “cantine aperte”, quando ho fatto loro visita per la prima volta ed ho avuto il piacere di conoscere Cesare e la consorte Bice De Pandis.

In quella splendida giornata di inizio autunno, abbiamo passato un bellissimo pomeriggio, interessante e rilassante. Cesare era all’inizio di un percorso fino ad allora a lui sconosciuto, ma da come gli brillavano gli occhi parlandoci di viti e di vino, capii che l’uomo tutto d’un pezzo, con una storia professionale importante nel mondo delle telecomunicazioni, avrebbe fatto grandi cose anche nella veste di produttore.

Ed arriviamo allo scorso 15 febbraio, nei locali della storica Hostaria Massa di Caserta, ritrovando Cesare con accanto la sua signora e negli suoi occhi la stessa luce di allora. L’occasione è stata quella di una serata molto “easy”, con amici che conoscono la storia, seduti attorno ad un tavolo per condividere la realizzazione di un sogno: il suo primo VSQ Metodo Classico dall’autoctono vitigno Coda di Pecora, lo “Sheep Extra Dry”, e per l’occasione, abbiamo assaggiato anche due vinificazioni sperimentali di Pallagrello Bianco e Pallagrello Nero. <<Ogni arrivo è comunque una partenza, una main stone>> dichiara Avenia.

Un team di collaboratori e comunicatori di altissimo livello siedono al suo fianco: l’amica e giornalista enogastronomica Antonella Amodio, l’enologo Vincenzo Mercurio e il microbiologo Giancarlo Moschetti che prende per primo la parola, Ordinario di Microbiologia Agraria e Presidente del Corso di Laurea in Viticoltura ed Enologia dell’Università di Palermo, per raccontarci il faticoso studio svolto sul DNA del Coda di Pecora, grazie anche alla collaborazione dell’ampelografa Antonella Monaco. Nel 2023 si è riusciti finalmente a farlo inserire con il numero 954 nel “Registro Nazionale delle Varietà di Vite” autorizzate alla produzione di vini. Tale vitigno, dopo anni di confusione con la Coda di Volpe, finalmente ha una sua identità che fin dai primi suoi assaggi smentiva qualsiasi legame con essa, sia per profumi che percezione gustativa.

Moschetti ci ha poi parlato del loro “Metodo Memo”, un modo per ritornare alle fermentazioni prima del 1980, quando i coadiuvanti erano vietati. Un lavoro in vigna per isolare un lievito aziendale, perché il territorio de “Il Verro” è un ambiente ricco di biodiversità: 36 specie di uccelli che nidificano, 405 specie di serpenti stanziali, istrici, lupi, api e vespe, tutti attori fondamentali per lo sviluppo dei lieviti in vigna. In laboratorio li hanno isolati e chiamati stagionali, visto l’apporto indispensabile della fauna nel diffonderli. I lieviti stagionali interagiranno, poi, con altri di cantina durante le fermentazioni spontanee.

La degustazione

Si è iniziato con due vini considerati sperimentali, da Pallagrello Bianco e Pallagrello Nero vendemmia 2019, imbottigliata in magnum. Nati con la collaborazione dell’Università di Palermo e della società di consulenza enologica “Le Ali di Mercurio”, queste bottiglie non sono in commercio e Cesare preferisce chiamarle piuttosto “le mie Riserve”, entrambe provenienti da un’annata eccellent durante la quale si è potuto iniziare l’uso dei lieviti stagionali.

Pallagrello Bianco Sperimentale 2019

L’enologo Vincenzo Mercurio ci prepara ad un vino dall’accattivante veste dorata, che si impadronisce subito della scena. Un vino dalla funzione esplorativa, a differenza delle vinificazioni che normalmente vengono imbottigliate verso maggio-giugno successivi alla vendemmia.

Gradevole intensità di profumi, dove le affumicature unite a pietra focaia anticipano un erbaceo di macchia mediterranea; non mancano il fruttato ed il floreale. Bocca proporzionata, con morbidezza in equilibrio ed a supporto delle freschezze, in un sorso da ripetere. Leggera astringenza da tè verde e lunga scia sapida finale. Un vino dalle grandi potenzialità evolutive.

Un Pallagrello Bianco da evoluzione, in grado di reggere l’affinamento in vetro fino e oltre dieci anni. Bisogna fare un po’ di sana autocritica, per riuscire finalmente a comunicare nel modo giusto che i bianchi non vanno bevuti solo d’annata.

Pallagrello Nero Sperimentale 2019

A questo vino non sono stati aggiunti solfiti e a detta di Vincenzo Mercurio, è un vino più estremo del Pallagrello Bianco, con fermentazione 100% spontanea. Inizialmente rustico, tramite il contatto con l’aria, si ingentilisce, dimostrando un naso da frutta (amarene) ancora croccante, tocchi di sottobosco e bocca succosa, fresca e sapida, dal finale leggermente amaricante. Un vino ancora in cerca della sua identità.

VSQ Metodo ClassicoSheep” Extra Dry

Da un ettaro e mezzo di Coda di Pecora, si producono appena 1.300 bottiglie di spumante e circa 3.000 di bianco fermo. Per non snaturare quelle che sono le caratteristiche del vitigno si è anticipata la raccolta per la spumantistica.

Affinamento sui lieviti di trenta mesi, anche se si punta a prolungarlo a sessanta mesi. Si intuisce che abbiamo difronte uno spumante evoluto, le bollicine sono fini e carezzevoli, manca però di quella leggera astringenza che ha lo Sheep fermo; il naso è molto fruttato, con richiami marini di conchiglie d’ostrica.

Anche noi continuiamo ad imparare, bevendo i vini delle persone che conosciamo. Grazie Cesare Avenia.

Bolgheri e Montalcino: i volti vincenti della Toscana nel mondo

Bolgheri e Montalcino: due volti di un’unica regione, si sono uniti per una sera a mostrare il filo rosso che li unisce: la capacità dei propri protagonisti di portare la Toscana in giro per il mondo. Location dell’evento il ristorante C’è posto per te a Castellammare di Stabia, che, nella consueta formula mensile ideata dal patron Pasquale Esposito, ha proposto una serata a tutta Toscana, non solo nei vini ma anche nei piatti eseguiti dalla resident chef Angela Esposito.

La conduzione di Luca Matarazzo, direttore della testata 20Italie e relatore AIS esperto di Toscana, ha accompagnato l’evento: partendo dall’assunto che bere è un atto d’amore, Luca ci ha portato alla scoperta di luoghi e personaggi di due territori iconici, permettendoci di riconoscerli nel bicchiere.

Iniziamo il racconto da Bolgheri, territorio rinomato e riconosciuto a livello internazionale, ma fino agli anni quaranta del secolo scorso zona paludosa di recente bonifica. Il Marchese Mario Incisa della Rocchetta, riconobbe qualcosa che gli ricordava la Graves bordolese. Impiantò Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc e diede vita al vino bolgherese più noto, il Sassicaia. Un vino fatto in garage, amava scherzosamente definirlo, ma che ha fatto la storia dei grandi Supertascans, grazie all’enologo Giacomo Tachis proposto dal cugino Antinori.

Bolgheri è strettamente legata ai vitigni cosiddetti internazionali, che, per tipologia di terreni ed esposizione, trovano qui un habitat vocato. Vicino al mare (ma non troppo), è presente un paesaggio a mo’ di gradoni, tra le terre più antiche della Toscana, di circa un milione di anni. Si parte dalle colline metallifere e si arriva fino a terreni argillosi, molto simili al flysch cilentano, che donano sapidità e verticalità al vino. Un anfiteatro naturale all’interno del quale sono stati individuati ventisette tipi di terreni diversi, con diverse caratteristiche nei prodotti.

Il primo dei vini in degustazione, Noi 4 Bolgheri doc 2020 di Tenuta Sette Cieli, è il classico taglio bordolese da Cabernet Sauvignon, Merlot, Petit Verdot e Cabernet Franc impiantati a 400 metri d’altitudine. Nel calice sembra di sentire il soffio del mare, tra note officinali, speziate e mentolate che caratterizzano una bocca giovane e scattante.

Il Piastraia 2019 Bolgheri Superiore doc di Michele Satta, ottenuto da Cabernet Sauvignon, Merlot e Sangiovese prevede, invece, l’inserimento della varietà dominante in regione. La Famiglia Satta oltre a lavorare in questo territorio le quattro uve bordolesi, è meritevole di aver sperimentato anche il Syrah, il Teroldego e aver riportato in auge il Sangiovese stesso, quando la maggior parte dei vignaioli lo stava espiantando. Giacomo Satta, figlio di Michele, racconta la storia di una realtà vinicola da chi la vive nel quotidiano ed è emozionante cogliere quei piccoli particolari che sembra poi rivedere al sorso. Michele Satta, lombardo con origini sarde, adottato professionalmente a Bolgheri, si trasferisce sulla costa toscana negli anni Settanta del secolo scorso. Non sa nulla di vigna e vinificazione e quando decide di mettersi in proprio nel 1983, sceglie di fare vino perché a quei tempi i terreni coltivati a vigna costavano meno di qualsiasi altro tipo di terreno. Gli stessi momenti in cui Ludovico Antinori fonda Ornellaia, Piermario Meletti Cavallari Podere Grattamacco e, poco dopo, Eugenio Campolmi con Le Macchiole.

“Mio padre si introduce casualmente in una storia di vino, e lo racconta sempre per sottolineare come nella vita accadono cose speciali, da cui non si sfugge”. Il Piastraia 2019 è scuro e impenetrabile. All’inizio, necessita di tempo per rivelare la sua pienezza, ma al contempo riflette l’annata di cui è figlio: equilibrata per clima, piogge ed escursioni termiche. Un vino materico che ci parla di affetto per il territorio.

In abbinamento ai primi due vini, l’Antipasto Toscano con Finocchiona, bis di pecorini, pappa al pomodoro, fagioli all’uccelletto e bombetta al formaggio. Con i fusilli al ferretto al ragù di cinghiale, approdiamo nel secondo dei territori in esplorazione: Montalcino.

La nascita del Brunello di Montalcino è inscindibile dalla famiglia Biondi Santi, in particolare da Clemente, che nel 1820 iniziò a coltivare Sangiovese Grosso in un territorio dove si produceva prevalentemente Moscato Bianco nella tipologia dolce “Moscadello”. Il successo di questo vino è poi dovuto, come per Bolgheri, a giovani imprenditori che hanno creduto nelle potenzialità del territorio. In primis i fratelli Mariani che, coadiuvati dall’enologo Ezio Rivella, hanno dato vita all’azienda che ha portato il nome del Brunello di Montalcino prima negli Stati Uniti: Banfi.

Il primo Brunello di Montalcino in degustazione è Fattoi 2018.

Fattoi è un Brunello “tradizionalista”: prevede l’invecchiamento in botti di rovere da 40 Hl. Legno grande quindi, che mantiene integro il frutto del sangiovese, ancora pienamente godibile in questo bicchiere.

Caprili Brunello di Montalcino docg 2018 dell’Azienda Agricola Caprili è il secondo vino dell’areale. Anche questa una storia di famiglia riscattata dalla mezzadria; anche questo può considerarsi di fatto un Brunello tradizionalista che affina in botte grande. Al naso il frutto fragrante del sangiovese è controbilanciato da arancia essiccata, viola appassita, incenso. Il sorso è carezzevole grazie al tannino finissimo ma presente e risulta spiccatamente saporito. Sia Fattoi che Caprili si trovano su territori esposti ad ovest, un tempo più freschi, ma oggi, col cambiamento climatico in atto, espressione di un sangiovese equilibrato. I terreni prevalentemente argillosi danno nerbo e struttura al tannino. Esattamente ciò che sentiamo al sorso.

Il Peposo dell’Impruneta ci porta nella tradizione più autentica della cucina di Firenze, con uno stracotto che ha origini nel Medioevo e  deve il suo nome all’utilizzo abbondante di pepe in grani durante la cottura nei corposi vini toscani. La chef Angela lo propone insieme ad un piatto della tradizione campana, salsiccia e friarielli, per sperimentare un abbinamento non propriamente regionale – ma perfettamente riuscito – con i vini in degustazione.

Non ci spostiamo da Montalcino, degustando la superstar del 2023, il miglior vino del mondo, come lo ha definito Wine Spectator: Argiano Brunello di Montalcino docg 2018. Un vino italiano, toscano, salito sul podio a portare il vessillo del Made in Italy, cosa fino a qualche decennio fa impensabile.

Fine al naso, dai sentori di un frutto carnoso, e dal palato declinato su scie balsamiche, colpisce per l’equilibrio tra eleganza e potenza. Il sipario si chiude a Bolgheri con due pezzi autentici cavalli di razza.

Partiamo da Ornellaia L’essenza 2014 Bolgheri Doc Superiore, frutto di un’annata impegnativa che si esprime nel bicchiere comunque ad alti  livelli. La 2014 è composta nel blend bordolese con le seguenti proporzioni: 34% Cabernet Sauvignon, 32% Merlot, 20% Petit Verdot, 14% Cabernet Franc. Il naso è un pot-pourri di petali essiccati, spezia e salamoia. Il sorso è pieno, rotondo, con richiami di cioccolato ed una nota piccante nel finale, seguita da tannini morbidi e levigati.

Cavaliere Toscana IGT 2008 di Michele Satta, da Sangiovese in purezza è stato l’omaggio di Giacomo Satta a una serata dedicata alla convivialità. Naso di grande spessore, che spazia dalla moka, all’incenso, dall’arancia essiccata, alla felce e alla macchia mediterranea. Il sorso è progressivo e sferza il centro della lingua, chiudendo lungo e ampio su tostature di caffè.

C’è posto per te

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Tel: 081 870 1746

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Il crescente mercato dei Vini Dealcolati: alcuni spunti per opportune riflessioni

Siamo cronisti. Osserviamo e cerchiamo di informare al nostro meglio chi ci legge sulle pagine di 20Italie. Il tema è quanto mai attuale e scottante. Merita un dovuto approfondimento in maniera imparziale dal nostro autore Olga Sofia Schiaffino.

Nell’ultimo anno, il mercato dei vini dealcolati ha conosciuto una crescita significativa, alimentata dalla domanda di alternative a basso contenuto alcolico e dalla sempre maggiore consapevolezza dei consumatori riguardo agli effetti del consumo di alcol sulla salute. Questa tendenza non solo riflette uno spostamento verso uno stile di vita più sano, ma anche un interesse crescente per l’innovazione nel settore vinicolo.

La tendenza verso i vini a basso contenuto alcolico

Mentre il vino tradizionale rimane popolare in molte regioni del mondo, c’è una chiara tendenza verso prodotti a minor contenuto alcolico. Questo è particolarmente evidente tra i consumatori più giovani e consapevoli della salute, che cercano alternative che permettano loro di godere della cultura del vino senza gli effetti negativi dell’eccessivo consumo di alcol.

Il processo di dealcolazione

I vini dealcolati vengono prodotti attraverso un processo di rimozione dell’alcol dal vino, che può essere realizzato in diversi modi. Uno dei metodi più comuni è l’osmosi inversa, in cui il vino viene filtrato attraverso membrane che separano l’alcol dagli altri componenti. Un altro metodo consiste nell’evaporazione sottovuoto, in cui il vino viene riscaldato a temperature inferiori al punto di ebollizione dell’alcol, consentendo la sua rimozione senza compromettere eccessivamente il profilo aromatico del vino.

L’importanza del profilo aromatico

Una delle sfide principali nella produzione di vini dealcolati è preservare il profilo aromatico e gustativo del vino originale. Poiché l’alcol contribuisce in modo significativo alla struttura e al sapore del vino, è essenziale utilizzare tecniche che minimizzino la perdita di composti aromatici durante il processo di dealcolazione. I produttori di successo investono quindi in tecnologie avanzate e processi delicati per garantire che il vino risultante mantenga le sue caratteristiche distintive.

La variegata offerta sul mercato

L’offerta di vini dealcolati è diventata sempre più variegata, con una vasta gamma di opzioni disponibili per i consumatori. Dai vini bianchi freschi e fruttati ai robusti rossi invecchiati, c’è qualcosa per tutti i gusti e le preferenze. Inoltre, molti produttori offrono vini dealcolati biologici e provenienti da viticoltura sostenibile, per soddisfare la crescente domanda di prodotti eco-friendly.

La tendenza verso la salute e il benessere fisico

Il crescente interesse per i vini dealcolati riflette anche una tendenza più ampia verso uno stile di vita sano e il benessere fisico. I consumatori sono sempre più consapevoli degli effetti negativi dell’eccessivo consumo di alcol sulla salute e cercano alternative che consentano loro di godere della convivialità e della socializzazione associate al consumo di vino, senza compromettere il loro benessere complessivo.

Durante la manifestazione Wine and Siena, promossa da Helmuth Köcher e da Merano Wine Festival era presente Vinuci, un’azienda di Bolzano che ha iniziato nel 2021 a creare vini dealcolati, proprio per rispondere a quella fetta di consumatori interessati alla socializzazione senza l’effetto dell’alcol. Le bevande analcoliche, a base di vino e spumante, vengono prodotte utilizzando le tecniche più innovative per garantire un’alta qualità e un profilo organolettico accattivante.

L’azienda produce 5 tipologie, partendo da una base di vino intorno al 93-94%, da mosto d’uva rettificato o succo di frutta, anidride carbonica per quanto concerne la tipologia frizzante. I vini utilizzati provengono in maggior parte dalla Germania e con una base riesling si ottiene Allegro, un vino frizzante dealcolato con sentori che ricordano la frutta gialla matura e gli agrumi. Sicuramente non si può approcciare questa tipologia pensando di trovarsi di fronte a un calice con i profumi e le sensazioni che ci potremmo aspettare dal vitigno dichiarato in etichetta; questo non vuol dire che si possano trovare esempi interessanti, in cui si ritrova una piacevolezza dell’assaggio. Allegro è tra questi ed è stato premiato con il bollino rosso di The Wine Hunter.

Una tipologia che merita sempre maggior approfondimento, per un giudizio onesto e accurato, che non risenta di preconcetti o di chiusure intellettuali. I vini dealcolati potrebbero rappresentare sempre di più una scelta attraente per coloro che desiderino godere di un prodotto alternativo al vino.