Romagna: Elisa Mazzavillani, “la vignaiola indipendente”

di Matteo Paganelli

Non trovo appellativo più appropriato di questo per descrivere Elisa Mazzavillani – Azienda Agricola Marta Valpiani.

Non solo per essere la coordinatrice Romagna FIVI (Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti, associazione di vignaioli che promuove l’anti-burocrazia e che assicura la produzione dalla A alla Z “dentro le mura di casa”), ma perché è davvero indipendente da tutto e da tutti. Lo dimostra nei suo modi di fare, nella caparbietà, nel non ascoltare nessuno se non il proprio istinto. Del resto questo titolo è scritto pure nel cartello che si può scorgere da Via Bagnolo, appena si varca la soglia della sua cantina.

È un lunedì pomeriggio di aprile, e ha appena smesso di grandinare. Elisa è visibilmente (e comprensibilmente aggiungo) contrariata: teme che la grandine possa aver causato qualche danno ai vigneti già in piena fioritura. Purtroppo, dobbiamo convivere con il fatto che il grande cambiamento climatico stia “guastando” il tempo creando eventi atmosferici anomali e inaspettati. «Se deve farla a Luglio [la grandine, n.d.r.], è meglio che la faccia adesso» commenta con un tono da magra consolazione.

Elisa mi accoglie nella sala degustazioni che ben conosco, ma che ogni volta mi lascia incantato per la cura dei dettagli. Sparse un po’ ovunque, in perfetto stile Shabby chic, troviamo le bottiglie: alcune sul banco, altre posizionate in basso, altre ancora su mensole dedicate e collocate come fossero trofei. Sono 7 etichette che Elisa produce: 4 da uve Sangiovese, 2 da Albana e 1 rifermentato in bottiglia da uve Trebbiano. Anche se in cantiere è previsto un ulteriore Sangiovese che uscirà a breve.

Dopo le classiche chiacchiere di routine, assaggiamo subito qualcosa, mentre approfitto del momento per affacciarmi sulle vetrate e scorgere i paesaggi quasi lunari, caratterizzati dai grossi scorci dei calanchi che primeggiano magistralmente sulla vallata. La visita odierna è principalmente dedicata alle sue due versioni di Albana, che oggi escono entrambe sul mercato sotto la denominazione Romagna Albana DOCG. La conquista della fascetta è stata piuttosto ardua; seppur produca Albana in purezza dal 2018 (prima in blend con altri bianchi autoctoni), ha potuto rivendicarla solo nel 2020. La chiusura screwcap con tappo a vite non era ancora ammessa da disciplinare.

Elisa crede fermamente in questo progetto, che ha una chiara impronta ambientalista, ed ha preferito declassare per alcuni anni i vini etichettandoli come Forlì IGT Bianco, continuando ad avanzare le proprie idee dall’interno, senza mollare di un centimetro. Ce l’ha fatta! Ed a chi critica questa scelta, sostenendo che un vino ha bisogno del tappo di sughero per respirare, ella risponde che “il vino non è un pesce rosso, ha bisogno di micro-ossigenazioni, non di ossidazioni, e la screwcap può essere una valida chiusura tecnica per raggiungere tale obiettivo”.

Due le etichette dedicate all’Albana degustate: “Delyus” “Madonna dei Fiori”.

Romagna Albana Docg Delyus 2022

Viene coltivata da nuovi impianti del 2016 su un appezzamento principalmente caratterizzato da arenaria con sabbie. Dedicata al padre Delio raffigura in etichetta una Mandragora, pianta mistica che qualcuno avrà sicuramente visto nei film su Harry Potter, e che indica, nel suo significato, il furore e delirio umano. L’aspetto nel calice è invitante, giallo paglierino e nuance dorate. Il naso ricco di erbe aromatiche: timo, rosmarino. Non tarda ad arrivare il frutto: la tipica albicocca dalla polpa ancora croccante e con scie di pesca bianca; c’è anche una nota iodata finale molto percettibile. In bocca la prima cosa che si avverte è il sale, filo comune di tutto il territorio di Castrocaro Terme. L’acidità palpabile, ma non invadente. La struttura di medio impatto, merito anche della componente alcolica poco esuberante e perfettamente integrata. Salino e immediato: che voglia di bere subito un altro calice!

Romagna Albana Docg Madonna dei Fiori 2022

Da vecchi impianti curati con amore. Terreni caratterizzati dalla presenza di argille ocra, che ritroveremo quasi per osmosi all’interno del vino, in una struttura più accentuata rispetto a Delyus.
Il nome è una dedica alla patrona di Castrocaro Terme e l’etichetta raffigura una hemerocallis o ‘bella per un giorno’, con un significato in contrapposizione alla breve vita dei fiori: Elisa persevera e non molla mai! Colore leggermente più saturo, con una nota dorata vivida. L’olfatto non richiama ad un’aromaticità spiccata, ma si percepisce piuttosto un frutto citrino, confermato al sorso, con una freschezza verticale spalleggiata armoniosamente dall’estrema sapidità.

Credo che dobbiate tutti andare a trovare Elisa Mazzavillani. Del resto lei è come l’Albana: non la si addomestica, la si ama e basta.

La Salceta: storia di Ettore Ciancico produttore del Valdarno di Sopra

di Olga Sofia Schiaffino

Può il silenzio essere più eloquente di mille parole? Rispondo di si, senza pensarci troppo, dirigendo la mente al mio incontro con Ettore Ciancico, vignaiolo illuminato del Valdarno di Sopra.

Ettore riesce ad affascinare chi lo ascolta con le sue idee, con l’incedere dei toni e delle pause nel suo discorso. Ma il momento in cui impari più cose sul vino e sulla sua filosofia di produzione  è sicuramente  quello in cui si zittisce e ti scruta, con uno sguardo sincero e onesto.

Se potessimo pensare di dividere la nostra vita in capitoli come fosse un libro, l’avventura del viticoltore Ettore Ciancico sarebbe descritta nel terzo, dopo la narrazione del suo impegno prima nel sindacato e, successivamente, da imprenditore. Filo conduttore è l’amore per le cose giuste, “fatte bene” e la valorizzazione del territorio, delle persone che lavorano a un progetto.

Un problema di salute lo costrinse a un cambiamento radicale, e così prese forma l’idea di potersi occupare della vecchia vigna di famiglia a Loro Ciuffenna (AR) e di produrre vino, invece di vendere le uve: l’amore per il Sangiovese sbocciò immediatamente in lui, senza neppure accorgersene!

Iniziò quindi un grande lavoro di ricostruzione dei vigneti (circa quattro ettari condotti in regime biologico) e in seguito le prove di vinificazione nelle vasche di cemento e l’ampliamento della cantina: nacquero le prime etichette improntate a freschezza, tipicità, bevibilità. Ettore rimarca il suo essere controcorrente rispetto ai canoni del mercato, per seguire un gusto e un approccio nuovo al vino:  la scelta di utilizzare solo contenitori di acciaio rispetto alle convenzioni stilistiche.

Il concetto di immediatezza non deve far pensare che si originino vini banali, anzi: degustando ad esempio Osato, rosato ottenuto in prevalenza da Cabernet Franc, c’è tanta sostanza e personalità. Dal color rosa salmone luminoso, invita all’assaggio e colpisce per la nitidezza dei profumi di piccoli frutti rossi, la freschezza del sorso e la nota sapida di chiusura. Il vino perfetto per “una colonna sonora” estiva indimenticabile (ogni anno redigo una sorta di Summer Wine List per gli amici appassionati). Grande versatilità negli abbinamenti, soprattutto con le ostriche ed i crudi di mare.

Ruschieto è il Sangiovese che nasce dalle uve raccolte da una singola vigna, un vero e proprio Cru in questo territorio già delineato dal Bando Granducale di Cosimo III  de’Medici del 1716, quale zona particolarmente vocata per la produzione del vino. La scelta di vinificare una parte con la tecnica della fermentazione carbonica consente di ritrovare nel calice profumi freschi, decisamente floreali, seguiti da un corredo che rimanda a frutti rossi di bosco e a prugna matura. In bocca il tannino è ben integrato nel corpo del vino, il sorso è piacevole e il finale sapido.

La Nocetta è ottenuto da un blend di 60% di Sangiovese e da 40% di Cabernet Franc: affascina il color granato e il bouquet complesso in cui si riconoscono note erbacee, di amarena e pepe . Si armonizzano perfettamente le sensazioni caloriche, l’acidità e il tannino, dando vita a un vino caratterizzato da un grande slancio e dinamismo e dal finale persistente.

La Salceta è un luogo magico, che si anima d’estate con serate a tema “ Wine is in the Air”, come quella dedicata alla cultura giapponese con l’abbinamento di diversi tipi di sakè e sushi e a quella con ostriche e mitili.

L’azienda offre inoltre la possibilità di degustazioni e di wine experiences: troverete ad accogliervi oltre a Ettore in persona, la gentilezza, la grande competenza e la professionalità della sua compagna Linda Nano e riceverete un affettuoso benvenuto da Bengio, un dolcissimo bovaro svizzero che protegge le persone, i sogni e le vigne de La Salceta.

Picasso disse che il senso della vita è scoprire quale sia il nostro dono e il nostro scopo, regalare questo dono agli altri: la storia di Ettore Ciancico è una storia di scelte e di coraggio e il suo regalo, i vini emozionanti che parlano diritti al nostro cuore.

Montalcino (SI): visita all’azienda Caprili

di Luca Matarazzo

Bisogna riconoscerlo: fa sempre effetto visitare una realtà ben organizzata, per di più in un areale conosciuto in tutto il mondo, come l’azienda Caprili a Montalcino (SI).

L’emozione nasce dal fatto che i loro vini sono entrati a far parte di quel patrimonio enologico d’Italia, vanto per chiunque grazie al Sangiovese di queste terre, forte di connotazioni eleganti e potenti al tempo stesso. La storia della famiglia Bartolommei, titolari da 4 generazioni, nasce come tanti in Toscana, dal vecchio retaggio dell’epoca della mezzadria.

Nel 1911 già conducevano i poderi della Tenuta Villa Santa Restituta, per poi spostarsi, nel 1952 all’attuale podere denominato Caprili. Nel 1965 decidono di acquistarne la proprietà dai signori Castelli-Martinozzi, tenutari di Villa Santa Restituta, e nello stesso anno impiantano il primo vigneto, denominato ancora oggi “Madre”, da cui si ricavano le selezioni massali per i nuovi innesti.

Agli inizi si trattava di appena un ettaro vitato, per poi crescere, passo dopo passo, fino agli oltre 25 odierni. Non soltanto accrescimento agrario, bensì pure la costruzione di una nuova cantina di vinificazione per arrivare a gestire l’aumento produttivo giunto al record di 54 mila bottiglie con la straordinaria 2019.

La qualità non nasce dal caso: parlando con Giacomo Bartolommei, l’attuale timoniere aziendale, gli sovvengono i ricordi dolci ed affettuosi per suo nonno Alfo, artefice del primo imbottigliamento datato vendemmia 1978 e messo in commercio nel 1983. Alfo era un visionario, un pioniere in quelle stagioni ove il vino italiano neanche conosceva la propria identità e consapevolezza. Il futurismo enologico è visibile nel settore dedicato alle etichette storiche di valore indiscusso, con pezzi rarissimi ancora disponibili per assaggi unici nel loro genere.

Ora come allora, si decide di lavorare in base alle diverse maturazioni del vino nei contenitori, andando prima a comporre il mosaico della tipologia Rosso di Montalcino e poi quello delle botti selezionate verso il Brunello di Montalcino e la Riserva, realizzata solo nelle annate generose e equilibrate. Fusti di varie dimensioni, passaggi, periodi di sosta: dai 30 ai 60 ettolitri e dai 24 ai 36 mesi. Solo il Rosso di Montalcino viene dirottato verso tonneaux e legni da 20 ettolitri per 12 mesi.

In vigna la parte agronomica viene seguita dal padre Manuele, lo zio si occupa delle vendite ed il cugino Filippo Pieri, neppure ventenne, già rappresenta il futuro di Caprili. Giacomo Bartolommei è anche uno dei vicepresidenti del Consorzio del vino Brunello di Montalcino. A lui non potevamo evitare, prima della consueta degustazione, alcune domande sull’andamento della denominazione e dei mercati.

Giacomo, esprimeresti un tuo pensiero sul presente e sul futuro del Brunello di Montalcino? <<Il presente vive ancora una lunga coda positiva di ordinativi frutto della ripresa post-pandemica. Le note dolenti arrivano, invece, dal costo delle materie prime e dagli approvvigionamenti, che molte realtà cercano di attuare per svincolarsi dalla rarefazione di vetro ed etichette. Il futuro trasmette ottimismo, pur con una flessione sui prodotti di bassa fascia fuori dalla denominazione di origine. La richiesta è altissima e si fa fatica a soddisfare tutti i mercati, superando la soglia dei 9 milioni di fascette annue.>>

E per quanto concerne il cambiamento climatico quali sono le sensazioni dei produttori? <<Con il cambiamento climatico bisogna ormai conviverci, probabilmente spostando le altitudini per la vite. Serve inoltre un corretto approvvigionamento idrico, con la costruzione di numerosi bacini di accumulo d’acqua piovana sempre più scarsa durante la primavera e l’estate. Non c’è comunque l’intenzione di aumentare i diritti d’impianto complessivi; ciò rischierebbe infatti di creare un’involuzione nella fiducia dei consumatori, non aiutando il sostegno di adeguati prezzi di vendita.>>

E adesso, ringraziando il collega giornalista Dario Pettinelli per aver organizzato un incontro tanto atteso, passiamo a momenti più ludici: la degustazione dei vini.

Partiamo dal Rosso di Montalcino 2021, che dimostra il calore dell’annata siccitosa e torrida, con alcune vasche di fermentazione dai valori record per componente alcolica. In questi casi, oggi più che mai, la mano dell’uomo diventa necessaria per riportare le condizioni entro normali limiti di piacevolezza. La tipologia non consente particolari espressioni estrattive o materiche con rinuncia, invece, ad un sorso dinamico e immediato. Per fortuna (e bravura), il target gustativo resta sempre l’agrume rosso con buoni spunti minerali e scie di erbe mediterranee. Obbiettivo raggiunto.

Il Brunello di Montalcino 2018 mostra i caratteri di una vintage totalmente differente rispetto alla 2021, giocata maggiormente su toni freschi e meno pomposi. Come sempre, preferiamo evitare giudizi e facili vaticini da rabdomanti mediatici, evidenziando che la qualità altissima non è legata necessariamente a persistenze tanniche irsute o altre componenti. Ogni anno è un racconto diverso, per chi sa narrarlo e per chi vuole ascoltare. Questo parla di ciliegie succose, tendenze all’amaricante tipiche del varietale ed un sorso che è pura goduria di bocca. Berlo ora o tra un po’ sarebbe come il dubbio amletico irrisolvibile tra l’uovo e la gallina. Perché esitare?

Piemonte: il Barolo “Pierin” di John Maiolo

di Olga Sofia Schiaffino

Nel mondo del vino si presentano spesso occasioni fortunate di incontrare persone che ti colpiscono per le loro qualità e la loro determinazione: tra questi John Maiolo, appassionato di vino e con un grande sogno realizzato.

Da buon piemontese ha il Nebbiolo nell’anima e un progetto preciso: creare quel vino particolare che parli al cuore. Ma dove trovare le uve? Per fare un vino memorabile ci vuole qualcosa di speciale, come le uve dal vigneto storico nel cuore di Monforte d’Alba appartenuto al Pierin, Langhetto d’altri tempi e vignaiolo esperto.

Egli dedicò la vita alla vigna, un appezzamento con esposizione sud ovest nella Menzione Geografica Aggiuntiva “Ginestra”; intorno al 2006 vendette la proprietà ai fratelli Faccenda di Cascina Chicco, pretendendo però di continuare a lavorarla. Solo la morte, avvenuta nel 2018, lo separò definitivamente dalle piante e dalla terra tanto amata nel suo lavoro.

I nuovi proprietari, che da 4 generazioni sono dediti alla viticoltura e oggi possiedono circa 50 ettari nelle zone più vocate di Roero e Langhe, sono, per fortuna, degni rappresentati di un terroir unico e promotori di quei principi etici appartenuti al buon Pierin.

John Maiolo si rivolge a Enrico Faccenda per il suo progetto e decide di imbottigliare, con una propria etichetta, le uve provenienti dalla vigna di Pierin. Nasce un barolo davvero unico, vivo, autentico. Un vino a cui sono stati attribuiti punteggi elevati dalla critica di settore e che merita di essere descritto e narrato con termini alla portata di tutti.

Guardiamo la bottiglia prima di tutto: l’Albeisa, simbolo del territorio delle Langhe, con 300 anni di storia sulle spalle, è stata modellata dai maestri vetrai delle antiche Vetrerie di Poirino (TO). In etichetta un dipinto che raffigura le colline dell’Albese a Serralunga, una storia di famiglia in un mondo di ricordi dell’infanzia, di tradizioni contadine, dove l’uomo e la natura sono in perfetta armonia. Il padre di John, uno dei più grandi pittori europei naif-figurativi del secolo scorso, soleva ritrarre quei luoghi ricamati in ordinati filari per accogliere il nobile nebbiolo. Sembra di affacciarsi a una finestra a contemplare il paesaggio intorno, mentre nel calice si sprigionano profumi di viola, lamponi, ciliegia che sembra quasi in confettura, poi liquirizia, tabacco e cioccolato.

L’assaggio è emozionante, puro velluto liquido, con un tannino preciso e ordinato che anima il sorso:  la nota speziata accompagna il finale che si allunga, riportando alla memoria sentori e sapori. Un lavoro attento e scrupoloso, a cominciare dalla vendemmia manuale, iniziata nella seconda metà di ottobre nel 201, con due passaggi a distanza di circa 10 giorni di differenza. La fermentazione si è svolta in due settimane, in piccole vasche di acciaio con numerosi rimontaggi. La macerazione è durata invece 45 giorni; al termine di essa il vino è stato messo in botti di rovere da 2000 litri per attendere la fermentazione malolattica. Il periodo di affinamento si è compiuto per circa 32 mesi in botti grandi di rovere e per 13 mesi di nuovo in vasche d’acciaio.

Guardo John e mi colpisce il suo sguardo luminoso, mentre è in attesa di un commento sul prodotto che ho appena degustato: un vino che ti prende per mano e ti conduce in una dimensione dove c’è posto solo per le persone buone, per l’onestà e per l’amore a Madre Terra che ci ha dato i natali.

L’annata del Barolo Docg “Pierin” 2016 si divide in 1400 bottiglie, 100 Magnum e 10 Jeroboam, che promettono meraviglie per il futuro e che spero di avere l’occassione di riassaggiare, sicuramente in ottima compagnia.

Le diverse espressioni del Montepulciano d’Abruzzo nei vini della Doc Villamagna

di Adriano Guerri

Abruzzo, patria del Montepulciano d’Abruzzo, sembra aver trovato nella Doc Villamagna una particolare area vocata, tramite un piccolo gruppo di produttori che ha dato origine al movimento ed alla Denominazione di Origine.

Una enclave altamente vocata per la coltivazione della vite. La Doc Villamagna nasce  per tutelare, promuovere  e valorizzare il territorio straordinario ed il suo vino. Nei tre giorni di tour ho avuto la possibilità di  appurare di persona il clima di unità e coesione tra i vari attori protagonisti, accolto con calore e amicizia. Ottima l’organizzazione curata dall’agenzia Zed_Comm, presenti colleghi della stampa da tutta Italia. Un areale di una bellezza senza pari, con borghi immersi tra dolci colline, punteggiate da piante d’olivo, vigneti e tanto verde.

Villamagna

La Doc nasce nel 2011. Microzona che si estende per solamente 85 ettari vitati,  considerata tra le quelle più piccole d’Italia.  I comuni sono, oltre a Villamagna,  i comuni limitrofi di Vacri e Bucchianico in provincia di Chieti. Attualmente, soltanto  sette sono i vitivinicoltori. Il suolo è di origine sabbiosa-argillosa e calcareo-marnosa, il microclima è ideale per la coltivazione della vite, a poca distanza dal mare Adriatico e dalle cime del massiccio montuoso della Maiella. Considerevoli le escursioni termiche, con venti propizi che garantiscono ottima salute alle uve. Il disciplinare prevede rese basse per ettaro e esposizioni dei vigneti a sud-est, sud-ovest, per espressioni nel calice di pari potenza ed eleganza. 

L’allevamento preferito della vite è la classica Pergola Abruzzese, ritenuta per il Montepulciano la più idonea in quanto assicura la giusta maturità dei grappoli evitando ustioni degli acini dovute al forte irraggiamento delle ultime stagioni. Le tipologie previste sono due: oltre al Villamagna Doc si aggiunge il Villamagna Doc Riserva. L’attuale Presidente dell’Associazione Generazioni del Vignamagna è Katia Masci di Valle Martello.

L’elenco dei produttori presenti al tour

Cantina Sociale di Villamagna,  Pian di Mare, Agricosimo, Torre Zambra, Palazzo Battaglini, Cascina del Colle e Valle Martello. 

Torre Zambra

Tenuta Torre Zambra si trova a Villamagna , di proprietà della famiglia De Cerchio, proprietaria anche di altre aziende. La superficie vitata attuale si attesta intorno ai 20 ettari con vigneti posti ad altimetrie che vanno dai 120 ai 230 metri s.l.m. con terreni prevalentemente sabbiosi.  La coltivazione della vite è biologica ed il vitigno maggiormente coltivato è il Montepulciano d’Abruzzo, ma anche Trebbiano d’Abruzzo, Passerina e Pecorino. L’azienda predilige la coltivazione a tendone (Pergola Abruzzese). Da tempo sono iniziati i lavori di ristrutturazione sia dell’antica Torre, andata completamente distrutta e della nuova cantina , nonché di una struttura di alta ospitalità. Al timone dell’azienda oggi c’è il giovane e dinamico Federico De Cerchio che rappresenta la quarta generazione. 

I vini degustati

Piana Marina Trebbiano d’Abruzzo 2020 dalle nuance giallo paglierino con riflessi dorati, ed un bouquet di erbette aromatiche, mandorla secca, dal sapore sapido e avvolgente.

Colle Maggio 2021 rosso rubino intenso dagli aromi di frutti di bosco, ciliegia, liquirizia e dal sorso agile da arancia sanguinella. Appaga e persistente.

Colle Maggio 2020 Riserva rubino quasi impenetrabile, si spinge su effluvi di giaggiolo, prugna, scorza d’arancia e chiodi di garofano. Buona complessità con attacco tannico in prima battuta. 

Villa Magna 2019 scuro sin dal colore con note olfattive di tabacco, viola appassita, frutta rossa, bacche di ginepro e cannella. Poderoso all’assaggio, ma nobile e salino nella sua trama antocianica.  

Villa Magna 2018 Riserva più vivace e declinato verso la torrefazione tra cacao, liquirizia e polvere di caffè. Molto caloroso.

Cascina del Colle

Di proprietà della famiglia D’Onofrio, che qui coltiva la vite da tre generazioni. I vigneti sono sparsi sia nel comune di Villamagna sia a Bucchianico, Ripa Teatina e Vacri. Fondata nel 1997 vanta 22 ettari vitati di proprietà di cui ben 3 riservati al Villamagna Doc su altimetrie che variano dai 120 ai 290 metri s.l.m.  La composizione del suolo è prevalentemente sabbiosa, la coltivazione segue i dettami dell’agricoltura biologica. Le altre varietà coltivate sono, Merlot, Syrah e Sauvignon Blanc. Recentemente è stata ampliata la cantina di vinificazione, giunta alla fase conclusiva di ristrutturazione.

I vini degustati

Terrebaciate Sauvignon Blanc 2022 dal giallo paglierino tenue e con sbuffi di fiori bianchi, pera Williams, melone canalupo. Gusto verticale con scie minerali intriganti.
Aime’ Pecorino Superiore Abruzzo Doc 2022 giallo paglierino luminoso, su fiori di ginestra, mela, susina ed allungo salmastro finale.
Mammouth Montepulciano d’Abruzzo Doc 2019 dai riflessi rubino con un corredo di prugna acerba,  ciliegia e frutti di bosco. Seguono in successione spezie scure calde e persistenti.
Negus Montepulciano d’Abruzzo Doc 2017 rosso granato con naso speziato tipico e tanta frutta di bosco matura. Chiosa su fave di cacao, tabacco e liquirizia con tannini setosi e sorso durevole. 

Valle Martello

A poca distanza dal centro abitato di Villamagna. Fondata nel 1979, di proprietà dei Fratelli Masci, è giunta anch’essa alla terza generazione. Si estende su una superficie vitata di 50 ettari, di cui 3 destinati al Villamagna Doc, con vigne su due colline prospicienti, un vantaggio sia nella diversità delle annate. In conversione biologica, coltivano Montepulciano d’Abruzzo, Cococciola, Pecorino, Malvasia e Trebbiano. L’allevamento è il filare. Oltre a degustare i vini, abbiamo degustato anche alcuni piatti tipici abruzzesi, deliziosi e sapientemente preparati. 

I vini degustati 

Brado Cococciola Colline Teatine Igt 2022 riflessi giallo paglierino, emana nuance di fiori d’acacia, frutta esotica e cedro. Sorso assolutamente fresco e gradevole.

Villamagna Doc 2019 rosso rubino impenetrabile, al naso evidenzia la classica amarena da pasticcino, accompagnata da frutti di bosco, bacche di ginepro e pepe nero in grani. Molto generoso e persistente. 

Pian Di Mare

La Cooperativa Vitivinicola Pian Di Mare è stata fondata nel 1984 da 7 soci conferitori ed attualmente ne vanta oltre 70. Solo di recente hanno cominciato ad imbottigliare le proprie etichette sulla base delle uve prodotte. La nuova Cantina, inaugurata nel 2014 é stata costruita su un antico vigneto, le cui barbatelle, dopo essere  espiantate, sono state inviate ad un vivaista locale per dare vita al clone Pian di Mare. Dispone di 220 ettari vitati, di cui 6 destinati alla Doc Villamagna. Seguita dall’enologo Romeo Tarabborrelli e dall’agronomo Carlo D’Onofrio che ricopre anche il ruolo di Presidente della Cooperativa Sociale. Le uve subiscono  tre differenti selezioni, secondo la carica antocianica. All’interno della Cantina ha avuto luogo anche una Masterclass guidata da Manuela Cornelii, comunicatrice e relatrice dell’Associazione Italiana Sommelier.

La Masterclass

Prima di passare all’analisi sensoriale dei vini, sono intervenuti il Presidente del Consorzio Tutela Vini d’Abruzzo Alessandro Nicodemi, Luciano Villabio consigliere del Consorzio Tutela Vini d’Abruzzo ed il sindaco di Villamagna Renato Giovanni Sisofo.

I vini in degustazione 

Pian Di Mare – Villamagna Doc 2019 – sfumature rubine intense dal naso di ciliegia, frutti di bosco, liquirizia,  cacao in polvere e spezie, morbido e armonioso con tannini setosi. 

Torre Zambra – Villamagna Riserva Doc 2019 – vira verso il granato, tra prugna matura, bacche di ginepro, pepe verde e tostature. Corposo e molto lungo in chiusura. 

Cantina Villamagna – Villamagna Doc 2018 – impenetrabile dagli aromi eterei corredati da mora selvatica mirtillo e liquirizia. Colpisce per il tannino nobile ed elegante.

Cascina del Colle – Villamagna Riserva Doc 2018 – scuro ed ematico, declinato su frutta matura, rosa appassita, spezie fini. Sorso appetitoso. 

Valle Martello – Villamagna Riserva Doc 2017 – rubino vivace, con sentori di visciola, baccello di vaniglia e cacao fondente. Molto coerente e identitario. 

Palazzo Battaglini – Villamagna Riserva Doc 2016 – granato con ancora riverberi rubini, attacco olfattivo di tabacco biondo, spezie dolci, molto gastronomico. 

Peccato dover rientrare a casa…

Sicilia: Marsala Vergine Baglio Florio – Cantine Florio 1833 – un prodotto unico da emozioni storiche

di Silvia De Vita

Ritengo che per predisporsi all’assaggio del Marsala Vergine Baglio Florio – Cantine Florio 1833 (Gruppo Duca di Salaparuta) un vino così ricco di storia, sia opportuno calarsi nell’atmosfera del luogo d’origine e concepire cosa ha reso così sontuoso ed importante questo prodotto!

Tutto nasce in un paesino della costa occidentale siciliana ed in queste righe proverò ad esprimere le mie emozioni provate arrivando in luoghi bellissimi e ricchi di storia. Marsala è stata particolarmente colpita durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, le cui ferite ancora si vedono. L’obbiettivo numero uno, Erwin Rommel, “la volpe del deserto,” si trovava invece da tutt’altra parte, eppure ciò non ha fermato la catena distruttiva che ha portato la storica cittadina ad essere rasa al suolo. Venne ricostruita poi in stile moderno, con i classici canoni e le (ahimè) storture dell’edilizia non sempre regolamentata negli anni del boom.


Ad attrarre l’attenzione a Marsala, sono le insegne delle importanti cantine che celebrano il paese e le sue vigne nel mondo intero: Rallo, Pellegrino, Florio e tante altre. Imboccando via del Fante, si attraversa un passaggio a livello, ed ecco spianarsi all’improvviso di fronte a noi una spiaggia bianca ed un mare azzurro da atmosfere paradisiache. La strada parallela è delimitata da muri alti e bianchi: si intuisce immediatamente che stiamo percorrendo il perimetro di un Baglio siciliano, con un tesoro nascosto oltre quelle mura, un mondo avvolto da un incantesimo tutto speciale.


Dopo pochi metri, si apre una cancellata di ferro battuto nero, imponente con le punte dorate a forma di frecce, a delimitare l’ingresso dove timidamente ci si affaccia per entrare, con la certezza di scoprire una meraviglia ma con l’inconsapevolezza di quanto grande e storica sia! All’epoca della mia visita, 3 anni orsono, venne ad accogliermi il signor Mario, fedele custode con i suoi 60 anni vissuti e la tipica generosità siciliana mescolata alla galanteria di altri tempi. L’interno del Baglio ricorda un palazzo arabo: mura candide con corte centrale che racchiude giardini adornati da piante grasse fiorite, banani e palme accarezzate dalla brezza marina; centralmente una fontana ha preso il posto dell’antico pozzo che per decenni ha fornito acque dissetanti e fresche a colui che con arsura ci si affaccia. Intorno a questa corte si sviluppa la cantina: archi enormi delimitano i vari punti di accesso con portoni antichi e pesanti in legno rossastro.

A guidare gli ospiti all’interno della storia e del mondo Florio è la signorina Aurora, che con passione e naturali doti teatrali conduce per mano il visitatore nei 200 anni di storia. Così, ascoltando le parole di Aurora, in un attimo sei trasportato metaforicamente accanto al fondatore della cantina – Vincenzo Florio – ed un attimo dopo sei un soldato dei mille di Garibaldi e partecipi all’unificazione dell’Italia. Oppure vivi le rivoluzioni locali, diventando una delle tante donne che hanno lavorato alla realizzazione del “Marsala Florio”, e che già negli anni 1860-1880 partecipavano attivamente alle loro lotte aziendali per la realizzazione della prima mensa e del primo asilo nido.

Percorrendo le gallerie di tufo della cantina dove il Marsala e gli altri prodotti riposano nei fusti di legno, talvolta secolari, riesci a sentire il liquore ancora in fermento, lo scambio continuo tra aria e botti, la brezza marina che porta i suoi sali minerali e l’umidità che mantiene il contenuto integro.
La luce all’interno ricorda il colore del tramonto, vengono a mente in questa malinconia bucolica le sofferenze per i bombardamenti che hanno danneggiato le cantine, distrutto le botti e fatto scorrere via il vino mescolato forse, al dolore di uomini, donne, giovani ed anziani, innocenti.

Il Marsala Vergine “Baglio Florio” racchiude un po’ tutto quanto raccontato in queste righe. Invecchia 12 anni in botte prima di essere imbottigliato. L’atmosfera che lo circonda durante la maturazione sta alla base del suo successo. Portando il calice verso il naso è immediatamente avvertibile l’intensità boisé sviluppata dalla sosta in cantina; osservandone il colore si raccolgono i riflessi ambrati e vermigli ed imbevendo le labbra di vino si può riconoscere il sapore della brezza marina che sfiora delicatamente il viso. Il primo tocco lascia la lingua con un lieve richiamo astringente che poi si allarga divenendo velluto su ogni papilla gustativa, come se ci si facesse cullare dai profumi, dai soavi movimenti e dalle intriganti profondità del mare. Alla fine resta l’arsura ed il calore di quella terra magnifica, fatta di estati calde e luminose, risate di donne nei campi, grida dei bambini in gioco nei cortili della cantina, suoni e canti durante la vendemmia.

Un sogno liquido che merita un viaggio!

Il Nihonshu: il Sakè giapponese rapportato alla Dieta Mediterranea

di Gaetano Cataldo

Le tre principali religioni monoteiste del bere fermentato sono inequivocabilmente il vino, la birra e il sake giapponese, a dimostrazione del fatto che il dio Bacco non è mai stato né monotono né monofago, approdando persino nelle terre del Sol Levante per insegnare all’uomo cosa estrarre dal riso (e con cosa) e per brindare al miracolo dell’esistenza.

Esattamente come per sorella birra e fratello vino anche il sake giapponese ha una storia millenaria, da bevanda sia popolare che elitaria: il suo racconto è intriso di cultura, arte, storia e letteratura e riesce ad abbracciare tutte le umane attività, nondimeno religione, bellezza e salute. Insomma il sake non è certo una moda, ma fa decisamente tendenza, se così si può dire, ed accompagna l’uomo nel lungo corso del fluire del tempo, testimoniandone l’evoluzione e contribuendo alla nascita della Civiltà Nipponica.

Il fermentato più famoso del Giappone è diffuso in tutto il mondo. Si pensi che ebbe il suo esordio ufficiale dinanzi al grande pubblico occidentale proprio durante la prima Weltausstellung (Esposizione Universale) del 1873, nell’allora capitale dell’impero austro-ungarico; non soltanto famoso, ma anche prodotto in tutto il mondo, anzi imitato in tutto il mondo! Il sake è entrato di fatto nella quotidianità, ricoprendo un ruolo tanto alimentare quanto edonistico, sulle tavole dei Paesi Orientali e diventando un ottimo pairing per pietanze raffinate d’ogni sorta, persino come ingrediente principale in moltissimi cocktails, come il saketini, capostipite della miscelazione a base del fermentato di riso, inventato nel Queens dallo chef Matsuda nel 1964.

Ma facciamo subito chiarezza: ciò di cui si vorrebbe disquisire nel corso di questo pezzo in realtà si chiama Nihonshu!

Infatti con il termine sake viene indicatomolto genericamente l’alcool, mentre con la parola nihonshu, scritta allo stesso modo e probabilmente inventato dai samurai per diversificare la loro bevanda nazionale dalle altre importate nell’arcipelago, tendiamo a definire un prodotto che deriva dalla fermentazione del riso con aggiunta di acqua e koji, una sorta di spora fungina o muffa. Inoltre, perché lo si possa denominare nihonshu, occorre venga sottoposto a filtraggio, fatti salvi diversi stili di lavorazione e, al di sopra di ogni cosa, deve essere prodotto e imbottigliato integralmente ed esclusivamente in Giappone.

Un po’ di storia…

Con buona probabilità, il casuale processo di fermentazione del riso ha avuto origine in Cina attorno al V millennio a.C. nei pressi del Fiume Azzurro, per quanto altre fonti sostengano  sia avvenuto in prossimità del Fiume Giallo, durante il periodo della dinastia Shang, tra il XVII ed il XI secolo a.C. Nella grande Cina, tre secoli prima della nascita di Gesù Cristo, viene fatta menzione di una particolare muffa per la prima volta nello Zhouli, libro dei riti della dinastia Zhou, che in seguito verrà classificata come Aspergillus Oryzae, ossia quel fungo filamentoso cui si accennava prima e di estrema importanza per l’alimentazione in tutto l’Estremo Oriente.

Ciò non significa che il sake abbia realmente avuto origine in Cina, per quanto la bevanda più prossima ad esso sia il cosiddetto huang-jiu. Solo grazie al know-how cinese sulla coltivazione del riso il Popolo Giapponese ha imparato a sostenersi sulle proprie gambe, diventando una civiltà autonoma, e inventando il fermentato tra il 300 a.C. e il 300 d.C. nella versione ancestrale del kuchikami no zake, fino ad arrivare ai nostri giorni, ai processi innovativi ed alle attuali espressioni di questa iconica bevanda.

Ovviamente è facile immaginare certi abbinamenti col nihonshu: sushi, ostriche e sashimi ne sono un esempio piuttosto lampante e diffuso. E se invece vi suggerissero di sorseggiarlo con la nostra amatissima Dieta Mediterranea?

Statene certi perché lo dico dal 2017: il nihonshu, ed il modello nutrizionale mediterraneo per il quale l’Italia è indiscussa capitale, vanno a nozze!

Intanto cominciamo col rilevare che l’Italia, per gran parte, e il Giappone sono circondati dal mare, hanno uno sviluppo territoriale che si estende in lunghezza e non in ampiezza, oltre ad essere Paesi vulcanici e sismici imbrigliati nella stessa fascia di latitudine.

Va rammentato che tra i Paesi le cui osservazioni hanno dato vita allo studio epidemiologico condotto dal celebre Ancel Keys a partire dal 1957, colui che coniò il termine “Dieta Mediterranea” e ne enunciò i dettami, v’era anche il Giappone. Infatti il Seven Countries Study, ideato, coordinato e condotto per molti anni dal prof. Keys, è stato uno studio epidemiologico di monitoraggio eseguito su oltre 12 mila persone di età compresa tra 40 e 59 anni, appartenenti a 16 aree situate in sette Paesi dislocati in tre continenti. Le analisi ottenute dalle osservazioni fanno riferimento alle relazioni intercorrenti tra abitudini alimentari e malattie del sistema cardiocircolatorio: in via generale, l’incidenza e la mortalità coronarica risultavano decisamente più elevate nelle aree del Nord Europa e del Nord America e più basse nelle coorti del Sud Europa e del Giappone.

Ebbene le assonanze tra la Dieta Mediterranea e la Cucina Giapponese sono evidenti almeno dagli anni ’70 del secolo scorso e sottolineano quanto un consumo di alimenti variegati, privilegiando materie prime di origine vegetale, incluso un sano stile di vita, siano tratti comuni dei centenari del Cilento e del Giappone, seppur con ingredienti differenti ma dallo stesso valore nutraceutico e, talvolta, dal simil profilo organolettico.

Piaccia osservare che, per quanto con sfumature e costumanze diverse, il Popolo Giapponese e quello Italiano amano dare il benvenuto a tavola, proprio perché come nella Dieta l’ospitalità, la condivisione del buon cibo e del buon bere sono elementi inscindibili di un grande, genuino senso di convivialità.

Per quanto si possa giustamente ritenere che natto, salsa di soia, miso e tofu siano elementi “alieni” alla nostra idea locale di gastronomia, è bene ribadire che i Paesi del Mare Nostrum non sono assolutamente estranei ai cibi fermentati: ne sono esempio il kefir, la colatura di alici e le olive in salamoia. Inoltre non è recentissima la diffusione di modelli di ristorazione che fondano la loro filosofia su piacevoli contaminazioni e tecniche come la latto-fermentazione Katsuobushi? Rispondo: bottarga, acciughe sotto sale e la stessa colatura di alici appunto! Tofu? mozzarella o parmigiano reggiano, a seconda del grado di stagionatura della cagliata di soia. Alga Wakame? Puntarelle ed agretti con i condimenti a noi più cari, pomodori secchi e chi più ne ha più ne metta!

La chiave di volta dell’abbinamento è nel fattore umami e nella considerazione che, grazie ad un quinto in meno dell’acidità contenuta mediamente in un vino, il nihonshu non litiga mai col cibo. Insomma crudità sia di mare che di terra, risotti, formaggi, funghi e tartufi, verdure grigliate, salumi, frittate e carni pregiate si offrono piacevolmente al pairing con il nihonshu.

Dunque buon nihonshu a tutti e… kampai!

La Combàrbia: vini con lo sguardo dritto al futuro di Montepulciano

di Luca Matarazzo

Dal 2016 Gabriele Florio ha preso in mano le redini dell’azienda agricola La Combàrbia. La cantina giace a Cervognano, una delle sottozone più prestigiose di Montepulciano (SI) su terreni di origine argillosa e sedimentaria.

In grande trasformazione l’areale nel suo complesso, con produttori frementi di recuperare terreno rispetto alle realtà limitrofe toscane. Un impegno raccolto anche dal Consorzio del Vino Nobile di Montepulciano che sta investendo in comunicazione e molteplici iniziative per diffondere la cultura e la storia di uno dei borghi vitivinicoli più antichi d’Italia. Fa dunque piacere analizzare un nuovo progetto fresco e giovanile, seguito da un guru dell’enologia moderna come Giuseppe Gorelli.

I primi passi avvengono negli anni ’60, per giungere alla svolta con il lavoro di Gabriele Florio che segue pedissequamente i consigli del Gorelli. Fermentazioni spontanee e scelta di utilizzare solo uve autoctone rispetto ai vitigni internazionali. Identità, precisione ed eleganza, in un territorio che coniuga la potenza del Sangiovese di alcune aree più calde e la croccantezza del suo frutto dal tannino irrequieto e dalle acidità elevate, nel limitare del borgo di Montepulciano, ad altitudini ed esposizioni completamente diverse.

La Combàrbia può vantare entrambe le espressioni nei circa 7 ettari vitati, consentendo ai vini di adattarsi alle inclemenze stagionali tra il caldo torrido estivo e le gelate primaverili, con piogge in forte diminuzione. Il Sangiovese, nonostante la sua duttilità ed una parte rustica dura a morire, mal sopporta il clima pazzo specialmente nella fase di maturazione fenolica.

Quando non si riesce a domare, esprime tutto il suo carattere ribelle, con sensazioni verdi ed amare per nulla piacevoli. Produrre, pertanto, vini di eleganza, serbevolezza e pronti da bere al contempo non è cosa semplice ed il duo “G – G” (Gabriele – Giuseppe) ci riesce benissimo.

Veniamo alla degustazione, svolta all’interno della splendida bottaia a misura d’uomo, allestita anche per sala assaggi. Tralasciamo volutamente il bianco da Trebbiano e Malvasia, molto godibile e destinato alle virtù estive, per concentrarci sui rossi proposti, anche con qualche vecchia vintage utile a verificare l’evoluzione stilistica aziendale.

Rosso di Montepulciano 2021: il futuro della Denominazione passa dal suo figliol prodigo, il più giovane di tutti per modalità di affinamento. Ottima freschezza, tipica del Sangiovese, con quel sottile richiamo da ciliegia succosa, agrumi e macchia mediterranea. Le chiacchiere passano in fretta e lui è sempre lì, pronto a farci compagnia come un buon amico.

Vino Nobile di Montepulciano 2019: un old-style nelle sue nuance balsamiche e scure. Ancora chiuso, sente l’annata non semplice e la mancanza di respiro per avere quell’abbrivio finale necessario a dargli lunghezza. In generale presenta un corredo balsamico che porta avanti su ogni cosa, persino sul frutto di bosco iniziale.

Vino Nobile di Montepulciano 2018: più che vecchio stile è un evergreen, con tannini ancora scalpitanti e classe da vendere. Incredibile l’eleganza e la complessità, con una chiosa minerale appagante e seducente.

Vino Nobile di Montepulciano Riserva 2016: niente da dire. L’annata è davvero straordinaria e memorabile. Ci mette un pizzico a carburare nel bicchiere, poi, come il motore di una formula uno, scatta poderoso e racconta di sensazioni ematiche unite a fiori rossi, su finale di erbe officinali. Appetitoso dal primo all’ultimo sorso.

Vini che dimostrano come minor concentrazione possa aiutare, grazie anche ai mutamenti climatici in corso, ad avere prodotti meno opulenti e più dinamici, a tutto vantaggio dell’immediatezza e dell’appagamento complessivo di chi li degusta. Senza mai smarrire la strada del varietale, quel Sangiovese di impronta toscana che non può conoscere paragoni di sorta.

Cibus Connecting Italy 2023: le nostre considerazioni

di Maura Gigatti

Oggi più che mai è importante riscoprire il valore associativo proprio in momenti come Cibus Connecting Italy 2023, manifestazione sulle eccellenze agroalimentari svoltasi a Parma nelle giornate del 29 e 30 marzo trascorse.

L’occasione per esperti ed operatori di settore di poter approcciare un mondo bellissimo, che mi appassiona da quando mossi i primi passi nel campo del food and beverage. Tanti i volti familiari, realtà tra piccole e grandi dimensioni, che fanno del made in Italy un punto fisso da esportare con orgoglio in tutto il mondo.

Semmai, pecchiamo talvolta nel ricordare le nostre abilità e persino nel comunicarle a dovere, cosa che gioverebbe all’intero movimento produttivo. Anche perché da fuori ci osservano e ci apprezzano, persino con un po’ di sana invidia competitiva.

Ben vengano, dunque, gli eventi come Cibus Connecting Italy e molti altri utili a generare fiducia e voglia di proseguire sulla lunga strada della qualità. Gli espositori presenti erano entusiasti e soddisfatti, ottimisti sul futuro, in particolare nell’attuale momento di delicata congiuntura economica.

Già in preparazione la prossima edizione dal 7 al 10 maggio 2024 sempre a Parma, probabilmente con qualche piccola modifica sul format sin qui attuato, ma con la consueta sostanza nei fatti: quelli di una delle fiere più importanti del Belpaese.

Importanti i feedback ricevuti dagli intervistati, di cui faremo breve menzione partendo, in prima battuta, da Antonietta Mazzeo, giornalista, editorialista, Direttore Generale di COER – MTO Emilia-Romagna e membro del consiglio direttivo dell’Associazione Nazionale Le Donne del Vino.

Antonietta Mazzeo

<<Questa edizione – sottolinea la Mazzeo – si rivela dinamica, vivace ed intraprendente. Meno numerosa la presenza complessiva di visitatori rispetto agli anni passati, frutto anche di coincidenze temporali con altre manifestazioni, ma pubblico molto interessato e attento verso le novità. Tutte le regioni italiane sono presenti, una vetrina esclusiva delle nostre eccellenze gastronomiche. Persone e prodotti raccontati da chi vive nel quotidiano il proprio lavoro>>.

Cinzia Romeo

Prosegue sulla stessa linea Cinzia Romeo, export manager di Rizzoli Emanuelli S.p.A. : <<buyers ed operatori ben organizzati, con un rispetto metodico degli orari per gli appuntamenti e la calma necessaria per i dovuti approfondimenti commerciali. Siamo soddisfatti oltre le aspettative per un evento che ci vede da anni protagonisti>>.

Mirco Sbernini

Soddisfazione anche da Mirco Sbernini, direttore vendite di Coppini Arte Olearia e da Ugo Bertolotti, in rappresentanza di Parma Quality Restaurant e Parma Alimentare, soprattutto per gli ottimi riscontri avuti con i paesi Ue ed extra Schengen. Tanti apprezzamenti e la speranza di ritrovarsi il prossimo anno con numeri e fatturati in continua crescita.

Ugo Bertolotti

Qualche numero in conclusione: con oltre 900 brand, 10000 operatori, 3000 buyer da 90 nazioni diverse e 500 nuovi prodotti nel catalogo espositivo, Cibus Connecting Italy rappresenta un’enorme opportunità per instaurare e sviluppare relazioni commerciali a livello internazionale, ma anche per aggiornarsi sulle innovazioni del comparto e progettare il futuro del proprio business.