Irpinia: Sostenibilità, Arte, Passione e Qualità sono di casa alle Cantine Antonio Caggiano

Nel cuore dell’Irpinia, lì dove si compongono intrecci di valli ed alture tra le quali si inerpicano numerosi fiumi e torrenti, la produzione di vino è un’arte che si tramanda da secoli anche alle Cantine Antonio Caggiano

L’accumulo di differenti strati di cenere e lapilli ha dato vita a depositi tufacei, arricchimenti in minerali e presenza di strati del suolo più sciolti, determinando una peculiarità unica per una viticoltura di qualità. Difatti l’Irpinia, oggi, è la provincia campana con la più alta concentrazione di vigneti e può vantare la presenza di ben 3 DOCG: Taurasi, Greco di Tufo e Fiano di Avellino. 

Il territorio di Taurasi, antico borgo Irpino, costituisce il cuore della zona di produzione del Taurasi DOCG. Proprio qui, in questi luoghi pulsanti di colori, odori e profumi, in località Contrada Sala, sorgono le Cantine Antonio Caggiano. Per chi visita l’Irpinia, per chi ama il vino, la storia, l’arte ed il buon cibo, questa tappa è obbligatoria. Questa è terra di un popolo forte e fiero, di tradizioni contadine. E Antonio Caggiano con suo figlio Pino (Giuseppe all’anagrafe) sono uomini degni di questo territorio.

Antonio, geometra di professione, appassionato fotografo e giramondo, fonda la sua azienda dal nulla, con tanta fatica e determinazione facendo sue le parole del padre, saggio contadino: “Se non hai niente, con niente lo devi fare”! Lui ha sempre creduto nella qualità del vino irpino. E quando la maggior parte dei viticoltori della zona erano dediti alla produzione in quantità del vino, lui progettava la realizzazione di vini di qualità. Così dalla vecchia vigna di famiglia – Salae Domini – nel 1990  iniziano i lavori di realizzazione delle sue cantine. Antonio decide di fondare la sua azienda spinto da un incontenibile desiderio di dare voce alla storia e alle tradizioni della sua amatissima Taurasi. L’idea progettuale voleva la realizzazione di una cantina museo, il cui percorso concedesse ai visitatori il racconto del processo enologico in ogni sua fase, con elementi storici e moderni.

Così la cantina viene creata seguendo il profilo del terreno, con una pendenza che consente il travaso dei vini per gravità (la teoria dei vasi comunicanti), con pareti trasudanti garantendo il naturale e corretto grado di umidità e temperatura. Ovunque sono evidenti i materiali recuperati da Antonio grazie al suo precedente lavoro, anche dalle macerie del terremoto dell’80, e riutilizzati tra arte, Interior Design e sostenibilità. Tra le più belle, uniche e originali della Campania, ogni spazio diventa un racconto, ogni angolo, ogni parete, dove è possibile scorgere arnesi e utensili tipici, è testimonianza della pratica di viticoltore: una galleria di opere d’arte di legno, vetro e pietra, alcune realizzate dallo stesso Antonio, altre regalate da amici artisti rende l’atmosfera ancor più suggestiva… tutti materiali di recupero, anticipando di diversi decenni l’attenzione alla sostenibilità e all’applicazione delle 4R.

E’ una interessante passeggiata tra bottiglie a riposo in nicchie ricavate tra le pareti di pietra e barriques dove si affinano i loro grandi vini. Si incontrano elementi sacri come la cappella, un tempio ampio con una grande croce ricavata dai fondi delle bottiglie ed un altare dove ringraziare il Dio Bacco; l’installazione di un presepe accoglie tutto l’anno i visitatori… e poi sedie, tavolini, lampadari, un magnifico orologio, vari elementi di arredo, ricavati dalle assi delle vecchie botti, testimoniano l’arte del recupero di Antonio Caggiano.

Nel ’93 parte la collaborazione con l’enologo il prof. Luigi Moio, rientrato dall’esperienza francese a Digione, con il quale nasce, prima di tutto, una grande amicizia. Tanta voglia di produrre i vini più espressivi del territorio: Il Taurasi, Il Greco di Tufo, il Fiano di Avellino e la Falanghina. Sono entrambi degli entusiasti: vorrebbero che l’Irpinia venisse conosciuta come le Langhe e che l’Aglianico potesse ricevere le attenzioni del Barolo. Un obiettivo molto ambizioso, ma due grandi professionisti come loro possono sognare in grande!

Oggi conduce l’azienda Pino, figlio di Antonio, che attraverso dedizione e rigoroso lavoro in vigna e grazie ad un’appassionata e attenta interpretazione enologica, sotto la guida del padre sempre presente in cantina, ha contribuito all’affermazione di uno stile qualitativo di grande personalità, marchiando l’azienda Antonio Caggiano come grande protagonista dei vini irpini. Padre e figlio, sono le due facce di una stessa medaglia, diversi ma simili, necessari uno all’altro affinché questo luogo mantenga tutto il fascino che lo contraddistingue, due protagonisti sulla stessa tela, importanti allo stesso modo affinché il dipinto esprima il meglio di sé.

L’azienda oggi possiede 34 ettari di terreno vitato e produce circa 180000 bottiglie con equa percentuale tra bianchi e rossi. Il logo delle Cantine raffigura un arco formato da pietre impilate in equilibrio una sopra l’altra a reggere l’intera struttura sovrastante in perfetta armonia; è la celebrazione dell’equilibrio dei vari elementi che caratterizzano e animano un vino.  Le etichette con i nomi dei vini richiamano momenti, curiosità e conoscenze produttive di chi la vita l’ha vissuta a pieno.

Così il Fiano con il suo colore dorato, il finale da mandorla dolce e con le sue belle morbidezze diventa “Bechàr” dall’etichetta gialla richiamando le sabbie calde e dorate del deserto del Sahara; “Devon” con l’etichetta blu è il greco di tufo il cui colore brillante e le cui spiccate acidità e mineralità ricordano i colori e le durezze del Polo Nord…tutti luoghi che l’appassionato fotografo Antonio ha immortalato nei suoi viaggi. Poi  il “Vigna Isca Riserva”, dedicato all’eccellenza enologica di un vigneto nel comune di Lapio, dà il nome ad un fiano la cui complessità dovuta ai sentori floreali, fruttati e di erbe aromatiche è arricchita in note speziate dolci dai passaggi in legno sia in fase fermentativa che di maturazione.

Briolé” invece è il nome attribuito allo spumante metodo classico riconducendo alla briosità delle bollicine e al taglio briole dei diamanti che ne garantisce la brillantezza: è un pas dosé, sia  bianco (da Fiano) che rosé (da Aglianico) con 2 anni di maturazione sui lieviti. Il “Salae Domini” è l’aglianico ricavato dalla vigna da cui tutto è partito: i toni rossi dell’etichetta vogliono omaggiare il suo colore rosso rubino intenso e la percezione nasale dei sentori di frutti rossi, prugne e marasche, accompagnati da note speziate e di liquirizia. Lo stesso aglianico viene prodotto in versione rosata con il “Rosa Salae”, il cui nome riporta immediatamente al colore rosa tenue cristallino, ai profumi di rosa canina e ciliegia, e alla delicata sapidità che con la vivace freschezza conferiscono al vino una grande piacevolezza.

E non possiamo non nominare il “Fiagre”, vino nato dalle nozze tra Fiano e Greco di Tufo, dal color giallo paglierino, che inebria il naso con frutta a polpa bianca e un accento su fiori di pesco, acacia e ginestra ed il cui sorso è equilibrato, pieno con buona freschezza e persistenza media. Il “Taurì”, un vino rosso rubino, con un aroma che ricorda piccoli frutti rossi e neri, pepe nero e peperone verde, un sapore forte con un’accentuata presenza di tannini e un finale aromatico. E per finire il Taurasi “Vigna Macchia dei Goti”, l’oscar di casa, che Luigi Veronelli battezzò il “vino del cuore” di color rubino, profondo e compatto, ricco e complesso al naso per un insieme di profumi fruttati (prugna e ciliegie), a cui si aggiungono sfumature di liquirizia e boisé, sentori minerali e tostati, impreziositi sul finale da un tocco balsamico. Al palato è caloroso, di ottimo corpo, dove i tannini sono robusti ma ben gestiti garantendogli longevità.

Ci sarebbe tanto ancora da raccontare, ma non vogliamo spoilerare altro per non togliere troppa sorpresa a chi vorrà regalarsi una meravigliosa visita e una degustazione accompagnata da buon cibo. Se poi sarete fortunati, potreste incontrare Antonio Caggiano con la sua Nikon sotto braccio a spasso tra i suoi capolavori d’arte, di terra e di vino… un regalo unico che ricorda la frase di William S. Benwell …“Il suono morbido di un sughero che viene stappato dalla bottiglia ha il suono di un uomo che sta aprendo il suo cuore.”…

Beux 2023 i vini del Piave e la storica forma di allevamento della vite “a bellussera”

Il Piave oggi “non mormora”: è invece fragorosa la sua voce sulla valorizzazione del territorio.

Fa scoprire al visitatore attento le proprie tradizioni, la propria cultura, accompagnandolo in percorsi enogastronomici e paesaggistici che lasciano il segno e che parlano di un Veneto orgoglioso e antico; il primo weekend di dicembre ho avuto l’occasione, insieme ad altri wine blogger e giornalisti, di partecipare alla terza edizione dell’evento Beux 2023 dedicato alla Bellussera, antica forma di allevamento della vite, e alle Terre del Piave, organizzato dalle cantine Enotria Tellus, Tenuta Giol, Bonotto Vini, Casera Frontin e Casa Roma.

Un’occasione per conoscere questa zona vitivinicola e la sua gente che porta avanti con determinazione, competenza e passione un lavoro tanto difficile quanto pieno di grandi soddisfazioni. Oltre alle visite in cantina, siamo stati coinvolti in una degustazione alla cieca di vini scelti dai partecipanti, il fil rouge la vendemmia tardiva. Abbiamo dovuto aguzzare ingegno e abilità per cimentarci nell’assaggio di vini dolci e secchi e decretarne il vincitore. Ad accoglierci sabato mattina Anisa e Fabio di Enotria Tellus, giovani e pieni di entusiasmo. Un nome, quello della cantina, che rimanda alla vocazione vitivinicola dell’Italia già nell’antichità. Venne inaugurata nel 2016 ed i suoi vigneti si estendono nel comune trevigiano di San Polo di Piave. I prodotti sono ben curati sin dalle etichette, uniche ed eleganti, create dalla vena artistica di Anisa.

Nella degustazione sono stata rapita dal loro “Viajo” (in veneto viaggio), Pinot Grigio delle Venezie DOC dosaggio zero che sprigiona profumi delicati di fiori bianchi e note fruttate, all’assaggio sapido e minerale. Tra i rossi spicca il “Piradobis” da uve Merlot surmature, Raboso Piave e Passito di Raboso Piave. Vinificato e affinato in anfore di terracotta, il nome nasce dalla traslitterazione di una parola georgiana che significa identità, omaggio alla patria della vinificazione in terracotta. Anche la linea dei Prosecchi: Prosecco Doc Treviso Brut Millesimato e Prosecco Doc Treviso Extra Dry Millesimato esprime un carattere deciso, come il papavero giallo rappresentato sulle etichette, un fiore tenacemente radicato nel terreno in cui vive. Perlage fine e persistente con profumi di gelsomino, mela, glicine.

Da Tenuta Giol la data del 1427 campeggia all’ingresso e qui il tuffo nella storia è assicurato. Questa antica cantina è un complesso che ha resistito nel tempo, circondato da alberi secolari costeggiati da un ruscello d’acqua sorgiva. Qui sono presenti le testimonianze della civiltà contadina di San Polo di Piave. Nel 1919 Giovanni Giol, da poco rientrato da Mendoza (Argentina), dove era emigrato giovanissimo e aveva creato un impero e la più grande cantina del mondo, acquistò dalla famiglia Papadopoulos l’intero complesso: il Castello, il Parco, le Antiche Cantine e un immenso terreno.

E’ Vittorio Carraro, nipote di Giovanni Giol, che ci guida alla scoperta della tenuta e delle cantine, l’azienda è legata alla coltivazione dei vigneti e alla produzione di vini DOC del Piave. Durante la visita scopriamo gli edifici storici: il vecchio caseificio e l’enorme granaio, si respira l’aria della vita quotidiana vissuta negli anni trascorsi e le vicissitudini tra le due guerre. Vittorio ci racconta di come il massimo rispetto per l’ambiente e la ricerca continua della qualità lo abbiano portato alla produzione di vini biologici e vegani nel rispetto della tipicità delle uve, vini genuini e autentici.

La visita alla Cantina Granda e alle cripte di invecchiamento è molto suggestiva, diversificata la proposta enoica: da vini prodotti con vitigni resistenti (Bronner), agli eleganti Prosecchi; dai bianchi Pinot Grigio e Chardonnay che regalano una piacevole beva, ai rossi Merlot e Cabernet Sauvignon che trovano in questo territorio un’ottima interpretazione. Una chicca il loro 1427 spumante Metodo Classico di Raboso che riposa per 40 mesi nella parte più antica delle cantine.

Parlando della Tenuta Giol una digressione è d’obbligo per dare qualche cenno sul fiabesco castello che appartiene alla famiglia. Un antico palazzo in stile neogotico inglese e un parco storico realizzato attorno al lago. La struttura attuale risale al 1865 ed era la residenza di campagna della famiglia Papadopoli, venne incendiata sul finire della Grande Guerra, nel 1921 fu acquistata e ricostruita nelle parti interne dal commendator Giovanni Giol. In questa splendida cornice si è tenuta la cena di gala dell’evento BEUX dove i vini delle cantine ospitanti accompagnati da dell’ottimo cibo hanno deliziato noi commensali.

Finalmente arriva l’incontro con la Bellussera da Tenuta Bonotto. Riccardo Bonotto ci conduce nei vigneti con il trattore, addentrarsi sotto i tralci, ascoltare la storia di questa famiglia che dal 1870 porta avanti con dedizione l’attività vitivinicola, è veramente emozionante. Ma cos’è la Bellussera? E’una tecnica di allevamento della vite ideato alla fine dell’800 dai fratelli Bellussi proprio in questa zona, prevede un sesto d’impianto con pali di legno alti quattro metri e collegati tra loro con fili di ferro disposti a raggi, una vera opera d’arte.  

lo scopo era quello di combattere il flagello della peronospora e di sfruttare al massimo le risorse della terra: nei larghi corridoi dell’interfilare potevano essere coltivati ortaggi e, se le viti venivano maritate ai gelsi, si potevano utilizzare le foglie delle piante per allevare bachi da seta. Il vigneto si trasformava così in un piccolo eco-sistema di coltivazioni agricole integrate, che doveva garantire la sussistenza di famiglie molto numerose.

La degustazione in cantina, accompagnata da rimandi storici, è molto interessante: il Manzoni Bianco che regala profumi floreali, un vino fine e delicato; Il rosato leggermente mosso prodotto con uve Manzoni Moscato, un sapore armonico e vellutato; il Raboso che viene vendemmiato tardivamente così da ottenere una lieve surmaturazione in pianta, vitigno identitario della zona del Piave, complesso ed elegante con una grande struttura.

Il Raboso fu largamente diffuso fino al 1949 nell’area della riva sinistra del Piave. Successivamente a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta gli agricoltori iniziarono a preferire le varietà internazionali più richieste dal mercato e il Raboso finì per essere quasi dimenticato. E’recente la sua riscoperta anche grazie al grande interesse che si è sviluppano negli ultimi anni verso i vitigni autoctoni e alla perseveranza delle cantine della zona che lo stanno facendo riemergere dall’oblio.

Gli assaggi che ci riserva Casa Roma- Peruzzet spaziano dai vitigni internazionali agli autoctoni, mi soffermo sulla loro Marzemina Bianca, una vera perla enoica, un vitigno di antica coltivazione presente nella pianura trevigiana già dal 1700. Regala un vino dal gusto fresco e asciutto con profumi floreali e una piacevole mineralità.

Di Casera Frontin il loro Spumante Brut Nature è una piacevole scoperta: vitigni resitenti, Bronner, Johanniter, Pinot Grigio e Solaris. Delicate note floreali e fruttate, sensazioni fresche e minerali fanno di questo vino, che affina in anfore di terracotta, un inno alla natura e alla biodiversità.

Sono stati due giorni intensi che mi hanno regalato un’esperienza immersiva in questo territorio e tra la sua gente. Una zona coinvolgente che invito a scoprire.

Prosit!

Librandi: la strepitosa verticale del Megonio dedicata a un grande dei vini del Sud Italia

Di elogi sul compianto Nicodemo Librandi si potrebbero scrivere intere enciclopedie. E manco basterebbero nel certificare quanto abbia spinto in avanti il futuro enologico di tutto il comparto vini del Sud Italia, non soltanto quello della sua amata Calabria, con spirito di ricerca, sacrificio e viaggi al limite dell’umana resistenza. L’amore per la terra (sempre troppo bassa), curata fino a identificarla come un caro componente della famiglia.

Paolo Librandi

Per il sottoscritto era un atto dovuto d’amicizia e riconoscenza recarmi dal figlio Paolo, che conobbi anni fa durante una sosta estiva in quel di Cirò Marina, per una visita piena di ricordi, speranza e gioia di quest’azienda simbolo dell’unione tra quantità e qualità al contempo.

La storia del Megonio nasce ancora all’epoca di Severino Garofalo, enologo di punta per i vini meridionali. Epoca dove le Cooperative Vitivinicole Sociali acquistavano uve solo in base al grado zuccherino elevato. Librandi proveniva da tutt’altro settore; si attivò con il fratello per iniziare un progetto ambizioso da imbottigliatori di vino e non semplici conferitori. Iniziarono dalle varietà cosiddette internazionali, prendendo via via coscienza del potenziale ancora inespresso degli autoctoni regionali. Memorabile e premiatissimo il Gravello, la loro idea visionaria di blend tra Gaglioppo cirotano e Cabernet Sauvignon.

Qui il percorso con Garofalo termina, per iniziare quello con il consulente Donato Lanati, innamorato da subito del Magliocco Dolce proveniente da un campo collezione sperimentale dalle vigne di Duca Sanfelice. Le prime quattro barrique della vendemmia ’95, tra le migliori vintage di sempre, gli piacquero così tanto da creare un vino esclusivo dal nome altisonante, Magno Megonio, personaggio illustre dell’epoca romana il cui testamento rappresenta la testimonianza della cultura del vino in Calabria.

Un vitigno che non conosce molti luoghi vocati a garantirne le migliori performance. Non ama i declivi di riporto alluvionale a fondovalle, preferendo ad essi le colline argillose rivolte alla luce del sole. Ama il caldo e la ventilazione, teme umidità e freddo soprattutto nella fase di maturazione antocianica. Non è una macchina da uva: ogni tralcio, se ben allevato, dona al massimo 700 grammi di grappolini serrati e compatti.

Il nostro viaggio all’interno di questo principe di Calabria comincia alla francese, dalla versione più matura a quella più giovane, e sarà un percorso denso di emozioni altalenanti tra la dolce malinconia e l’entusiasmo puro.

Magno Megonio 2001: grande potenza agrumata, scatta pronto al colpo dello starter, poi rallenta col passare nel tempo nel calice. Averne di tannini così palpabili dopo 22 anni. Una carezza in un pugno.

Magno Megonio 2002: balsamico da foglie di menta essiccate, amaricante sul finale. Sorso scuro e pepato, ha sacrificato il meglio di sé sull’altare del tempo.

Magno Megonio 2009: lampone, anice, incenso. E poi ribes, nuance mediterranee su finale da liquirizia e torrefazione. Blend da differenti parcelle, anche se la Vigna Pleo della Tenuta Rosaneti comincia ormai a recitare il ruolo da indiscussa protagonista per il futuro.

Magno Megonio 2012: sanguigno nell’espressione autentica del termine. Frutta calda e succosa, con riverberi di grafite. Un tannino setoso di fattura smagliante.

Magno Megonio 2015: tende alle sensazioni acerbe, seppure in un quadro di agrumi gialli, cannella e salinità. Dualità con la bocca possente e matura.

Megonio 2016: scie di menta piperita, zenzero e arancia sanguinella. Trama tannica irsuta, manca solo un po’ di polpa in chiusura. Conferma l’annata in chiaroscuro, forse troppo celebrata agli inizi e invece difficile da leggere e decifrare in tutta Italia.

Megonio 2019: la perfezione. Fuori da ogni schema e confine stilistico. Corredo di melagrana, erbe officinali, emazie. Un rapporto qualità-prezzo (circa 12 euro in cantina) di una bellezza infinita.

Megonio 2020: parte su petali di rosa rossa, virando verso canditure e accenni minerali. Si muove sinuoso con eleganza al palato.

Megonio 2021: materico, denso, ricco. La conclusione del cerchio per i Librandi, con un vino che punta dritto al cuore. Giusta la componente alcolica ben integrata ai tannini saporiti che richiamano il bosco. Annata davvero felice: un brindisi al viaggio senza fine di Nicodemo, con lo sguardo sorridente a ciò che ancora deve venire.

Barolo: Bartolo Mascarello “fieramente piccoli fieramente tradizionalisti”

Via Roma 15, Barolo (CN)

Bartolo Mascarello, tra le cantine pilastro di sua Maestà Barolo, si trova proprio dietro il portone di una casa qualsiasi. Una di quelle case in cui si nasce e si muore, in cui si conservano fatti e memorie, una di quelle case che ti fanno chiudere gli occhi per immaginare cosa doveva esserci qui intorno un centinaio di anni fa, molto prima che le piole diventassero osterie glamour, quando le colline di Langa erano percorse a piedi solo da contadini e non da turisti alla ricerca di un selfie scenico tra filari di vite.

La Storia

Al tempo in cui Giulio Mascarello rientrò dalla Grande Guerra: “Nel 1919 mi congedano. Arrivo ad Alba con due soldi, mi faccio portare da un break fino a Gallo, poi proseguo a piedi verso Barolo. A sentire quel profumo di fieno rinasco. Entro in casa, stanno scodellando un minestrone delizioso. Mi dico: “Barolo è ancora il posto migliore che esiste al mondo”. Decido di restare a Barolo per sempre, divento un produttore di vini” (tratto dal libro “Il mondo dei vinti” di Nuto Revelli edizioni Einaudi). 

Nasce la Cantina Mascarello, quella che oggi porta il nome del figlio di Giulio, Bartolo, e Maria Teresa; la nipote prosegue l’opera rimanendo fedele a un’idea di Barolo radicata in questa casa, come il piede di vite che ci accoglie nella corte: saldamente piantato a terra, aggrappato alla ringhiera del balcone, ramificato verso il cielo.

Sarebbe riduttivo parlare di questa minuscola realtà produttiva – e in particolare della figura di Bartolo – solo in relazione alla rivoluzione dei Barolo Boys che una quarantina di anni fa scosse dalle fondamenta la cattedrale di tutti i vini italiani. La barrique venne preferita alla tradizionale botte grande, con tempi di macerazione più brevi e maggior concentrazione di sapori e profumi. L’essenza della cantina Bartolo Mascarello si traduce, invece, nell’espressione usata da Emanuele Jorio, “Fieramente piccoli, fieramente tradizionalisti”, caposaldo indiscusso di un certo modo di pensare il vino, non quale sterile resistenza a qualsivoglia innovazione.

È proprio Emanuele Jorio, collaboratore da sempre della famiglia, a guidare la nostra visita in cantina, che inizia da un tour virtuale dei 5 ettari di proprietà: solo uno in più rispetto ai 4 originari, acquisito dopo gli anni ‘30 del secolo scorso, quando Giulio non era ormai più da tempo un semplice conferitore di uve, ma un produttore di vini. I cinque ettari sono divisi tra cinque diverse MGA (Menzioni Geografiche Aggiuntive), quattro nel comune di Barolo, una nel comune di La Morra: San Lorenzo – Ruè – Cannubi – Monrobiolo di Bussia – Rocche dell’Annunziata. Una produzione totale che non supera le trentacinquemila bottiglie annue, delle quali diciottomila di Barolo, le restanti suddivise tra Langhe Nebbiolo, Dolcetto, Barbera, Freisa.

Facciamo un solo Barolo, da 104 anni”, ci racconta Emanuele. Niente Cru, niente esaltazioni di singole vigne, ma blend di uve provenienti da più MGA. “Il Barolo storicamente era concepito come un incontro di vini”. Caratteristica che in epoca di cambiamenti climatici rappresenta un punto di forza:  “Settant’anni fa si conosceva benissimo quali erano le posizioni delle vigne, senza bisogno delle MGA e si usava la filosofia di far incontrare più vini per ottenere equilibrio”. Solo in questo modo è possibile esprimere coralmente il territorio. A questo proposito, la cantina opera la co-fermentazione delle uve, resa possibile dal fatto che le varie parcelle di vigna, trovandosi in posizioni abbastanza vicine le une alle altre, giungono a maturazione quasi contemporaneamente. Questa pratica prevede il riempimento graduale delle vasche di fermentazione con uva quanto più possibile integra (in cantina successivamente alla selezione si usa solo la diraspatrice), man mano che le singole vigne vengono vendemmiate. Il successivo blend fa in modo che i diversi caratteri dei vigneti singoli si integrino al meglio, valorizzandosi l’un l’altro.

Entriamo quindi nei locali di fermentazione: prima dell’affiancamento di Bartolo a Giulio nella conduzione dell’azienda, avvenuto subito dopo la guerra, qui c’era una stalla. La trasformazione nei locali dove avviene la fermentazione delle uve è stato l’ultimo intervento strutturale rispetto alla conformazione originaria della casa-cantina, contestuale all’acquisto delle cinque vasche in cemento ancora in uso. L’impiego dell’acciaio non è contemplato, se non per brevissimi passaggi delle masse di vino, durante le varie fasi della vinificazione. Dolcetto, Langhe Nebbiolo, Freisa e Barbera, fermentano in cemento, per il nebbiolo da Barolo invece si utilizzano sia tini in legno che vasche in cemento. Durante questa fase si operano esclusivamente rimontaggi e a fine fermentazione il nebbiolo da Barolo subisce un’ulteriore fase di macerazione post fermentativa, a cappello sommerso o a rimontaggi, di durata variabile.

Poi solo botte grande

Le botti di rovere di slavonia di diverso passaggio vanno dai 20 ai 50 ettolitri. Lo stile del Barolo di Mascarello non ricerca dal legno aromi particolari, ma soltanto la micro ossigenazione necessaria al vino per il suo armonico sviluppo.  Il nebbiolo atto a diventare Barolo riposa qui per non meno di 34 mesi e prima di terminare il suo affinamento in bottiglia, dove rimane un anno, viene nuovamente ricostituito in un’unica massa in vasca di cemento.

Anche gli altri i vini della cantina Mascarello, dopo la fermentazione, prevedono un periodo di sosta in legno grande non inferiore ai 9-10 mesi, compreso il redivivo Dolcetto. Questo varietà autoctona piemontese, che talora ha smarrito la propria identità, viene troppo spesso relegato in porzioni di vigna meno favorevoli per far spazio al blasonato Nebbiolo. Chi ha scelto questa strada è stato dunque costretto a interventi drastici in cantina – come l’utilizzo esclusivo dell’acciaio e l’imbottigliamento a cinque mesi dalla vendemmia – che a lungo andare ne hanno snaturato il carattere. Ma non qui, dove le viti hanno mantenuto la loro posizione originaria e la vinificazione avviene secondo tecniche tradizionali.

Terminiamo la nostra visita in cantina nella riserva di famiglia, dove vengono conservate le annate storiche a partire dagli anni quaranta, comprese le bottiglie con le etichette disegnate a mano da Bartolo, quando la malattia lo aveva definitivamente costretto lontano dalla vigna. “Questa cantina è parte integrante della casa”, conclude Emanuele “quando abbiamo fatto i locali nuovi, avremmo potuto trasferirla, ma non l’abbiamo fatto: 104 vendemmie sono passate di qua. Non so spiegarlo in maniera razionale, ma anche questo fa parte della nostra idea di vino”.

E come avrebbe potuto essere diversamente? Ci troviamo sotto il corpo principale della casa dove sono nati Giulio e Bartolo,  proprio dove affonda le radici quel piede di vite che ci ha accolto al nostro arrivo.

Perché il vino è la radice di questa casa e questa casa è la radice del vino.

La Degustazione

Freisa 2021

La Freisa è probabilmente originaria delle colline torinesi. Nelle langhe del Barolo è vinificata da una decina di cantine storiche per un totale di 22 ettari su 2800 complessivi vitati. Esiste una parentela col nebbiolo sotto il profilo dell’acidità e del tannino, mentre dal punto di vista olfattivo è più rustica.

La 2021 è stata imbottigliata nell’estate 2022 dopo 9 mesi di legno e  un anno di bottiglia.

Il naso urla immediatamente frutta! Lampone, ciliegia e arancia, che ritornano come caramella gelée dopo il sorso. In bocca è una lama affilata, rinfresca quasi fino a bruciare le gengive, diventando immediatamente pieno e saporito. Infine asciuga in maniera indiscutibile. Al coup de nez ritorna la prugna.

Barbera 2021

La vecchia vigna di Barbera del Cru San Lorenzo è stata espiantata nel 2020 a causa della flavescenza dorata. Maria Teresa l’ha reimpiantata nel 2022, ma nel frattempo, e fino al 2026, le uve per ottenere questo vino sono acquisite da produttori nella zona di Barbaresco, con cui c’è condivisione di idee di conduzione e pratiche biologiche in vigna. La Barbera di casa Mascarello può fare macerazione sulle bucce a fine fermentazione. Bassa in tannino, tra le sue caratteristiche annovera la freschezza vivace, elemento portante per un vitigno che ama il caldo.

Il naso è scuro di more di rovo; seguono prugna, arancia bionda e un accenno di spezie dolci.

Al sorso la freschezza è un nerbo vibrante, che evidenzia immediatamente il contrasto tra naso e bocca, per poi distendersi fino a diventare succosa.

Barolo 2019

La 2019 è stata un’annata fresca o per lo meno più regolare, senza picchi di calore estremo, rispetto alle quattro successive. Ultima annata in cui manca la vigna San Lorenzo, la vendemmia è stata fatta nella seconda settimana di ottobre, con macerazione post fermentativa per rimontaggi.

Elegante sin dal colore rubino scarico tipico del Nebbiolo, al naso è un susseguirsi dinamico di rimandi olfattivi, che partono dalla salamoia salata, al goudron, alle note viniliche per poi aprirsi maestoso sui fiori scuri, arancia dolce, anice stellato e accenni di polvere di cacao.

In bocca entra in punta di piedi per poi distendersi completamente sulla scia di un tannino delicato ma presente e chiudere su un finale di zenzero e arancia. Bello sin da ora, sicuramente destinato ad una lunghissima evoluzione.

Bartolo Mascarello

Via Roma, 15

Barolo (CN)

LIFE OF WINE 2023: un viaggio tra i ricordi delle annate che furono

Life of Wine 2023, atteso con fervore da appassionati e esperti di vino, ha nuovamente brillato in tutta la sua magnificenza grazie all’abile organizzazione di Roberta Perna e di Studio UMAMI. L’evento del 3 dicembre, presso l’Hotel Villa Pamphili a Roma, è stato un autentico trionfo dedicato all’evoluzione del vino nel corso del tempo.

La giornalista Roberta Perna con Alberto Chiarenza autore di 20Italie

Nonostante le sfide legate alla viabilità delle domeniche green, il pubblico ha risposto numeroso confermando che Life of Wine è ormai un appuntamento imperdibile per gli intenditori e gli amanti del vino. Al di là dei dati di affluenza e partecipazione, la manifestazione si è distinta per la sua importanza. Una giornata che ha offerto l’esperienza straordinaria di potersi immergere in una selezione di cantine degne di nota. Verticali storiche di etichette senza tempo e senza pari. c

Quest’anno, la presenza di piccoli e talentuosi produttori è emersa maggiormente, aggiungendo quel tocco di eccellenza in più. Life of Wine ha inoltre confermato che la passione per il vino è una forza inarrestabile, capace di unire intenditori, produttori e appassionati in una celebrazione unica, che continua a far brillare la cultura enologica nella città eterna.

Gli assaggi

Metodo Classico Trento DOC di Lucia Letrari “Quore”

Tra le colline a nord di Trento sorge la storica Cantina che ha scritto le prime pagine del successo del Metodo Classico di quella valle, insieme al visionario Giulio Ferrari. Il Metodo Classico Trento DOC di Lucia Letrari Quore, un Blanc de Blanc Grandi Millesimi di Chardonnay, invecchiato per 60 mesi sui lieviti ha recitato il ruolo di protagonista nel mondo degli sparkling d’autore.

La storia della famiglia Letrari è intrecciata con quella del Metodo Classico. Quore vuole essere una celebrazione di quattro annate straordinarie, dalla vibrante annata 2016 e 2015 alle più mature 2012 e 2011. Un viaggio attraverso il tempo, con i millesimi 2016 e 2015 che apportano profumi freschi e fruttati, mentre il 2012 e 2011 offrono una complessità avvolgente, arricchita da sentori di panificazione. Il colore dorato brillante si fa sempre più carico con il passare degli anni, una testimonianza dell’evoluzione e della maturità che avviene nella quiete della cantina. Ogni sorso è un’esperienza sensoriale che avvolge il palato in un abbraccio di eleganza e complessità.

La Stradina a Gattinara conquista il cuore degli esperti

In una piccola comunità ai piedi delle Alpi, cinque amici hanno trasformato il loro legame d’infanzia in un’avventura unica nel suo genere. La Stradina, così chiamata dal punto d’incontro che li ha visti crescere, è diventata il palcoscenico di un sogno condiviso: la produzione di un Nebbiolo elegantissimo.

Mario Mostini, Roberto Petterino, Prospero Biondi, Piergiorgio Cerello e Mauro Cometto, nati e cresciuti nella pittoresca Gattinara, decidono di tracciare un percorso diverso nella loro vita adulta. La decisione cruciale arriva quando, per non perdersi di vista, decidono di acquistare i vigneti di nonno Giorgio, in paese chiamato “Rusét” per via del caratteristico colore rossiccio dei capelli. Con Piergiorgio Cerello, enologo del gruppo, la squadra decide di dare vita a un vino che si distingue per eleganza, rispecchiando le caratteristiche uniche del territorio di Gattinara. Il progetto, nato dall’affetto per la terra e la tradizione, inizia a prendere forma nei vigneti acquisiti dai cinque amici di quasi un ettaro che producono circa 3000 bottiglie.

La verticale

Gattinara 2020: Un’annata che ha sfidato il caldo e la siccità, regalando un vino vigoroso con una struttura eccezionale. Un’esperienza che cattura l’anima di Gattinara.

Balós 2019 – 15°: Con l’annata calda, questo vino si presenta con forza e grande struttura. Un viaggio sensoriale che celebra la potenza del territorio.

Rusét 2009: Intensità olfattiva sorprendente, un ventaglio di aromi che incanta i sensi. In bocca, un viaggio di sensazioni uniche che raccontano la storia del 2009.

Rusét 2011: Connotazioni fresche e tanniche, note scure che dipingono un quadro gustativo raffinato. Un’annata che incanta con la sua complessità.

Rusét Cru Vigneto San Francesco, 2018 (migliore assaggio): Il culmine dell’eccellenza. Un’opera d’arte enologica che incarna il meglio di Gattinara. Un assaggio che lascia senza parole.

Rusét Cru Vigneto San Francesco, 2015 Riserva: Un inno al tempo, una riserva che racchiude l’anima di un territorio in ogni goccia. Un’annata che si fa ricordare.

Gini: storia di passione e tradizione a Soave

Nelle colline pittoresche di Monteforte d’Alpone, provincia di Verona, si snoda la storia della famiglia Gini, custode di una tradizione vinicola che si tramanda da ben 15 generazioni. Oggi Sandro e Claudio Gini guidano con passione e dedizione le sorti dell’azienda, portando avanti l’eredità vitivinicola con un tocco di innovazione e rispetto per la natura. Un tratto distintivo che rende unica la produzione Gini è la decisione pionieristica risalente al 1985 di abbandonare l’uso di anidride solforosa nella vinificazione. La vendemmia, momento cruciale nel ciclo vitale della vite, è inoltre gestita con una cura artigianale in tre periodi distinti. Questa strategia consente di vinificare uve in momenti diversi di maturazione, garantendo un perfetto equilibrio tra freschezza e grado zuccherino.

Gli assaggi

La Froscá 2021: Una sinfonia di freschezza e note floreali, con accenni di frutta a polpa bianca. Il 2021 si presenta come un’ode alla purezza e alla leggiadria, un Soave Classico DOC che incanta i sensi.

La Froscá 2019: Un frutto più maturo, ma sempre intriso di una freschezza distintiva. Profumi avvolgenti di fiori bianchi e frutta accompagnano questo vino equilibrato e delicato. Un’annata che abbraccia l’eleganza.

La Froscá 2013: Un salto indietro nel tempo rivela una leggera nota fumè. In bocca, un vino con corpo e morbidezza straordinari, impreziosito da note di miele millefiori. La perfetta armonia tra freschezza e una leggera sapidità chiude il sipario in bellezza.

Altri migliori assaggi presenti a Life of Wine

Il Colombaio di Santa Chiara – Vernaccia di Sangimignano DOCG 2016

Fontana Candida – Frascati Superiore Riserva DOCG Luna Mater 2019

Muscari Tomajoli Aita 2020

Il Borro – Toscana IGT 2016

Sergio Mottura – Tragugnano 2014

Antonelli Sanmarco – Sagrantino di Montefalco DOCG 2012

San Gimignano: Panizzi e la sua idea di Vernaccia di San Gimignano

Di recente ho visitato l’azienda vitivinicola Panizzi grazie al gentile invito dell’ esperto enologo e direttore di Panizzi Wines, Walter Sovran, al quale va il personale ringraziamento per la gentile accoglienza e per il tempo dedicato. Sono rientrato a casa con un tassello importante che va ad aggiungersi al puzzle enoico.

L’azienda vitivinicola Panizzi è uno storico marchio a poca distanza dalle torri medievali di San Gimignano. Fondata nel 1979 da Giovanni Panizzi, fortemente innamorato di questo stupendo lembo di terra nel cuore della Toscana. Tutto nasce dall’acquisto del Podere Santa Margherita, attorno al quale insisteva il vigneto che darà origine alla Selezione Vernaccia di San Gimignano.

Il desiderio di Giovanni era quello di produrre un grande vino e, dopo circa un decennio, uscirà con l’annata 1989 con la prima bottiglia. Da allora questo vino prodotto in tipologia annata, selezione e riserva verrà apprezzato in tutto il mondo raggiungendo giudizi molto favorevoli e riconoscimenti importanti dalle più autorevoli personalità del mondo del vino nazionali ed internazionali.

Nel 2005 la proprietà passa a Luano Niccolai, con ulteriori ettari vitati, sino a raggiungere gli attuali 60, di cui 52 produttivi. Dislocati nell’area vocata di San Gimignano, Santa Margherita, Larniano, Montagnana e Lazzaretto, condotti secondo i dettami dell’agricoltura biologica e ciascuno con suolo e varietà di altitudini ed esposizioni. Una vigna, Pian dei Cerri nel comune di Seggiano alle falde del monte Amiata, sperimenta Sauvignon Blanc, Semillon e Gewuerztraminer. I vitigni coltivati a San Gimignano, oltre alla Vernaccia, sono Sangiovese, Cabernet Sauvignon, Merlot e Pinot Nero.

San Gimignano è una cittadina famosa per le sue torri medievali, Patrimonio dell’Umanità Unesco, che le è valso anche l‘appellativo di Manhattan del Medioevo. Nota per la produzione di vini bianchi e vini rossi e persino zafferano. La Vernaccia di San Gimignano è stata il primo bianco italiano ad essere annoverato con la denominazione di origine controllata nel lontano 1966 e nel 1972 è stato costituito il Consorzio di Tutela con l’obiettivo di preservare e promuovere l’immagine del vino e del suo straordinario territorio, ottenendo nel 1993 la meritatissima Docg.

Si producono, sotto la denominazione San Gimignano Doc, anche vini rossi di buona qualità, e con etichetta Igt Toscana vini rosati e bollicine. La produzione maggiore è riservata alla Vernaccia di San Gimignano che da disciplinare si deve ottenere rigorosamente con almeno un 85% di uve provenienti dal vitigno omonimo. Prevalentemente i produttori prediligono l’ottenimento in purezza, ma possono utilizzare, per un massimo del 15%, anche altri vitigni a bacca bianca purché non aromatici. Ottima la sua capacità d’invecchiare in bottiglia, motivo valido per essere prodotto anche nella tipologia ”Riserva”.

Le sue origini risalgono ai tempi remoti, già citata da Dante Alighieri nella Divina Commedia. Il clima nelle campagne della cittadina turrita è mediterraneo con estati abbastanza siccitose e inverni miti e piovosi. Il suolo è di origine marina, ricco di tufo e argille gialle con presenza di sabbia, tutti elementi che consentono un buon drenaggio e donano ai vini una gradevole sapidità.

La degustazione

Vernaccia di San Gimignano Docg 2022 – Giallo paglierino con riflessi leggermente verdolini,  brillante, al naso sprigiona eleganti sentori di fiori tiglio, ginestra, pompelmo, pera e mela, mentre al gusto è piacevolmente fresco, sapido e coerente.

Vernaccia di San Gimignano Docg Vigna  Santa Margherita 2022 – Giallo paglierino, intenso e luminoso, al naso emergono note eleganti di magnolia e di biancospino, con a seguire una scia di pompelmo, mango e vaniglia. Sorso pieno e appagante, polposo e fragrante dallunga persistenza.

Vernaccia di San Gimignano Docg Vigna Santa Margherita 2020 –  Giallo paglierino con riflessi dorati, vivaci e luminosi. Olfatto su sbuffi di elicriso, melone, pesca, pompelmo e ananas, seguiti da note vanigliate. Palato avvolgente e sapido: un vino verticale e duraturo.

Vernaccia di San Gimignano Docg Riserva 2019 –  Giallo dorato, sprigiona nuance di ananas, melone, banana, scorza di limone e vaniglia. Dal sorso avvolgente, dinamico, rinfrescante e incredibilmente lungo.

Vernaccia di San Gimignano Docg 2014 – Giallo dorato anch’esso, rimanda a note di fiori gialli, albicocca, zafferano e piacevoli agrumi. Fresco, salino, di buona piacevolezza di beva e una lunga persistenza aromatica.

Vernaccia di San Gimignano Docg Vigna Santa Margherita 2013 – Giallo dorato brillante, dipana sentori di fiori di campo, frutta esotica, pepe bianco e sbuffi agrumati. Lungo, vibrante e soddisfacente.

Chiudiamo con una piccola selezione di Pinot Nero

Pinot Nero San Gimignano Doc 2022 – Rosso rubino trasperente, su note di rosa e frutti di bosco, con spezie. Delicato, fresco e saporito.

Pinot Nero San Gimignano Doc 2021 – Rosso rubino trasparente, libera sentori di ribes, lampone e fragoline di bosco. Una vibrazione gustativa che rinfresca.

Ermius Pinot Nero San Gimignano Doc 2020 – Rosso granato trasparente, emana note di viola, ciliegia, mora, prugna e pepe nero, gusto pieno, appagante e generoso.

Ermius Pinot Nero San Gimignano Doc 2019 – Granato vivo, rivela note di frutti di bosco maturi, sottobosco e bacche di ginepro; al palato è setoso, avvolgente e armonioso.

Emilia Romagna: Baccanale 2023 il “sapore Mediterraneo”

Ritorna a Imola, anche per il 2023, il Baccanale, la rassegna annuale dedicata alla cultura del cibo, ormai consolidata da oltre trent’anni, è un attesissimo evento autunnale.

Con un tema diverso ogni anno, offre un programma vario di incontri, mostre, spettacoli e degustazioni, coinvolgendo la città e il circondario imolese. Il cibo diventa protagonista, guidando percorsi culturali ed enogastronomici, promuovendo prodotti tipici e tradizioni locali. Quest’anno viene celebrato il tema “Mediterraneo“, riflettendo la diversità e la ricchezza culinaria dei paesi che si affacciano su questo mare. La dieta mediterranea, unica al mondo, è riconosciuta dall’UNESCO come Patrimonio culturale immateriale dell’Umanità.

Ospite del Baccanale, come novità di quest’anno, il format “Albana buona da matti”, un evento itinerante a cura del Consorzio Vini di Romagna e AIS Romagna, che ha come obiettivo quello di diffondere il vitigno/vino più identitario di questa regione. Degustazioni delle migliori Romagna Albana DOCG, dapprima scremate da una giuria di esperti sommelier ed enologi, e in un secondo momento votate da una giuria popolare.

Come ultimo evento si è svolto come di consuetudine il 29° Banco d’assaggio dei vini e dei prodotti agroalimentari dell’imolese che ha visto coinvolti 109 viticoltori della denominazione Colli D’Imola DOC. 20Italie era lì per voi e ha selezionato alcune bevute da mettere nel carrello degli acquisti.

Terre di Macerato – Brivo – 2021

Una delle ultime novità di Franco Dal Monte, questo taglio bordolese Merlot/Cabernet Sauvignon/Sangiovese che vede la presenza di quest’ultimo in percentuale maggioritaria (60%) e con una particolare vendemmia a scalare per centrare la perfetta maturazione di ogni grappolo. I 3 vitigni fermentano separatamente con macerazioni che arrivano ai 25/30 gg per poi essere assemblati e finire in bottiglia per almeno 1 anno.

Dall’aspetto molto invitante, merito della sua trasparenza e di un colore che vira già al carminio nonostante la gioventù. Percepiamo la fragranza di una susina rossa e l’agrumato di un’arancia sanguinella. Un vegetale che ricorda il cipresso e il sottobosco. Poche cose ma fatte bene, definizione di aromi ed eleganza. In bocca entra teso ma al contempo è un vino ricco, con un tenore alcolico non esuberante ma che comunque si fa sentire. Chiusura piacevolmente amaricante.

Palazzona di Maggio – Non ce n’è – 2021

Alberto Perdisa estrae dal cilindro questa chicca nata per caso da un piccolo appezzamento di Merlot con esposizione sud, le cui uve finiscono solitamente nell’etichetta “Dracone”. L’annata 2017, insolitamente calda, ha portato gli acini alla surmaturazione, con un primo tentativo di produzione di vino passito che ha visto poi il suo perfezionamento nel 2021, proprio l’annata che degustiamo oggi. Fermentazione in acciaio e affinamento in Tonneau da 500 litri per 8 mesi, per poi farsi un anno di bottiglia.

Il colore è qualcosa che ammalia, rosso rubino tenue con una lucentezza da catarifrangente. Naso inizialmente spinto sui terziari: acetone e ceralacca. Nelle successive olfazioni si spazia fra bacca di ginepro, rosa canina, funghi porcini e mirtilli. Questi ultimi, sono il filo conduttore col palato: è difatti una confettura di mirtilli la coccola che ti accarezza la bevuta, con un tannino perfettamente svolto e un’acidità che chiama a gran voce il sorso successivo. È proprio questa freschezza e la non-stucchevolezza a renderlo un vino molto pericoloso…

Branchini 1858 – Albana Metodo Classico – 2019

L’Albana di Marco Branchini la conosciamo molto bene, uno dei primi a sperimentare questo tipo di vinificazione sulla Regina di Romagna. Vendemmia attorno alla 3° settimana di agosto con pressatura soffice e mosto fiore che fermenta in acciaio. La 2019 è stata un’annata molto più integra della precedente e così siamo curiosi di degustare questa novità, che dopo essersi fatta 36 mesi sui lieviti è stata sboccata da appena un mese.

Il colore è un giallo molto tenue con sfumature verdoline che già ci suggeriscono una bevuta fresca e giovane. Il naso è quello varietale dell’Albana ma in una venatura altamente delicata. C’è una parte citrina preponderante che ci parla di pompelmo bianco. Un vegetale fresco di salvia e una mineralità che ricorda il sasso di fiume bagnato. In bocca il dosaggio brut permette di solleticarci una cremosità che però lascia il trono alle durezze: acidità, sapidità ma soprattutto tannino. Finale lungo per un vino veramente gastronomico che ci accende una marea di abbinamenti possibili.

Vini Giovannini – 8000 – 2022

Anche questa è una nostra vecchia conoscenza che non vedevamo l’ora di degustare col vestito del 2022. Una versione che forse si discosta un po’ dalle precedenti, ma assolutamente in chiave positiva. 8000 è un’Albana che fermenta e affina in anfore georgiane, disponibile solo in formato Magnum per un richiamo alla tradizione del “boccione di vino” che si teneva a tavola. Oro zecchino luminoso e una consistenza che suggerisce estrazione rendono il calice molto suadente. Inizialmente percepiamo una leggerissima ossidazione tutt’altro che fastidiosa, che sparisco dopo qualche rotazione per lasciare spazio a un albicocca molto matura e a frutti tropicali come melone e papaja. Il vegetale non è la classica salvia, bensì abete, cipresso, resina. Un naso floreale delicato che ricorda un fiore d’acacia, anche per la sua tendenza mielosa. In bocca entra deciso, e la frutta matura che percepivamo all’olfatto lascia il posto a frutta più fresca e fragrante. Equilibrato da subito. Persistenza da record.

A cena col produttore: Tenuta Stroblhof sulla Strada del Vino un punto fermo per una sosta in Alto Adige

Scegliere l’Alto Adige per le proprie vacanze è da sempre il sogno di molti visitatori. Farlo nella pace delle campagne intorno a San Michele – Appiano (BZ), in compagnia della famiglia Nicolussi-Leck nella loro Tenuta Stroblhof è, senza dubbio, un punto fermo nella proposta enoturistica regionale.

Creare bellezza producendo ricchezza potrebbe essere il motto di questa terra fantastica, dove ogni cosa segue il ritmo delle stagioni e nulla viene lasciato al caso. La Tenuta è nata dal lavoro incessante degli Hanni-Ausserer. Una delle discendenti e moglie di Andreas, la signora Rosemarie è l’esempio lampante di come debba essere concepita l’accoglienza e il rispetto per i clienti.

Camere di lusso, una SPA immersa nel verde della natura preappenninica, con la vista rivolta verso le montagne del Passo della Mendola. Cucina Gourmet di chiara impronta territoriale e cantina vini con le migliori eccellenze che l’Alto Adige sa offrire tra Pinot Bianco, Chardonnay e Pinot Nero. La vena bianchista dell’azienda viene ben compensata dai rossi, nati su suoli porfirici antichissimi, tinti di venature rossastre. Acidità l’elemento dominante, unita a sapidità e lunghezza di palato.

Espressioni taglienti di un clima ancora contenuto, con brezze fresche nelle giornate primaverili, forti escursioni termiche e protezione dalle inclemenze meteo grazie alle ripide cime ravvicinate. L’areale, a detta di tanti operatori del settore, rappresenterà sempre più una zona ideale per la coltivazione della vite a fronte degli attuali rialzi termici. Ma andiamo per ordine.

La cucina

Lo Chef Enzo Bellia, esperienze pluriennali in ristoranti Stella Michelin, parte dalle origini siciliane e riesce a contaminare le tradizioni con le materie prime a chilometro zero e quel tocco di originalità nato dall’amore per gli ortaggi e le spezie del Sud Italia. La sua idea di canederlo, il piatto tipico regionale, presentato in doppia consistenza esprime un concetto che va ben oltre la classica idea di ristorazione da hôtellerie. Potrete seguirne i vari passaggi nel video sottostante.

Sorprendente pure la battuta di manzo con toast di coda di bue alla vaccinara e il gelato all’erborinato con royale di zucca, mirtillo rosso e semi di zucca, per soddisfare anche le esigenze vegetariane degli avventori.

I vini

Andreas e Rosemarie ripongono fiducia nelle scelte enologiche del figlio Thomas, poco più che ventenne, già dall’avvenire radioso. Fermentazioni in legno e successive maturazioni sempre in contenitori di rovere di varie dimensioni. Lo Strahler 2022, storica etichetta di Pinot Bianco prodotta già dagli anni ’90, ha gusto e pienezza con nuance da miele di millefiori, pesca gialla e ananas, su corredo d’erbe mediterranee.

Il Pigeno 2020, un Pinot Nero di razza, dimostra grande versatilità sui toni caldi di frutti di bosco (mirtilli e lamponi), humus e rosa canina. Un’annata felice per equilibrio, con sprint finali tra zenzero e arancia sanguinella. Il Pinot Nero proprio in Alto Adige ha trovato qui la giusta vocazione per raccontare il potenziale sublime e misterioso di una varietà che ha fatto la parte del leone nell’enologia mondiale.

Come non vederlo nel sublime Sepp Hanni 2019, la superselezione di 10 filari scelti tra quelli destinati a fare la Riserva. Ampio, elegante e avvolgente, per nulla fiaccato dall’utilizzo del legno. La croccantezza vira verso sensazioni di confettura, pepe verde e cannella con rimandi iodati di vento di mare. E siamo invece nelle fredde vallate scavate dalle glaciazioni.

Che altro aggiungere?

Buona fortuna Stroblhof e vento sempre in poppa alla famiglia Nicolussi-Leck.

Foto di copertina Ph. Alex Filz per gentile concessione di Tenuta Stroblhof

Merano Wine Festival 2023: “c’è chi dice no”…

Noi vi spieghiamo, invece, il perché dei tanti “sì” e le ragioni per essere presenti alla vera “Festa dell’Enogastronomia”

Festa o Festival, il passo è davvero breve. Dopo mesi di duro lavoro, visite, esposizioni e degustazioni di varia natura, arriva il momento per tutti di resettare la mente e ritrovare la serenità persa. Costi quel che costi si intende, e la tematica del “vil denaro” influirà nel merito del discorso.

Merano Wine Festival è il luogo dove, per un giorno, due e finanche una settimana, le lancette dell’orologio cessano di muoversi. Un immenso parco giochi dove sentirsi come Pinocchio nel Paese dei Balocchi. Espositori di vino, Area Gourmet con primizie provenienti da ogni angolo dello Stivale, masterclass e show cooking appetitosi.

Una sezione dedicata al biologico, biodinamico e naturale ed ai prodotti provenienti dai mercati esteri, come in una sorta di infinito gemellaggio itinerante. L’abile mano di Helmuth Köcher – The WineHunter – il visionario uomo immagine e patron della manifestazione, si è fatta sentire in maniera ancora più pressante e articolata. Merano dovrebbe intitolargli vie, piazze e statue d’oro, anche per buon augurio di altri 100 anni al timone della nave.

Helmuth Köcher ai microfoni di 20Italie

L’indotto comportato in queste 32 edizioni è stato tangibile fin da subito per la cittadina dell’Alto Adige. I miei ricordi d’infanzia della Merano fine anni ’80 cozzano decisamente con la versione aperta all’Europa e al mondo intero dei tempi odierni. Servizi, cura e decoro, che si autoalimentano proprio in simili occasioni, quando ogni angolo diventa meta di incontri, dibattiti e persino accordi commerciali.

E veniamo all’altro tema in corso…

Può una fiera del vino e della gastronomia creare anche vantaggi economici per chi partecipa?

La domanda è tendeziosa si direbbe; la pubblicità è l’anima del commercio e Merano Wine Festival rappresenta una vetrina unica nel suo genere. Ma, come altre occasioni della vita, alla fine conta sempre l’abilità dell’imprenditore, compresa la propensione al rischio di esporsi a sonore fregature. Insomma: la partita Iva non è cosa per tutti (per fortuna).

Ci si potrebbe chiedere, dunque, se il gioco valga davvero la candela. Alla fine, però, sono tutti lì, aziende e comunicatori (stampa inclusa) con numeri mostruosamente in crescita da un anno all’altro. Numeri che costringono gli organizzatori a selezioni cruente al momento degli accrediti, con evidente scontento di chi resta fuori lista. Ormai è una macchina così ben collaudata che non ha bisogno neppure di quella bulimia comunicativa per trovare una propria dimensione o il benestare delle firme d’autore. Facciamocene una ragione ora e per l’avvenire.

Alla fine fa parte del mestiere: “a chi tocca non si ingrugna”. Nelle scelte economiche (legittime) di ciascun operatore, restare fuori dal giro significa un atto di coraggio che non è detto dia risultati sperati; basta non pensarci una volta tratto il dado e non denigrare un evento che, nel bene e nel male, raccoglie consensi ovunque da autentico fiore all’occhiello d’Italia. Chi fa parli, gli altri tacciano.

Abbiamo corso freneticamente tra gli stand, scalino dopo scalino, sui red carpet che conducono ai settori caldi del Merano Wine Festival. Le interviste integrali le troverete cliccando sul seguente link di youtube.

Ne pubblichiamo un estratto in particolare, riguardante due attori importanti dietro le barricate: il professor Luigi Moio, presidente di OIV ed enologo di chiara fama, e l’esperto sommelier comunicatore del vino Davide D’Alterio di Enoteca Pinchiorri, lo storico tre stelle Michelin di Firenze.

Il prof. Luigi Moio
Il sommelier e comunicatore del vino Davide D’Alterio

Non vogliamo convincere nessuno, ma offrire solo spunti per una buona riflessione.

Alto Adige: la cantina Tröpfltalhof di Andreas Dichristin presenta l’etichetta Cornus Mas

Giovedì 2 novembre presso l’azienda biodinamica Tröpfltalhof di Andreas Dichristin a Caldaro (BZ) si è svolta la presentazione, per giornalisti e operatori del settore, di Cornus Mas, etichetta davvero unica del suo Sauvignon Blanc.

Le viti condotte ad alberello sono disposte su tre filari distanziati tra loro dieci metri, in mezzo a un campo di grano, in un angolo del Vigneto Garnellen ( quello che circonda la casa e la cantina). E’ sicuramente la parte più selvatica e naturale, dove cresce inoltre una siepe alta e fitta di corniolo selvatico, che rappresenta una protezione dal mondo esterno e fonte di vita per le piante: Cornus Mas, il nome del vino è un tributo al Corniolo.

L’idea che ha ispirato Andreas era quella di creare un’espressione dell’armonia e sinergia della natura, di quella vitalità che viene ricercata dalla pratica biodinamica; questo è stato possibile nel 2015, quando Madre Natura si è esaltata, nelle maturazioni dei frutti della terra, dimostrando un perfetto equilibrio e una grande energia vitale.

I grappoli di Sauvignon Blanc vengono vendemmiati a mano, le uve fermentano e macerano per 7 mesi in un’anfora dedicata. Dopo la svinatura, il vino torna in anfora per altri 14 mesi, restando sulle fecce fini ed è imbottigliato senza aggiunta di solforosa. L’affinamento avviene nella medesima terra da giunge l’uva: una buca profonda 1,5 metri dove sono state posizionate le 100 (uniche!) bottiglie di Cornus Mas per 5 anni.

Date le premesse, l’aspettativa in sede di degustazione era molto alta e ognuno dei presenti immaginava certo un qualcosa, probabilmente di difficile definizione. L’etichetta nera è molto elegante e si legge il nome del vino scritto in caratteri dorati. Cornus Mas inizia subito a mostrarsi con un luminoso color topazio e un suono definito e acuto mentre raggiunge il bicchiere. La scelta di servirlo a temperatura ambiente (circa 15 gradi) è più che azzeccata, anzi scaldandosi si apre e svela profumi e complessità.

Iniziano le danze, guidata come in un romantico valzer da un principe azzurro, e si distinguono le note di agrume candito, di miele, di albicocca disidratata, di zenzero e incenso, di senape, di camomilla. In bocca si esprime elegante e persistente: le percezioni ritornano vive, come lontani echi. Un vino che ha cavalcato il tempo, di cui è sicuramente amico, vitale e dalla piacevole e raffinata beva.

Se dovessi disegnarlo probabilmente farei un cerchio perfetto, come quello di Giotto, per tradurre la sensazione di essere di fronte a qualcosa di vivo e di vero. La capacità di osservare la natura di Andreas, unita al suo approccio biodinamico hanno dato vita a un vino inimitabile: abbiamo chiesto ad Andreas quando uscirà la prossima annata di Cornus Mas: ha semplicemente sorriso, non sapendo rispondere.

Il momento sarà sicuramente quando quelle condizioni di armonia, equilibrio e vitalità si ripresenteranno. Da allora dovremo ancora attendere 8 anni per assaggiare il vino, ma senza ombra di dubbio… sarà una bellissima attesa!