“Rinascita” – il metodo classico firmato vini Contrada

Assistere alla nascita metaforica di un vino riesce ad emozionare quanto le nascite nei reparti di ospedale. Per un produttore ogni nuovo arrivo è un momento di gioia e di festa, che la famiglia Contrada ha voluto condividere con tanti amici e con noi della redazione di 20Italie. In realtà l’azienda dei fratelli Michele e Gerardo è abituata a scrivere pagine di storia irpina sin dagli inizi del ‘900. Siamo a Candida su terreni collinari ricchi di argille e calcare, dalle tipiche colorazioni biancastre dalle quali deriva l’etimologia del toponimo. Il Fiano di queste terre denota complessità organolettiche unite a doti di serbevolezza che lo rendono resistente allo scorrere del tempo. 

La gamma dei bianchi in versione “ferma” si completa con un’intrigante Falanghina per nulla declinata su scontate deviazioni opulenti di banana. Naturalmente il CRU Fiano di Avellino Selvecorte vintage 2017 da vigne di oltre 40 anni d’età è il vero protagonista nella perfetta espressione di una varietà unica nel panorama ampelografico italiano. Oggi però tralasciamo le digressioni sulle suddette tipologie e sullo splendido Taurasi 2015, finalmente il giusto premio all’impegno profuso nel gestire i difficili rapporti con l’Aglianico d’altura. 

Vogliamo lasciare invece la parola a Mattia figlio di Carmen e Gerardo, che a breve completerà i suoi studi agrari, ma già perfettamente inserito nel progetto vitivinicolo. Ci racconterà in video l’avvento del nuovo nato: il Metodo Classico “Rinascita”. Lo anticipano le parole orgogliose del padre, piene di speranza per il futuro e per il lavoro della giovane leva; i figli, si sa, “so piezz’ e core”. Al termine seguirà una breve analisi degustativa per raccontare il vino dal nostro consueto punto di vista tecnico.

Rinascita Metodo Classico Brut – al momento sosta 24 mesi sui lieviti prima della sboccatura, ma è in progetto anche ulteriore evoluzione fino a 60 mesi. Pochissime bottiglie prodotte che narrano del desiderio di ricominciare a vivere dopo i tempi bui degli inizi pandemia. Molto agrumato e piacevole, ciò che colpisce è la nota officinale soffusa tra salvia e fiori di lavanda, con un sorso finale salino di buona tensione. Gli abbinamenti variano tra i semplici momenti conviviali a quelli gastronomici con pietanze a base di pesce crudo e crostacei. Nessuno a casa Contrada teme la sfida aperta con il futuro.

Al Veritas Restaurant la Campania incontra la Toscana

Avvertenze per l’uso: questo non sarà il solito articolo descrittivo di un evento esclusivo a Napoli al Veritas Restaurant, ristorante da una stella Michelin. 

Abbinare cibo e vino con le culture di due territori profondamente diversi, rispettivamente Campania e Toscana, non può limitarsi ad un elogio edonistico fine a sé stesso. C’è molto di più dietro la facciata del fine dining,qualcosa di molto simile al concetto di arte. Lo chef Carlo Spina e David Landini, general manager di Villa Saletta, ci hanno accompagnato in un percorso intriso di commistioni gustative uniche ed irripetibili. Una sorta di fusione tra la bravura manuale del realizzare piatti capolavoro, come il soffritto di ricciola rivisitazione del soffritto napoletano, o come lo straordinario Saletta Riccardi 2016, vino dotato di una bellezza senza tempo, frutto di una selezione di uve Sangiovese in un appezzamento di 2 ettari. Villa Saletta è in grande ascesa, ben posta sulle morbide colline di Palaia (PI) in Località Montanelli. Un territorio vocato che sta percorrendo piano piano, e nel silenzio della critica a volte miope, i gradini dei vertici della qualità enologica italiana. Ben 1200 ettari in proprietà, grande passione non solo per l’autoctono a bacca rossa cardine dell’agricoltura toscana, ma anche per il Cabernet Franc del 980AD succoso e dalla durevole prospettiva. 

Zero note degustative oggi, ve lo promettiamo! Non vogliamo rubare la scena ai protagonisti, intervistati dal sottoscritto con l’aiuto dell’operatore video Roberto Imparato. Immancabile l’intervento di un autentico luminare del settore come il giornalista Luciano Pignataro, con un’analisi precisa e dettagliata della coinvolgente serata. Buon ascolto

Per cognizione di causa, non resta che riportare in chiusura di articolo il menu proposto.

Piccole delizie iniziali tra le quali spiccano delle delicatissime polpettine di seppia. Sono seguiti in successione:
“OSAKA ROMA” manzo tataki speziato, crema carbonara, caviale di fagiolini, salsa ponzu all’aceto balsamico abbinato ad un succoso Chianti Superiore 2017 dal forte richiamo tipico di ciliegia matura.
Spaghetti al brodetto di pesce alla curcuma, soffritto di ricciola e polvere di aglio nero, ben domato dal Chiave di Saletta 2016, blend in stile Supertuscan molto avvolgente. 
Pluma di maiale Iberico, purea di patata ratta, kefir di bufala e verza fermentata abbinato sia al Saletta Riccardi 2016 che al 980AD 2016. Noi preferiamo la prontezza del primo, pur evidenziando un sicuro riscatto del secondo con il passare del tempo e l’attenuarsi di alcune durezze espressive. 
Semifreddo allo yogurt, lampone fermentato, ananas marinato, gel cocco, coulis di mango e finger lime con petit patisserie, per non farci mancare le coccole finali di una serata ricca di charme e gusto. La Campania merita questo e tanto altro ancora.

Cucina multietnica che va dritta all’Anima

chef Hichame El Mahi.
Nei piatti, profumi, colori e combinazioni creative.
Piatti ricchi di colore e materie prime di montagna combinate con le spezie e i profumi delle terre africane. È la cucina multietnica e sensoriale dello chef Hichame El Mahi del fine dining “Anima” del Sensoria Dolomites all’Alpe di Siusi.

A creare questo dinamismo di proposte ricche di colori e di ingredienti oltre confine per la tipica cucina di montagna, è lo chef Hichame El Mahi del fine dining “Anima” del Sensoria Dolomites all’Alpe di Siusi, hotel quattro stelle superior in Alto Adige.
Le sue origini marocchine hanno oltrepassato le Alpi e contaminato il menu del ristorante con eccellenze gastronomiche di alto livello combinate con le spezie e i profumi delle terre africane. Sperimentazione di piaceri per il palato che coinvolge tutti i sensi.

Alpe di Siusi, 15 settembre 2022 – Tutti pazzi per le spezie, i sapori forti e i colori decisi abbinati nel piatto. La cucina del fine dining “Anima” del Sensoria Dolomites, quattro stelle superior a Siusi allo Sciliar in Alto Adige, si arricchisce di idee e di proposte del territorio dal gusto speziato, forte e decisamente pungente al palato, che accompagna l’ospite in un viaggio sensoriale verso tutti i continenti.

Tutto merito di Hichame El Mahi, chef di origini marocchine e con una lunga esperienza in ristoranti gourmet e stellati in Italia, in Emilia Romagna e Alto Adige, e internazionale in particolare in Francia. Infatti, “Anima”, aperto anche al pubblico esterno, propone una cucina dall’impronta internazionale, ma con forti contaminazioni italiane, per rispondere alle esigenze degli ospiti. Il menu è settimanale e non viene mai replicato; ogni giorno una proposta diversa a seconda della stagionalità dei prodotti, ma anche della creatività dello chef che propone degustazioni di otto portate e relativi abbinamenti vino.

IL MIX DI GUSTI IDEALE
Arrivato in Italia da ragazzo, Hichame El Mahi si è avvicinato al mondo della cucina solo attraverso le sue esperienze lavorative nazionali e internazionali. Poco alla volta si è fatto affascinare e ha iniziato a sperimentare, approcciando il mondo della ristorazione con un suo pensiero: promuovere le eccellenze di un territorio, quello altoatesino, ricordando sempre i profumi e i colori della sua terra d’origine, un crocevia di emozioni e di etnie, combinandola alla nouvelle cousine francese in particolare dalle tipiche creme e mousse che impreziosiscono il piatto.

Da 15 anni in Alto Adige, ha girato molte realtà approfondendo tecniche e conoscenze. Prima di arrivare nelle Dolomiti, ha lavorato in Emilia Romagna, ma anche in Francia a Colmar, dove ha colto le idee della cucina francese. Ha lavorato anche come private chef sugli yacht. «La mia formazione? Sul campo» spiega Hichame El Mahi. «Con la curiosità e la voglia di crescere in questo settore, ho appreso i segreti degli chef. Ho sperimentato combinazioni e nuove tecniche e, a tutto ciò, ho unito la passione e la fantasia».


Nella sua playlist, lo chef ama parlare di Vellutata di ortica servita con raviolo speck e mela Kanzi croccante e schuttelbrot.


Tra i primi piatti i Ravioli ripieni di burrata alpina e confit di pomodorini.


Le carni sono un must, in particolare il Filetto di vitello speck e variazione di carote e porcini, con ingredienti provenienti dalle malghe della zona e verdure raccolte nell’orto, oltre al Manzo rosè servito con verdura ratatouille, profumata con perle di balsamico e fondo bruno.

Hanno un ruolo centrale anche le spezie come la cannella, coriandolo, cardamomo, curry e masala. Per un fine pasto scoppiettante, il dolce, dedicato al Sensoria Dolomites, ossia la Pera Sensoria una morbida proposta con polpa, succo di pera e limone con cannella. Il tutto impreziosito da un mantello di crema ganache di vaniglia del Madagascar montata. All’esterno cioccolato bianco Ivoire Valhrona, burro di cacao e polvere di vaniglia Bourbon, che replicano la vera pera. Lavorare gli alimenti e prima ancora produrli, per lo chef è importante.
La sua brigata realizza direttamente la pasta con impasti di verdure e di spezie. Ha a disposizione un orto da cui raccoglie erbe e piccole quantità di verdure. I suoi fornitori sono piccoli produttori del territorio, una scelta per garantire la qualità degli ingredienti e per conoscerne sempre la provenienza. Non ama definire la sua cucina a chilometro zero, ma “cucina del territorio” perché il rapporto con i produttori è legato alle tradizioni di un Alto Adige agreste, vivo di tradizioni e sempre attento a coltivazioni naturali e biologiche. I dolci sono un altro plus. Vengono proposti in combinata con il maestro pasticcere esplorando le usanze provenienti da tutto il mondo. La selezione di golosità propone anche delle marmellate freschissime e naturali, una piccola produzione fatta in un maso della Val Venosta.

LA SALA E IL PIACERE DI BERE IL MEGLIO


Se la cucina si conferma una sperimentazione, a completare la proposta la dettagliata selezione beverage. Un concetto di ospitalità che si traduce nella grande attenzione per l’ospite che deve essere assecondato in tutte le proprie esigenze. «Amiamo mettere a proprio agio i clienti cercando di comprendere le esigenze che, di volta in volta, si presentano» spiega Lea Oberhofer. «Con i commensali il personale cerca di instaurare un rapporto equilibrato per presentare il percorso gastronomico al fine di farlo vivere al meglio. Amiamo raccontare ogni cosa, ma senza invadere la privacy delle persone. La carta dei vini è sempre in linea con i piatti della cucina». La carta dei vini conta 200 etichette, con grande attenzione alle produzioni dell’Alto Adige. Viene proposta divisa per vitigni e per aziende produttrici. La selezione però è continuamente in movimento in quanto la scelta è quella di andare alla ricerca delle produzioni più blasonate del territorio.

Parlare di food & beverage al Sensoria Dolomites e nel suo fine dining “Anima” significa intraprendere un cammino verso la sperimentazione di piaceri per il palato e che coinvolge tutti i sensi.

Cene in cantina al Dolomiti Wellness Hotel Fanes.

Fino a fine ottobre appuntamenti enogastronomici alla scoperta dei più autentici sapori dell’Alto Adige. Vino e materie prime locali, questi i protagonisti indiscussi delle cene in cantina organizzate dal Dolomiti Wellness Hotel Fanes, in Alto Adige, da metà settembre a fine ottobre. Degustazioni guidate dal maître-sommelier Oriano Federa e creazioni gastronomiche dello chef Claudio de Marc del fine dining dell’hotel. Il 5 stelle di San Cassiano brilla sulla terrazza più soleggiata del paese ed è pronto ad accogliere gli ospiti nella sua raffinata cantina, che vanta 500 etichette e di cui 150 sono altoatesine, palcoscenico di un viaggio sensoriale e gustativo alla scoperta dei più autentici sapori della tradizione enologica e culinaria regionale altoatesina.

In Alto Adige, incastonato nel paesaggio delle Dolomiti Patrimonio dell’UNESCO, il Dolomiti Wellness Hotel Fanes di San Cassiano propone una serie di esclusivi appuntamenti enogastronomici nella sua raffinata e accogliente cantina in legno, alla quale si accede dopo aver percorso un lungo corridoio contornato da botti e illuminato da candele. Occasioni imperidbili, queste, per gustare piatti della tradizione abbinati a nobili vini del territorio e che vedono sommelier e chef lavorare ancor più fianco a fianco per offrire ai propri ospiti un’esperienza alla conoscenza delle eccellenze enogastronomiche dell’Alto Adige.
Conosciuto per i suoi paesaggi senza eguali, l’Alto Adige è meta d’eccellenza dal punto di vista turistico e anche enogastronomico e, proprio per celebrarne la genuinità dei sapori e per farla conoscere ai suoi visitatori, il Dolomiti Wellness Hotel Fanes dà il via alle sue raffinate cene in cantina a partire da metà settembre fino a fine ottobre. A guidare il servizio il maître-sommelier Oriano Federa che abbina sapientemente a ogni piatto il giusto calice di etichette rigorosamente altoatesine; piatti ideati dall’executive-chef Claudio De Marc del 5 stelle di San Cassiano che, utilizzando materia prima locale reperita da produttori della zona e nell’orto della stuttura, rivisita la tradizione proponendo pietanze ricche di gusto e leggerezza. «L’idea delle cene in cantina nasce dalla volontà di esaltare il nostro territorio e farlo conoscere anche per le sue peculiarità vitivinicole e gastronomiche» afferma Oriano Federa. «Chi viene da noi per un soggiorno può godere di paesaggi magnifici, ma anche di piatti e vini eccezionali: l’Alto Adige offre infatti una selezione di vini di assoluta qualità che spesso celano storie interessanti e meritevoli di essere raccontati». Lo chef De Marc aggiunge: «Nella mia cucina non mancano mai prodotti di prima qualità; acquisto sempre formaggi, selvaggina, ultimamente anche molto pesce e valorizzo tutto al meglio, ispirandomi alla tradizione cui sono indubbiamente legato e fondendola a uno stile più moderno. Cosa c’è, poi, meglio di un calice di vino per completare l’esperienza? Per questo io e Oriano desideriamo stupire i nostri ospiti con un menù diverso di volta in volta e di cui non diamo anticipazioni ma dove, assicuriamo, la raffinatezza e la qualità non mancano mai». Le cene in cantina sono un’ottima occasione per trascorrere del tempo con famiglia o amici, radunati attorno a un unico tavolo e immersi nella pace offerta da questo luogo custode di tante ecellenze, illuminato solo dalle luci tenui di qualche candela.
Le cene in cantina si svolgono con un minimo di sei e un massimo di dodici persone una volta alla settimana, da metà settembre fino alla fine di ottobre; sono appuntamenti riservati esclusivamente agli ospiti del Dolomiti Wellness Hotel Fanes i quali, per partecipare, devono effettuare la prenotazione rivolgendosi al team di reception. Sempre alla reception, inoltre, gli ospiti possono informarsi sul giorno in cui si tiene l’appuntamento enogastronomico della corrente settimana. La cena non prevede alcun costo mentre è richiesto un contributo per i vini che varia di volta in volta sulla base delle etichette selezionate.

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lecci e brocchi

Riserva ”il Chiorba” ed il loro progetto per il futuro

Lecci e Brocchi: verticale del Chianti Classico Riserva.

Ricordo ancora negli anni ’90 l’estro di Dejan Savicevic, calciatore del Milan soprannominato “genio e sregolatezza”. Se c’è una regola sacra che ho imparato nella vita è di non parlare mai di calcio e politica, men che meno in Italia. Perché, però, un simile paragone rintuzza da qualche giorno nella mia mente, dopo aver visitato l’azienda Lecci e Brocchi nel press tour organizzato nell’areale di Castelnuovo Berardenga (SI)

Partiamo anzitutto dal territorio: siamo a Villa a Sesta, nei poderi comprati nel 1970 da Vasco Lastrucci detto “Il Chiorba”. All’epoca la Toscana ed il Chianti Classico non vivevano lo splendore dei giorni d’oggi. Le famiglie, superata la mezzadria, fuggivano dalle terre lasciandole ai grandi proprietari, o abbandonandole incolte destinate al massimo alla pastorizia. Qualcuno con la vista lunga rilevava poderi da chi partiva per la città, oppure da enti ecclesiastici ed istituzioni che non sapevano che farsene. Sembra incredibile soltanto a pensarci, ma la situazione non sarebbe migliorata fino alla consacrazione dei Supertuscan che rivitalizzarono l’intero comparto produttivo salvandolo dall’oblio. E il Chiorba in tutto questo avrebbe preferito non svenarsi, scegliendo un terreno fuori dalla storica denominazione, se non fosse stato per la caparbietà della moglie decisa a far di tutto per restare all’interno dei confini del Chianti Classico.

Ecco la saggia scelta di una landa di terra modellata del trascinamento a valle di sedimenti franosi, ricchi in ferro, provenienti da una ex cava. Lì crescevano solo i lecci si diceva, con miopia di chi non aveva notato la composizione particolarmente complessa dei suoli, fatti di galestro, arenarie, argille ed alberese. Il nome della cantina era per metà già fatto, mancava solo “Brocchi” che derivava da una particella non lontana, nei pressi di una fonte di acqua sotterranea, con suoli di impasto da sabbie marine e calcare.

Il “genio” di Vasco si ferma qui, la “sregolatezza” inizia con la figlia Sabrina ed il marito Giancarlo, che ad ogni costo, anche contro la visione paterna, decidono di creare una produzione di vino in proprio con le prime etichette nel 2010. Sabrina, moglie, madre di Giovanni e manager di successo, si accolla un’impresa non facile, cominciare da zero una nuova vita da vigneron senza le basi enologiche per stare al passo con i concorrenti. Scelte ardue da compiere a partire dal rapporto con i professionisti, per proseguire in cantina con spazi e contenitori adatti a dare un tocco di equilibrio. 

In mezzo a tale baillamme l’arrivo di persone competenti e coerenti come Luano Benzi alla direzione enoica e, successivamente, Fabio Burroni a quella agronomica. Le due cose dovevano andare di pari passo se si volevano raggiungere risultati degni di nota. Gente concreta, che lavora nel silenzio, senza clamore, senza lustrini, senza adagiarsi sugli allori. Il cambio di passo è stato notevole, a partire dalla vintage 2017 che rispecchia maggiormente l’identità di Castelnuovo Berardenga espressa negli ultimi tempi. Manca quella parte “rustica” di una volta, rispetto ad espressioni tecnicamente perfette ed eleganti, ma il vino va anche venduto ed uno sguardo ai gusti del mercato bisogna porselo se non si vuol diventare una mosca bianca con le gambe all’aria.

Adesso abbiamo gli strumenti giusti per iniziare la degustazione delle annate del Chianti Classico Riserva Il Chiorba partendo dalle più agée verso quelle recenti.

2010: sfortunati. Due bottiglie entrambe con piccoli difetti dati dal cedimento dei tappi. Il frutto sembra comunque delineato, ma gli elementi in nostro possesso sono pochi per esprimere un giudizio valido.

2011: ancora espressiva. Ricordi di scorza d’arancia amara, tocchi balsamici e flebili tannini. Basta riposo, è il momento di degustarla al massimo della potenzialità.

2012: nota alcolica in evidenza. Come stupirsi da un’annata torrida e siccitosa, preludio del futuro imminente? Si avvia verso prugna cotta, calando nel finale di bocca.

2013: annata straordinaria per Lecci e Brocchi. Vino ematico, lievemente surmaturo nelle nuance di ciliege succose e vibranti. 

2014: nelle vintage fresche si vedono i campioni di razza, basta sapersi accontentare. Non possiamo pretendere lustri di vita, ma la danza tra note salmastre/iodate e fiori viola delicati lascia di stucco.

2016: l’ultima ad essere affinata in botti di castagno da 15 ettolitri. Conferma l’annata a due facce, per alcuni memorabile, per altri ancora indecifrabile. Prepondera un finale amaro troppo incisivo, da rivedere nel tempo.

2017: botti di rovere austriaco e nuova filosofia stilistica. Si ricordano molti vini senza spinta acida per colpa del caldo pazzo estivo, ma che non si avverte in questo assoluto campione di eleganza e tipicità. Lo sbuffo polveroso del Sangiovese non stanca mai, seguito in successione da amarene mature ed emazie.

2018: crudo ed ancorato a sensazioni di sovraestrazione. Necessita molto riposo, pur con un’apprezzabile trama tannica saporita che intriga. Scommetterci? Why not.

Ed ora alcune considerazioni sulle altre tipologie aziendali, cominciando dalla Gran Selezione 2015, attualmente in commercio. Continua quel pizzico di lucida follia nel proporre un vino che normalmente viene immesso in commercio molto prima. Scelta rischiosa, ma condivisibile quella di Sabrina, Giancarlo e Giovanni, che ha consentito ai tannini poderosi del Sangiovese di raggiungere una fase perfetta. Strepitoso nella 2013 ormai esaurita, con quel richiamo a tutto ciò che possa esprimere il varietale: frutto, balsamicità, sapidita.

Al rosato “Meticcio” 2021 non si deve necessariamente chiedere una perfezione tecnica da primo della classe, anzi. Bello avere quel tocco di leggerezza e quell’essere selvaggio, non accomodante e non mellifluo. Le due espressioni ancora in conflitto tra ciò che è ancorato al passato e ciò che guarda il domani: una dicotomia con la quale Lecci e Brocchi dovrà necessariamente far i conti per ambire ai migliori palcoscenici del settore.

Ho volutamente lasciato il Sangiò 2020 a chiudere i sipari per ricollegarmi ai concetti di genio e sregolatezza espressi all’inizio. Sangiovese in purezza vinificato in bianco da solo mosto fiore senza contatto con le bucce in territorio di Chianti Classico. Pochissimi esemplari ed uno sforzo enorme richiesto ad un’uva ricca delle migliori componenti proprio nella sua pelle, in un posto dove il guadagno maggiore lo si fa creando vini rossi da capolavoro. Non discutiamo il prodotto finale che va sicuramente oltre i 90 punti per tecniche ed eleganza complessiva; non discutiamo neppure la volontà legittima del produttore di compiere scelte che molti riterrebbero azzardate. Lasciamo piuttosto la domanda aperta, aspettando una risposta definitiva solo dal tempo e dal mercato.

TerrAntica: una carta dei vini, decisamente interessante.

Uno di quegli indirizzi da segnare per tutte le occasioni ed in tutte le stagioni.
Facilmente raggiungibile, all’uscita di Baronissi sulla A/3, con un parcheggio comodo, giardino privato, veranda e sale interne dal sapore antico.
La proposta della brace negli anni si è evoluta: oggi propone carni di diverse provenienze, soprattutto internazionali, importate direttamente dai paesi di origine.
La sorpresa è la carta dei vini, completa e con grande dovizia di particolari, frutto della grande passione di Alessandro Pecoraro.
L’attenzione dedicata alla Campania è quasi maniacale. È la prima volta e sinceramente ho molto apprezzato, vedere la divisione per territori delle singole denominazioni.
Oltre a denotare competenza, manifesta sensibilità per le peculiarità, che all’interno di uno stesso areale, possono variare sia per filosofia dei produttori che per caratteristiche pedoclimatiche.

La cena è in compagnia del mio mentore, quindi oltre all’aspetto conviviale, c’è un confronto stimolante, sempre costruttivo.
Partiamo dal vino e lascio la decisione a Lui, e come sempre accade, fa centro!
La scelta ricade su una delle ultime annate di Taurasi, curate dall’ormai leggendario Antoine Gaita.
Un testamento lasciato ai posteri.


Libero Pensiero riserva 2008, è un Taurasi che parla francese. I tannini, che restano ancora un limite per tanti produttori di questa DOCG, sono perfettamente addomesticati.
Il rosso granato carico, preannuncia la grande intensità, ed in effetti al naso si manifestano descrittori che in alcuni casi sorprendono: se la frutta sotto spirito è quasi scontata, il sottobosco, quello fresco, stupisce.
Note speziate decise e terziari che raccontano l’evoluzione del tempo e il tipo di affinamento.
La chiusura sul cacao è intensa seppur gentile.
In bocca mostra i muscoli, non quelli ottenuti da anabolizzanti, ma quelli definiti e fluidi di un maratoneta.
Un sorso lunghissimo, persistente all’inverosimile, ma con una freschezza inaspettata dopo 14 anni.

Qualsiasi cosa passerebbe in secondo piano, ma il lavoro dello chef Gaetano Barba è stato apprezzabile e va raccontato, cosi come i riferimenti ai suoi colleghi, che onora nel menù.


La partenza con la “Pizza in white“, seppur poco celata, è una dedica allo stellato Vitantonio Lombardo :ricotta di bufala mantecata al parmigiano vacche rosse, tartara di gambero rosso al lime, pizzetta fritta e caviale di salmone.
Fritto discreto, sicuramente asciutto, magari poco crispy, cosa che avrebbe esaltato la ricotta mantecata ed il crudo, anche perchè il piatto nel complesso era ben bilanciato: la sapidità del caviale di salmone riportava equilibrio alla decisa tendenza dolce, presente in tutti gli altri elementi.

Baccalà e melanzana, ricorda molto, ma solo nella presentazione, la melanzana vanitosa di Gianni Mellone, ma per consistenza e preparazione e contenuto, decisamente diversa.
Piacevolissimo l’amarognolo della buccia che ne racconta la natura e rimanda al ricordo della parmigiana. Buono anche il ripieno di baccalà fritto al panko.

Lo Sfusato amalfitano sulla genovese, mi ha stupito, ma poi convinto.
Toccare uno dei piatti “Istituzionali” della tradizione campana è sempre un azzardo.
Ma in effetti, non la snatura. E’ come le due gocce di Chanel n°5 su un corpo nudo, magari non quello di Marilyn, ma di una bella donna mora
.

Buona la carne, di più la cottura: Filetto di Black Angus USA.
Felice l’intuizione dell’affumicatura della patata, che prepara ed accompagna ogni morso, tenendo fissato nel palato, il profumo della brace.

Notevole la punta di petto di Wagyu Full Blood Australia Jeck’s Creek.
Piatto studiato a tavolino. Il richiamo al blasone, anche se per un taglio secondario, diventa leva, e con una narrazione non didascalica, ma attenta e competente, come quella di Alessandro, giustifica il prezzo.

La chiusura dolce, per rispetto alla pasticciera e meno per la glicemia è stata all’altezza.
Quando si parla di Pavlova, mi brillano sempre gli occhi e parte la salivazione, in questo caso è un riferimento, una rivisitazione, che ha un suo carattere con una chiusura fresca che pulisce la bocca.
Il mio commensale sceglie la Millefoglie di Fillo.
Ben fatte sia la crema chantilly al cioccolato bianco, che la crema alla vaniglia, cosi come è buona l’idea del topping al caramello salato abbinato all’aroma tropicale del frutto della passione.

In sintesi, una proposta contemporanea, in linea con le esigenze di un pubblico sempre più attento.
Servizio attento e puntuale, competente e cordiale.
Il valore aggiunto è sicuramente la proposta vino, che lo posiziona tra i luoghi più interessanti della provincia, per chi ama bere bene.
Complimenti a tutta la squadra di Onofrio e mi perdoneranno quelli non citati

“Verso”,la nuova ed esclusiva linea delle Cantine La Fortezza.

Enzo Rillo, un grande imprenditore che non ha dimenticato le proprie origini

C’è un’azienda nel Sannio, a Torrecuso, che continua a studiare per diventare grande.
Intanto c’è una struttura per l’ospitalità e per gli eventi di notevole impatto; ci sono le vigne; c’è una grande e bella cantina, ma sopratutto c’è una visione chiara del futuro.
Antonella Porto, direttore commerciale dei vini “la fortezza”, è una forza della natura.
Arrivata dalle Americhe, dal freddo del Canada, ha “portato” con sè la determinazione e la fiducia che i sogni possono trasformarsi in realta. In più ci ha messo la concretezza Sannita, perchè senza il lavoro duro, nessuno ti regala nulla.
Gentile e cortese, con un sorriso sincero, che conquista immediatamente.
Instancabile, sempre presente, attenta, non lesina energie per raggiungere il risultato.
Nell’ultimo anno ci siamo incontrati spesso. Da lei ho mutuato anche delle idee, sull’ospitalità in vigna, portate poi in altre realtà rurali campane.
La fortezza disponeva di una gamma di vini già ampia, che racconta il territorio nella sua interezza, ma era grande il desiderio di osare, “verso” (il nome della nuova linea) orizzonti più lontani, incoraggiati enologo, Vittorio Festa,  a cui non manca il coraggio.

L’occasione è vitignoitalia, un fuori salone (come mi auguro ce ne siano tanti nelle prossime edizioni), quello di Wine & the city, a pochi passi da Castel dell’Ovo, a via Chiatamone.
La location, il My Seacret.: un piccolo scrigno della gastronomia, per pochi intimi.
Ad organizzare e coinvolgere appassionati e professionisti è il giornalista più autorevole di settore, Luciano Pignataro.

 Il progetto si chiama appunto Verso, si posiziona su una fascia premium.
4 prodotti (due metodo classico, due fermi) di assoluta eccellenza, frutto di combinazioni di uve a bacca bianca e rossa, un progetto di sintesi; bordolese a spalla alta, per i fermi, Borgognotta per i metodo classico;
I nomi, sono stati scelti attraverso una ricerca che trova significato nei vocaboli dialettali:
Ussiè sta per sentire, ascoltare;
40% Fiano, 60% Aglianico
Vino Spumante di Qualità Rosato – Metodo Classico Millesimato 2020 Pas Dosè

Tremien sta per guardare con attenzione;
40% Fiano, 20% Falanghina, 40% Aglianico
Vino Spumante di Qualità Bianco – Metodo Classico Millesimato 2020 Pas Dosè
Suare‘ è il nome di un’antica danza;
30% Fiano, 40% Greco, 30% Aglianico
strutturato,corposo con un leggero passaggio in legno.
giallo paglierino, cristallino, luminoso
frutta a pasta gialla, tanto tropicale e leggera nota erbacea.
Bella mineralità e sapidità.
Truman è la virilità.
40% Aglianico, 30% Piedirosso, 30% Camaiola (Barbera del Sannio)
Rosso Rubino, fascinoso. Buona consistenza bella complessità
Elegante, avvolgente, sicuro.
Frutta rossa, lamponi e amarena, tabacco e spezie dolci.
Orientato verso le morbidezze con un tannino ben levigato anche dal leggero passaggio in legno che completa l’affinamento precedente in acciaio.



Il racconto si completa nelle etichette, 4 poesie che parlano di una storia vera, quella di un bambino, che diventato uomo, ritorna alle sue radici.
Radici che affondano in una terra che sa ricambiare i sacrifici dell’uomo.


Il fiano di Lapio ha una nuova, splendida, realtà: Laura de Vito

Domenica sera, mi arriva un messaggio: “Tieniti libero domani, andiamo a provare un grande Fiano a Lapio: ci accompagna l’enologo. Ieri sera Isidoro Menduto mi ha fatto bere un vino eccellente, che non conoscevo” (LP) –  Concedetemi questa parentesi personale: ma dopo 25 anni che a vario titolo mi occupo di enogastronomia, oggi mi trovo a scriverne contenuti, per una Agenzia di Comunicazione, come “professione”,  una degustazione privata con il decano del giornalismo di settore, Luciano Pignataro ed un enologo di grandi eccellenze, Vincenzo Mercurio, è una lectio magistralis che non potevo perdere. Detto questo, allacciamo la cintura e partiamo. ***il post per i social

Durante il viaggio, ascolto in religioso silenzio la conversazione dei miei compagni di escursione.
Luciano, che ha organizzato velocemente, per approfondire quella sensazione che aveva avuto bevendolo, mi spiega che per scrivere di vino bisogna sporcarsi le scarpe, andare in vigna ed in cantina, solo cosi si può creare un racconto narrativo veritiero, che valga la pena di essere letto.
Intanto Vincenzo ci parla del progetto:  lavorare sulle microzone per i cru, nelle tre contrade, e fare poi con l’assemblaggio degli stessi,  una versione di sintesi, che racchiuda in sè il meglio di ognuno.  Era sua intenzione aspettare almeno un anno, se non due, prima di uscire con i vini, era certo che l’evoluzione in acciaio prima e poi in bottiglia avrebbero dato risultati eccellenti, poi la pandemia ha fatto il resto.


Arriviamo in poco tempo, Lapio non è lontana da Salerno. Il ricordo dei 32° della partenza è lontano. Ci siamo spostati a quasi 600mt SLM ed un leggero ma fresco venticello, ci corrobora.
Lapio è un territorio che esprime vini eccellenti, uno dei pochi comuni Italiani in cui ricadono due DOCG: Fiano di Avellino e Taurasi. Quella che all’epoca fu una devastante eruzione, quella del Vesuvio, oggi, grazie al vento che portò qui, importanti quantità di polvere piroclastica , è diventata un plus . ** La presenza di materiale vulcanico, particolarmente ricco di fosforo, magnesio e potassio conferisce al vino grande complessita e sapidità.


Passione, sensibilità, determinazione e tenacia, come poteva essere diversamente: tutti sostantivi femminili.  Dimenticavo di dire che la produttrice è una donna, Laura de Vito.
E’ lei che ci accoglie, ci accompagna in vigna, in cantina  ed infine prepara la doppia degustazione. Un bravo enologo fa grandi vini, quando esprimono anche le doti umane di chi li produce.
Vincenzo Mercurio è un grande enologo!  

Quella di Laura è una storia d’amore con il vino, vissuta intimamente, con dedizione e passione per oltre 10 anni, da quando incontrò l’enologo. Ci confida che se le avesse detto di no, probabilmente non si sarebbe lanciata in questa avventura.
Ha totale fiducia nel suo lavoro ma soprattuto nel progetto. Descrittori non convenzionali, che si potranno percepire al primo sorso,  sono appunto la *determinazione e la *tenacia, di una donna, che ha saputo e voluto aspettare il momento giusto. Preparati i calici, stappate le bottiglie, un sorso di acqua per idratare e pulire il palato e siamo pronti.
2018 e 2019, di alcune solo i campioni ancora non etichettati, perchè il 2019 uscirà sul mercato alla fine di giugno. I 3 cru, “arianiè, verzare e li sauruni”, raccontano perfettamente i 3 territori (Arianiello, Verzare e Saudoni);  Elle li sintetizza perchè è frutto del meglio dei 3.
Ognuno vive le cose che ama, in modo diverso.
Quando penso ad un vino lo immagino insieme ad un piatto, con chi lo mangio, ad un luogo o una stagione: alle cause esterne ma, complementari che lo rendono piacevole o meno.
Questi di Laura de Vito, li ho “sognati” cosi:

I primi caldi di giugno, la sera di un giorno di festa, voglia di qualcosa di buono, senza uscire dalla città, senza imbottigliarsi nel traffico.
Soli io e lei, per qualche ora. A bere, come ci piace fare.

Il pensiero porterebbe a chi ha rivelato questo vino, Isidoro. Lo penserò ad ogni sorso, ma da lui andremo un altro giorno. Ho prenotato al mood, in giardino! La certezza di trovare tutto quello che immagino e molto di più : un luna park del gusto.
Il Bulgaro Burbero, a suo modo mi vuole bene, ed io ne voglio a Lui, perchè ci ha sempre creduto, perchè ci ha saputo fare, perchè c’è riuscito: da un permesso di soggiorno alla cittadinanza onoraria (tra i meritevoli), che il comune di Salerno dovrebbe pensare di concedere.
Saluto Gianni e gli chiedo le emozioni che vorrei provare, poi mi siedo a tavola.

Li Sauruni 2019 : la pera, l’albicocca, il timo, vorrei mangiare una Tartare di manzo con peperoni arrosto burrata olive e biscotto ai capperi

Li Sauruni 2018 : La stessa frutta più matura, più opulenta mi fa pensare ad
Carpaccio di manzo affumicato in casa con datterino dry, bufala e pane di riso


Elle 2019 :erbe aromatiche intense, frutta secca, quasi balsamico, vado dritto ad un Uovo a 68°, piselli, provola e cipolla glassata

Arianiè 2019 : menta e nocciola tostata ci vado per affinità con Pasta mista con totanetti limone e melanzane affumicate.
Arianiè 2018 : per l’annata precedente, che mi dà sensazioni più rurali, vorrei dei Plin ripieni di patate in tortiera con salsa di provola
Elle 2018 :questo mi sembra perfetto, Gnocchi di pane in salsa di burro e acciughe con burrata e olive.

Verzere 2019 : quella nota finale per me si sposa con Baccalà in lenta cottura “Belladonna” con datterino, capperi e olive
Verzere 2018: e chiuderei con un Stracchino maturo di bufala alla lavanda .

Tutto discutibile, è solo il mio pensiero , intanto Lapio, ha un altro episodio da raccontare al mondo, sul suo Fiano: ancora una volta, la protagonista è una donna.

Caciotta stracchinata – Fattoria Savoia




“Il Frantoio” ad Assisi è il Miglior Ristorante dell’olio 2022


È umbro il Miglior ristorante dell’olio secondo l’Associazione Nazionale Città dell’olio nell’ambito del Concorso Nazionale Turismo dell’Olio volto a valorizzare prodotto e sue consistenze.

D’altronde il progetto del ristorante di Assisi (PG) è cristallino: l’olio evo è protagonista di ciascuna portata dello chef Lorenzo Cantoni, non a caso già Miglior Chef dell’anno AIRO 2021, impegnato a selezionare le migliori cultivar d’Italia da abbinare a ciascuna creazione fatta di quelle passione e creatività che trovano ispirazione nella materia prima del territorio umbro, nelle erbe spontanee, nei prodotti delle campagne, nelle carni identitarie della sua regione d’appartenenza. Ciascun piatto è dunque studiato per offrire un connubio perfetto con l’olio selezionato perfino in chiusura, con i dessert.

“Raccontare l’olio EVO attraverso i 5 sensi, creando un’esperienza immersiva che rievoca gli uliveti monumentali francescani situati ai piedi di Assisi e riscoprendo i sapori identitari e più ancestrali della tradizione culinaria dell’Umbria attraverso lo studio e l’utilizzo dell’olio extra vergine d’oliva”. È questa la motivazione che ha accompagnato il premio.

Elena Angeletti, titolare del Ristorante Il Frantoio, situato all’interno di un palazzo nobiliare del centro storico Assisi, ha voluto enfatizzare la vocazione di un ristorante in cui fare cultura dell’olio, consentendo agli ospiti di immergersi in un ambiente che appagasse tutti i sensi visto anche un importante intervento di restyling, curato della designer umbra Marta Toni, che è riuscita ad interpretare e a tradurre sotto forma di ambientazione, la filosofia di cucina dello chef, utilizzando colori, materiali, elementi di arredo e accessori per la tavola.

cantina i favati

Cantina I Favati: il segreto di un successo tutto made in Irpinia

Nel lontano 2008, all’alba della mia carriera da cronista, mi trovai con degli amici in un ristorante di Salerno purtroppo velocemente scomparso dai riflettori. All’epoca già masticavo di vino e mi incuriosiva una cantina irpina che non avevo ancora provato: I Favati. La scelta cadde proprio sul Fiano di Avellino, non tanto per la romantica etichetta con la vecchia foto di famiglia degli inizi del ‘900, quanto perché ero devoto a chi potesse evocare nel calice le mie stesse origini. 

Non avrei pensato, tempo dopo quell’assaggio strepitoso, quale fosse la storia celata dietro una opera eccellente e a dir poco pionieristica. Un periodo nel quale, invece, troppi vini erano ancora rustici o (peggio) appesantiti da lunghe macerazioni e affinamenti. Lo stesso tempo in cui si cercava testardamente il famoso sentore di nocciola tostata, dimenticandosi le altre incredibili espressioni aromatiche di una varietà unica nel suo genere. Chi avrebbe immaginato i sacrifici personali di Rosanna Petrozziello, del marito Giancarlo Favati e del cognato Piersabino nel realizzare una cantina gioiello nel piccolo comune di Cesinali, a pochi passi da Avellino?

Rosanna decide 25 anni fa di dedicare anima e corpo al progetto, tralasciando pian piano il precedente lavoro di dirigente bancario, ruolo estremamente prestigioso e remunerativo. Lo ha fatto per quel colpo di fulmine che talvolta si prova nell’avvicinarsi al mondo agricolo e per restare vicina alla famiglia, con un’attività che potesse giovare alla prole. Da tutto questo e dal restauro del vigneto “Pietramara” posto su terreni frammisti tra argille gialle, tufo e vene calcare sotterranee, nasce il segreto del successo di I Favati.

Indispensabile, infine, l’esperta consulenza enologica di Vincenzo Mercurio in particolare nella scelta dei contenitori e dei tempi di vinificazione micro parcellizzati. 

Ascoltate la video intervista rilasciata per 20Italie e poi analizzeremo in maniera dettagliata alcune delle etichette in commercio.

Partiamo con la degustazione del Terrantica Greco di Tufo Docg 2020, decisamente largo ed avvolgente sia al naso che al palato. Gli aromi richiamano i fiori gialli, con note melliflue e frutta matura a polpa bianca. Chiude al sorso su scie minerali che appagano e solleticano un nuovo assaggio.

Meno accondiscente il Pietramara Fiano di Avellino Docg 2020 teso e verticale, declinato interamente tra agrumi e macchia mediterranea. Mineralità impressionante, che rivela una caratteristica del varietale spesso dimenticata dalle cronache. Al gusto continua coerente, promettendo lunga vita in bottiglia per raggiungere il plateau espressivo. Tanta vivacità e neanche l’ombra di evoluzioni al sapor di nocciola tostata (per fortuna). Il marcatore descrittivo comincia a ravvisarsi invece nella 2018 semplicemente perfetta, sfruttando anche la complicità climatica di una vintage non troppo afosa.

Chiudiamo con il Terzotratto Taurasi Docg 2012 per comprendere che I Favati hanno sicuramente un animo da bianchisti, ma sanno sorprendere anche con i rossi. L’Aglianico è esaltato dal lungo riposo tra contenitori di legno di diverse dimensioni e passaggi che ne amplificano le parti terziarie di cioccolata, sigaro sbriciolato e liquirizia. Petali di viola essiccati ed amarene sotto spirito completano il quadro di estrema piacevolezza del vino, che ben fa immaginare abbinamenti di sostanza con piatti della cucina campana.

Quanta bellezza in Irpinia!