Dalla Sardegna il Whisky firmato Silvio Carta

A sottolineare il fermento che c’è in Sardegna negli ultimi anni nel campo dell’enogastronomia, ecco l’ultimo nato in casa di Silvio Carta: il Whisky from Sardinia prodotto dall’eclettico Elio Carta e degustato in anteprima a Roma dalla redazione della testata giornalistica Vinodabere.it .

Si tratta di una tiratura (per ora) limitata di 1500 bottiglie da 50cl, 43,7 gradi alcolici, confezione di rifinita eleganza.

Tutto il processo di produzione parte da orzo distico esclusivamente sardo ed è svolto interamente nella distilleria di Silvio Carta. Il Whisky from Sardinia affina in botti di castagno centenarie, di misura variabile dagli 80 ai 470 litri, usate in precedenza per produrre la Vernaccia di Oristano, prodotto primigenio e celeberrimo dell’azienda.

Eloquente la valutazione di Pino Perrone, uno dei massimi esperti di Whisky in Italia e collaboratore “specialista” di Vinodabere, per il quale “il Whisky di Silvio Carta è maturato per soli quattro anni, e se fin d’ora risulta assolutamente convincente, non possiamo che chiederci: come e quanto ancora potrà evolvere in futuro?”

Barolo: Bartolo Mascarello “fieramente piccoli fieramente tradizionalisti”

Via Roma 15, Barolo (CN)

Bartolo Mascarello, tra le cantine pilastro di sua Maestà Barolo, si trova proprio dietro il portone di una casa qualsiasi. Una di quelle case in cui si nasce e si muore, in cui si conservano fatti e memorie, una di quelle case che ti fanno chiudere gli occhi per immaginare cosa doveva esserci qui intorno un centinaio di anni fa, molto prima che le piole diventassero osterie glamour, quando le colline di Langa erano percorse a piedi solo da contadini e non da turisti alla ricerca di un selfie scenico tra filari di vite.

La Storia

Al tempo in cui Giulio Mascarello rientrò dalla Grande Guerra: “Nel 1919 mi congedano. Arrivo ad Alba con due soldi, mi faccio portare da un break fino a Gallo, poi proseguo a piedi verso Barolo. A sentire quel profumo di fieno rinasco. Entro in casa, stanno scodellando un minestrone delizioso. Mi dico: “Barolo è ancora il posto migliore che esiste al mondo”. Decido di restare a Barolo per sempre, divento un produttore di vini” (tratto dal libro “Il mondo dei vinti” di Nuto Revelli edizioni Einaudi). 

Nasce la Cantina Mascarello, quella che oggi porta il nome del figlio di Giulio, Bartolo, e Maria Teresa; la nipote prosegue l’opera rimanendo fedele a un’idea di Barolo radicata in questa casa, come il piede di vite che ci accoglie nella corte: saldamente piantato a terra, aggrappato alla ringhiera del balcone, ramificato verso il cielo.

Sarebbe riduttivo parlare di questa minuscola realtà produttiva – e in particolare della figura di Bartolo – solo in relazione alla rivoluzione dei Barolo Boys che una quarantina di anni fa scosse dalle fondamenta la cattedrale di tutti i vini italiani. La barrique venne preferita alla tradizionale botte grande, con tempi di macerazione più brevi e maggior concentrazione di sapori e profumi. L’essenza della cantina Bartolo Mascarello si traduce, invece, nell’espressione usata da Emanuele Jorio, “Fieramente piccoli, fieramente tradizionalisti”, caposaldo indiscusso di un certo modo di pensare il vino, non quale sterile resistenza a qualsivoglia innovazione.

È proprio Emanuele Jorio, collaboratore da sempre della famiglia, a guidare la nostra visita in cantina, che inizia da un tour virtuale dei 5 ettari di proprietà: solo uno in più rispetto ai 4 originari, acquisito dopo gli anni ‘30 del secolo scorso, quando Giulio non era ormai più da tempo un semplice conferitore di uve, ma un produttore di vini. I cinque ettari sono divisi tra cinque diverse MGA (Menzioni Geografiche Aggiuntive), quattro nel comune di Barolo, una nel comune di La Morra: San Lorenzo – Ruè – Cannubi – Monrobiolo di Bussia – Rocche dell’Annunziata. Una produzione totale che non supera le trentacinquemila bottiglie annue, delle quali diciottomila di Barolo, le restanti suddivise tra Langhe Nebbiolo, Dolcetto, Barbera, Freisa.

Facciamo un solo Barolo, da 104 anni”, ci racconta Emanuele. Niente Cru, niente esaltazioni di singole vigne, ma blend di uve provenienti da più MGA. “Il Barolo storicamente era concepito come un incontro di vini”. Caratteristica che in epoca di cambiamenti climatici rappresenta un punto di forza:  “Settant’anni fa si conosceva benissimo quali erano le posizioni delle vigne, senza bisogno delle MGA e si usava la filosofia di far incontrare più vini per ottenere equilibrio”. Solo in questo modo è possibile esprimere coralmente il territorio. A questo proposito, la cantina opera la co-fermentazione delle uve, resa possibile dal fatto che le varie parcelle di vigna, trovandosi in posizioni abbastanza vicine le une alle altre, giungono a maturazione quasi contemporaneamente. Questa pratica prevede il riempimento graduale delle vasche di fermentazione con uva quanto più possibile integra (in cantina successivamente alla selezione si usa solo la diraspatrice), man mano che le singole vigne vengono vendemmiate. Il successivo blend fa in modo che i diversi caratteri dei vigneti singoli si integrino al meglio, valorizzandosi l’un l’altro.

Entriamo quindi nei locali di fermentazione: prima dell’affiancamento di Bartolo a Giulio nella conduzione dell’azienda, avvenuto subito dopo la guerra, qui c’era una stalla. La trasformazione nei locali dove avviene la fermentazione delle uve è stato l’ultimo intervento strutturale rispetto alla conformazione originaria della casa-cantina, contestuale all’acquisto delle cinque vasche in cemento ancora in uso. L’impiego dell’acciaio non è contemplato, se non per brevissimi passaggi delle masse di vino, durante le varie fasi della vinificazione. Dolcetto, Langhe Nebbiolo, Freisa e Barbera, fermentano in cemento, per il nebbiolo da Barolo invece si utilizzano sia tini in legno che vasche in cemento. Durante questa fase si operano esclusivamente rimontaggi e a fine fermentazione il nebbiolo da Barolo subisce un’ulteriore fase di macerazione post fermentativa, a cappello sommerso o a rimontaggi, di durata variabile.

Poi solo botte grande

Le botti di rovere di slavonia di diverso passaggio vanno dai 20 ai 50 ettolitri. Lo stile del Barolo di Mascarello non ricerca dal legno aromi particolari, ma soltanto la micro ossigenazione necessaria al vino per il suo armonico sviluppo.  Il nebbiolo atto a diventare Barolo riposa qui per non meno di 34 mesi e prima di terminare il suo affinamento in bottiglia, dove rimane un anno, viene nuovamente ricostituito in un’unica massa in vasca di cemento.

Anche gli altri i vini della cantina Mascarello, dopo la fermentazione, prevedono un periodo di sosta in legno grande non inferiore ai 9-10 mesi, compreso il redivivo Dolcetto. Questo varietà autoctona piemontese, che talora ha smarrito la propria identità, viene troppo spesso relegato in porzioni di vigna meno favorevoli per far spazio al blasonato Nebbiolo. Chi ha scelto questa strada è stato dunque costretto a interventi drastici in cantina – come l’utilizzo esclusivo dell’acciaio e l’imbottigliamento a cinque mesi dalla vendemmia – che a lungo andare ne hanno snaturato il carattere. Ma non qui, dove le viti hanno mantenuto la loro posizione originaria e la vinificazione avviene secondo tecniche tradizionali.

Terminiamo la nostra visita in cantina nella riserva di famiglia, dove vengono conservate le annate storiche a partire dagli anni quaranta, comprese le bottiglie con le etichette disegnate a mano da Bartolo, quando la malattia lo aveva definitivamente costretto lontano dalla vigna. “Questa cantina è parte integrante della casa”, conclude Emanuele “quando abbiamo fatto i locali nuovi, avremmo potuto trasferirla, ma non l’abbiamo fatto: 104 vendemmie sono passate di qua. Non so spiegarlo in maniera razionale, ma anche questo fa parte della nostra idea di vino”.

E come avrebbe potuto essere diversamente? Ci troviamo sotto il corpo principale della casa dove sono nati Giulio e Bartolo,  proprio dove affonda le radici quel piede di vite che ci ha accolto al nostro arrivo.

Perché il vino è la radice di questa casa e questa casa è la radice del vino.

La Degustazione

Freisa 2021

La Freisa è probabilmente originaria delle colline torinesi. Nelle langhe del Barolo è vinificata da una decina di cantine storiche per un totale di 22 ettari su 2800 complessivi vitati. Esiste una parentela col nebbiolo sotto il profilo dell’acidità e del tannino, mentre dal punto di vista olfattivo è più rustica.

La 2021 è stata imbottigliata nell’estate 2022 dopo 9 mesi di legno e  un anno di bottiglia.

Il naso urla immediatamente frutta! Lampone, ciliegia e arancia, che ritornano come caramella gelée dopo il sorso. In bocca è una lama affilata, rinfresca quasi fino a bruciare le gengive, diventando immediatamente pieno e saporito. Infine asciuga in maniera indiscutibile. Al coup de nez ritorna la prugna.

Barbera 2021

La vecchia vigna di Barbera del Cru San Lorenzo è stata espiantata nel 2020 a causa della flavescenza dorata. Maria Teresa l’ha reimpiantata nel 2022, ma nel frattempo, e fino al 2026, le uve per ottenere questo vino sono acquisite da produttori nella zona di Barbaresco, con cui c’è condivisione di idee di conduzione e pratiche biologiche in vigna. La Barbera di casa Mascarello può fare macerazione sulle bucce a fine fermentazione. Bassa in tannino, tra le sue caratteristiche annovera la freschezza vivace, elemento portante per un vitigno che ama il caldo.

Il naso è scuro di more di rovo; seguono prugna, arancia bionda e un accenno di spezie dolci.

Al sorso la freschezza è un nerbo vibrante, che evidenzia immediatamente il contrasto tra naso e bocca, per poi distendersi fino a diventare succosa.

Barolo 2019

La 2019 è stata un’annata fresca o per lo meno più regolare, senza picchi di calore estremo, rispetto alle quattro successive. Ultima annata in cui manca la vigna San Lorenzo, la vendemmia è stata fatta nella seconda settimana di ottobre, con macerazione post fermentativa per rimontaggi.

Elegante sin dal colore rubino scarico tipico del Nebbiolo, al naso è un susseguirsi dinamico di rimandi olfattivi, che partono dalla salamoia salata, al goudron, alle note viniliche per poi aprirsi maestoso sui fiori scuri, arancia dolce, anice stellato e accenni di polvere di cacao.

In bocca entra in punta di piedi per poi distendersi completamente sulla scia di un tannino delicato ma presente e chiudere su un finale di zenzero e arancia. Bello sin da ora, sicuramente destinato ad una lunghissima evoluzione.

Bartolo Mascarello

Via Roma, 15

Barolo (CN)

Liguria: terroir, uomo, vino, lungimiranza, sono le parole chiave di Cantine Lunae e della famiglia Bosoni

Il nostro viaggio nel meraviglioso mondo dei vini d’Italia fa oggi tappa tra le vigne della Doc Colli di Luni, nella provincia di La Spezia, in quella pianura che dal sud del fiume Magra arriva alle pendici delle Alpi Apuane, ultimo lembo della Liguria di levante, al confine con la Toscana. Qui negli anni sessanta nasce la Cantina Lunae grazie alla passione, al talento e alla lungimiranza di Paolo Bosoni che ha trasformato una piccola realtà produttiva familiare, tre ettari destinati alla produzione di vino sfuso, in un’azienda enologica di forte impatto qualitativo e produttivo e con una imponente e incisiva presenza sul territorio.

La DOC Colli di Luni, attiva dal 1989, è uno dei risultati arrivati dall’audacia e dalla tenacia del patron Bosoni, che ha saputo guidare con coraggio e valore tutti i produttori della zona facendosi portavoce di un territorio, interpretandolo, sperimentando e aprendosi al futuro. La collaborazione con i piccoli vignaioli locali che conferiscono le loro produzioni (nei 20 ettari circa di vigneti) all’azienda Bosoni, da tre generazioni, ha creato una rete sociale, un percorso in continuo sviluppo, mantenendo vive le tradizioni e le qualità uniche della viticoltura del territorio. Una storia con radici antiche, un terroir già caro agli Etruschi che seppero individuare queste fertili terre come un luogo straordinario per produrre uva.

Le Alpi Apuane e le montagne proteggono dai venti freddi del nord, il mare regala una buona ventilazione e una notevole escursione termica, i suoli, di medio impasto e ricchi di scheletro nelle zone collinari e pedecollinari, limo-argillosi nelle aree pianeggianti, consentono di produrre vini con profili completamente differenti.

Il Vermentino, varietà principe della zona e della famiglia Bosoni, ha attecchito in perfetta simbiosi con le condizioni pedoclimatiche del luogo: quote altimetriche diverse, suoli variegati, brezza marina che determinano le sue numerose sfaccettature. Al suo fianco, negli 85 ettari totali dell’azienda, altri vitigni autoctoni come Albarola, Vermentino Nero, Malvasia, Pollera Nera e Massareta, impiantati e resi degni della stessa storia.

Stessa passione di un tempo, ma con uno sguardo volto alla modernità. I due figli di Paolo, Diego e Debora, che lavorano a stretto contatto con il padre, hanno raggiunto ormai risultati tangibili in ogni prodotto apprezzato dalla critica e dal pubblico di consumatori. C’è tutto questo in “Bosoni & Figli” anche nella nuova cantina LVNAE, inaugurata lo scorso giugno: moderna, bella, accogliente e e rispettosa della tradizione e della sostenibilità grazie alla scelta mirata dei materiali. Un percorso a piedi all’ingresso attraversa i principali vitigni autoctoni dei Colli di Luni e ne testimonia i punti cardini dell’azienda: tradizione e territorio.

Ca’ Lunae, invece, a Castelnuovo Magra, è un antico casale del Settecento completamente ristrutturato nel rispetto delle forme e delle materie, dove si accolgono i visitatori e si permette loro di sperimentare il territorio.

Ad arricchire il luogo due laboratori per la produzione di liquori con ben 12 tipologie diverse, stagionali, entusiasmanti e uniche nel loro genere, ed un autentico Museo del Vino.

Una raccolta di antichi oggetti agricoli conservati da Paolo Bosoni, diventata, all’interno della vecchia casa padronale, un percorso evocativo nel mondo contadino della Lunigiana storica, arricchito e curato da esperti e testimoni dell’epoca.

La visita e la degustazione testimoniano la cura e l’attenzione che Paolo e la sua grande famiglia (includendo amici e dipendenti) hanno nel gestire l’azienda. Nulla è lasciato al caso: vini semplicemente straordinari con forti personalità ed elevata qualità.

Valentina, la nostra guida nel mondo di Lunae, ha previsto per noi una verticale nel mondo Vermentino. L’idea è quella di illustrare un percorso crescente nel mondo del vitigno tanto caro a Paolo Bosoni ed alla sua famiglia.

LaBianca 2022 – Liguria di Levante I.G.T. Bianco – 12,5%

Nasce da uve Vermentino con l’aggiunta di Malvasia in vigneti situati nella piana di Luni, tra il Mar Ligure e le Alpi Apuane, radicati su terreni di natura sabbiosa. Fermentazione a temperatura controllata in acciaio, affinamento sulle fecce fini per circa 4 mesi

Il LaBianca di Lunae si offre allo sguardo di un colore giallo paglierino intenso. Al naso sprigiona profumi di frutta a polpa gialla, macchia mediterranea e pietra focaia. Il sorso è di vibrante freschezza e mineralità. Sul finale cenni fruttati e di erbe aromatiche.

Etichetta Grigia 2022 – Colli di Luni d.o.c. Vermentino – 12.5 % vol.

Emblema ed icona della cantina, è il primo vino realizzato dalla vinificazione di uve Vermentino da Paolo Bosoni, più di quarant’anni fa. Il Vermentino proviene per la totalità dai vigneti delle zone pedecollinari di Luni, Castelnuovo Magra e Sarzana. Oggi, come allora, segue lo stesso percorso: raccolta manuale, fermentazione a temperatura controllata in acciaio, affinamento sulle fecce fini in acciaio per circa 3 mesi.

Nel bicchiere appare giallo paglierino con sfumature verdoline. Profumo intenso, complesso e persistente con note di biancospino, pompelmo, mela renetta, pesca bianca e piacevole sottofondo di miele dacacia. In bocca si presenta fresco, equilibrato, di ottima persistenza.

Etichetta Nera 2022 – Colli di Luni d.o.c. Vermentino – 13% vol.

Prodotto dal 1992, frutto di un lungo periodo di sperimentazione ed esperienze in campo e in cantina per testimoniare le grandi potenzialità che questo vitigno riesce ad esprimere. Uve prodotte nelle Colline di Luni e Castelnuovo Magra, raccolte a mano e macerate a freddo sulle bucce per circa 8 ore fermentazione a temperatura controllata in acciaio, affinamento sulle fecce fini in acciaio per circa 4 mesi.

Nel calice si manifesta dotato di grande stoffa, carattere e fascino, caratterizzato da un colore giallo paglierino intenso, con leggeri riflessi dorati. Al naso si fa notare per la sua grande eleganza, con sentori di fiori di campo, erbe aromatiche, spezie, frutta matura e miele, accompagnate da note salmastre e balsamiche. In bocca, invece, si rivela per la sua sapidità, assolutamente bilanciato e soprattutto molto persistente. La sua importante verticalità in freschezza le renderà capace di sorprendere anche nel tempo.

Cavagino 2022 – Colli di Luni D.O.C. Vermentino – 14 % vol.

Il primo Cru di Vermentino della casa e del territorio. Nasce da una vigna singola con basse rese, posta sulle colline di Luni (a 250 metri di altitudine), dove microclima equilibrato e suolo ricco di scheletro con una buona presenza di macigno la fanno da padroni. Macerazione a freddo sulle bucce per circa 12 ore, fermentazione a temperatura controllata in acciaio per il 60 % della massa totale, fermentazione in barriques per la restante parte del mosto. Affinamento sulle fecce fini in vasca d’acciaio per circa 6 mesi.

Si evidenzia alla vista di un colore giallo paglierino di grande vitalità con riflessi dorati. All’olfatto regala note di frutta matura, mela e pera, papaja, e poi pietra bagnata, spezie, erbe balsamiche e miele di acacia, combinati a cenni di fiori bianchi e scorza d’agrumi. Il sorso è pieno e vigoroso, di grande struttura con note calde, morbide e un equilibrio legato alla spiccata mineralità che gli conferisce sapidità e bevibilità. Lungo e avvolgente il finale balsamico e agrumato, con una piacevole nota salmastra.

Numero Chiuso 2020 – Colli di Luni d.o.c. Vermentino – 14 % vol.

Il Vermentino più strutturato ed importante della Cantina Lunae, di diritto tra le migliori etichette della produzione nazionale. Nasce dalle osservazioni di quanto l’affinamento del vermentino in purezza, in alcune annate, apporti in termini di profondità e complessità: un vino capace di esprimersi negli anni.

Le uve vengono selezionate in due vigne storiche delle Colline di Luni e Castelnuovo Magra. Macerazione a freddo sulle bucce per circa 12 ore, fermentazione a temperatura controllata in vasca d’acciaio, affinamento in botte di rovere da 20 ettolitri per circa 18 mesi. Dopo l’imbottigliamento ulteriore affinamento in bottiglia per 18 mesi.

Colore giallo dorato tenue, con intensi riflessi brillanti, è visibile nel bicchiere. Olfatto elegante, accompagna la degustazione con intensi profumi di frutta, fiori gialli, erbe aromatiche della macchia mediterranea, cenni tropicali su un sottofondo iodato, burro e vaniglia. Al palato diventa appagante, ricco, intensamente strutturato. Freschezza e salinità anticipano un persistente finale di frutta secca, elegante e armonico.

Termino questo ricco ed emozionante racconto, con l’ultima chicca.

Padre Figlio – Limited edition 2019 – Vino Bianco – 13,0 % vol.

A continuare l’estro enologico di Paolo in vigna e in cantina è il figlio Diego Bosoni con le sue produzioni. La firma personale per l’etichetta Padre Figlio è il racconto perfetto ed emozionante di un rapporto complesso, quello tra un padre ed un figlio. La stessa immagine sull’etichetta ricorda due visi diversi fusi in una sola faccia con capelli arruffati per la genialità di chi li governa.  Due generazioni a confronto che si affidano in bottiglia al Vermentino, nelle sue vesti di figlio del territorio ma vitigno capostipite tra gli autoctoni della zona, coltivato su suoli antichissimi, complessi, difficili per la vite.

Selezione dei migliori grappoli nelle prime ore del mattino, da un solo vigneto nell’antico borgo di Castelnuovo Magra, nel loro massimo punto di equilibrio tra dolcezza e acidità. Uve diraspate delicatamente, pressate e lasciate poi a riposo a contatto con il mosto per innescare la fermentazione spontanea. Affinamento di un anno in botte di rovere da 30 hl per levigare i tannini estratti dalle bucce e successivi 12 mesi in vasca d’acciaio. Tecniche antiche con attenzioni contemporanee.

Colore giallo con riflessi dorati. Profumi intensi di macchia mediterranea, resine e miele, albicocca matura, quasi candita. In bocca è ampio e avvolgente; caldo come l’abbraccio di un padre ma fresco, minerale e brioso con l’energia di un figlio giovane; ritornano nella retronasale le note percepite all’olfatto ben bilanciate da richiami balsamici. Un’armoniosa compresenza di Padre e figlio.

La filosofia di casa qui è di riscoprire e valorizzare vitigni autoctoni, accompagnandoli alle loro massime espressioni e portare avanti un lavoro che è fatto di rispetto per il territorio e qualità di relazioni umane. Il vino è frutto dell’armonia e della cooperazione fra natura e uomo e diventa parte fondamentale del suo carattere.

Intervista all’enologo Denise Cosentino: dalla Cina all’Italia il passo è davvero breve

Denise Cosentino, già enologa di Domaine Long Dai (Dbr Lafite) e adesso tra le fila della prestigiosa Ornellaia, racconta uno spaccato dell’enologia cinese e della sua voglia di “autoctono”.

La Cina del vino pian piano sta svelando le sue peculiarità e potenzialità, protagonista di una rivoluzione enologica importante, considerando le dimensioni del Paese. Con Denise Cosentino, già enologa italiana da qualche anno al timone della direzione tecnica del Domaine Long Dai – proprietà del gruppo Domaines Barons de Rothschild – siamo andati alla scoperta di quello che è il territorio viticolo cinese e perché ne sentiremo parlare sempre di più nel prossimo futuro.

Cina e vino. Si può fare

Partiamo dal presupposto che la Cina non ha una tradizione vitivinicola ben radicata come quella europea, ma sta costruendo la sua storia non trascurando i particolari. Numeri che sembrano essere premianti soprattutto quando si parla di consumo locale e che descrivono un popolo interessato alla cultura del vino locale e non solo ai “grandi classici” di importazione. A non cambiare è la voglia di imparare da chi effettivamente il vino ce l’ha nel sangue. Sono molti i professionisti che hanno scelto il grande Oriente per il successo, e a Denise Cosentino quest’opportunità è arrivata per meritocrazia.

Laureata in viticoltura ed enologia a Torino, con diverse esperienze all’estero compreso in Nuova Zelanda, viene selezionata come docente per il prestigioso College di Enologia della North West A&F (agriculture&forestry) University di Yangling, Xian, Shaanxi. Grazie a un percorso premiante è arrivata a lavorare in vigna. Dal Ningxia alla penisola dello Shandong Denise ha scoperto un mondo diverso, dove la tradizione europea gioca la sua parte, ma in maniera marginale. Fare vino in Cina è quindi possibile?

La Cina è enorme e non si può far vino ovunque, per via del clima diverso, a volte proibitivo. La mia esperienza in vigneto inizia nel nord, nello Ningxia dove si arrivano a toccare, di inverno, meno 25 gradi. La viticoltura qui è pensata proprio per affrontare temperature rigide, con l’interramento della vite per proteggerla dal freddo. Un sistema con diversi cordoni bassi che, a seconda della necessità, possono essere ricoperti di terra. Nel Shandong invece, più vicini al Mar Giallo, il clima è completamente diverso, con inverni sì rigidi, ma non troppo. Nella media cinese, si intende. Infatti si toccano temperature che si aggirano in media tra i meno 10 e meno 15 gradi – continua l’enologa – Anche qui si usa l’interramento della vite, ma non completo. Per questo utilizziamo un sistema a spalliera che ricorda le viti europee. Inverni secchi e primavere secche, concentrazione di pioggia sulla parte estiva, questo è ciò che ci aspetta generalmente, anche se stiamo risentendo del climate change che anche qui si manifesta con eventi estremi come violente piogge e calura anomala anche fuori stagione”.

Domaine Long Dai

Domaine Long Dai, nella penisola dello Shandong – dove Denise ha ricoperto il ruolo di direzione tecnica di cantina fino a poco tempo fa – non è solo lo specchio della tradizione francese in Cina, anzi, è un modo per mettere alla prova blend che non riprendano il classico taglio bordolese, comunicando qualcosa di nuovo dal punto di vista enologico. Con il Marselan, varietà che sta riscontrando pareri positivi sia per adattamento al clima sia per le peculiarità organolettiche, si sperimentano assemblaggi “moderni”. “L’azienda è giovane, basti pensare che la prima annata in uscita è il 2019. L’imprinting europeo viene mantenuto solo in parte perché si misura prevalentemente con il mercato cinese. Per il momento cinque annate dedicate al mercato interno cinese. L’80% resta qui. La restante parte invece, arriva nei mercati del Sud Est Asiatico, Hong Kong, Giappone, Corea. Piccoli volumi che ridisegnano un modo di vivere all’occidentale”.

Chi è il consumatore di vino cinese

Se in Occidente il vino viene considerato parte storica della “cultura pop”, in Cina si costruisce un’identità giorno dopo giorno. E allora qual è l’identikit del consumatore cinese e se è l’etichetta a rendere il vino d’appeal? Ce lo spiega Denise: “il fruitore medio del vino è appassionato, è colui che ha studiato ed è molto curioso. In Italia sarebbe il nostro “esperto”. Il vino qui non è una bevanda che arriva in tavola in automatico. Certamente l’etichetta conta e, come nel caso di Lafite, il nome colpisce perché è sinonimo di pregio e perché già dagli anni Ottanta è presente sul mercato asiatico. I cinesi però, studiano e diventano sempre più critici, andando alla ricerca della qualità e dello stile di vita all’occidentale. Il vino è uno status symbol, un cadeau di valore”.

Ma in Cina di vino se ne beve ancora troppo poco. Un dato sottolineato anche dalla Cosentino “ad oggi il picco potenziale di consumo locale non c’è ancora stato ma il picco delle importazioni si, pertanto la flessione di vino che proviene da fuori è quasi fisiologica”. Secondo il rapporto OIV del 2022 sulla salute del settore vitivinicolo mondiale, la Cina si attesta la terza posizione a livello globale per quanto riguarda l’estensioni totali dei vigneti; solo l’ottavo Paese per quanto riguarda il consumo di vino. Dati che indicano, comunque, una crescita delle cantine locali in termini di popolarità, prestigio ed enoturismo rispetto al passato.

Per quanto riguarda la produzione interna c’è ancora molto da fare, ovvio, ma la strada è quella giusta. “Oggi la Cina può diventare un polo di produzione, infatti siamo alla seconda produzione di enologi in Cina. Quindi tra qualche anno si potrà dire che il vino è un prodotto della tradizione, ma chiaramente non ce ne sarà per tutti perché non si può produrre ovunque come abbiamo già detto”. Buona notizia per gli importatori che dovranno fare i conti con un mercato non sempre stabile, ma comunque sempre aperto al prodotto estero. Se nel futuro enologico cinese il vino non mancherà, nel futuro di Denise invece, cosa c’è da aspettarsi? “ Spero che ci sia tanto altro buon vino, altri grandi progetti enologici che garantiscano sempre standard di qualità elevati in Italia, che rivedrò presto.Spero di tornare a casa  in Calabria certo, magari un giorno. Un vigneto a Papasidero in Calabria, il mio paese d’origine, farebbe tornare alla memoria la mia prima vendemmia, quella fatta con il nonno”.

Per intanto è arrivata la chiamata in Toscana da Ornellaia e non possiamo che esserne felici.

Casa Campania: al Merano Wine Festival pizza, sole, mandolino e tanto vino (di qualità)

Essere del Sud, vivere questa esperienza a volte ai confini della realtà. Sembra strano ma in 163 anni l’unità effettiva d’Italia non esiste di fatto se non sulla carta. Vallo a spiegare ai tanti visitatori esteri, che ancora ci vedono quelli del sole, pizza e mandolino.

Per fortuna, ribadiamo con le sole nostre forze e senza agevolazioni di cui godono altri territori, la Campania ha saputo riemergere a testa alta da una situazione oggettivamente difficile. Da due anni al Merano Wine Festival si cerca di diffondere il verbo della qualità delle eccellenze enologiche attraverso il padiglione appositamente dedicato Casa Campania. Grande la soddisfazione espressa nelle parole di Nicola Caputo Assessore all’Agricoltura della Regione Campania.

Una sorta di “Fuori Salone” in cui far confluire i Consorzi che stanno cercando, non senza difficoltà ad ogni livello, di fornire un’immagine unitaria agli operatori del settore. L’idea di un Consorzio di secondo livello pur nata da tempo fatica nel muovere i primi ingranaggi, ma le basi sono solide e le intenzioni meritevoli. Deus ex machina dell’iniziativa è Andrea Ferraioli, presidente del Consorzio Vita Salernum Vites (per i non addetti ai lavori il Consorzio vini della provincia di Salerno).

Un volto istituzionale che richiama attenzione mediatica e fiducia nel futuro. L’entusiasmo e la voglia propositiva ha coinvolto tutti, da Cesare Avenia presidente del Consorzio Tutela Vini Caserta VITICA a Ciro Giordano del Consorzio Tutela Vini Vesuvio per finire con Teresa Bruno che ha preso in mano la difficile gestione del Consorzio Tutela Vini d’Irpinia.

Immancabile la presenza accogliente e formativa dell’Associazione Italiana Sommelier, con il Delegato regionale Tommaso Luongo che ha condotto numerose Masterclass di presentazione dei vini e delle realtà più importanti campane. E Franco De Luca, docente e responsabile della didattica di A.I.S. Campania che prova a suggerrire abbinamenti stuzzicanti tra le tante tipologie messe a disposizione dall’impegno dei produttori vitivinicoli.

Madrina ed Ambasciatrice di Casa Campania è stata Chiara Giorleo, esperta di tutte le proposte più interessanti, rosati inclusi incredibili per versatilità ed eleganza. Qui la parte del leone la fa quasi sempre l’Aglianico, nobile varietà che racconta il proprio carattere mediterraneo all’interno del calice.

Numerosi i premi consegnati nella rassegna del Merano Wine Festival 2023 da The WineHunter e dalla Guida Vini Buoni d’Italia. Ai nostri microfoni Laura De Vito, giovane winemaker irpina di Lapio, con i suoi CRU di Fiano d’Avellino frutto di ricerca e zonazione dei poderi con la consulenza dell’enologo Vincenzo Mercurio. Infine Bartolo Sammarco che dalla Costiera Amalfitana, più precisamente Ravello, realizza piccoli capolavori del gusto dai ricordi tipici agrumati, salini e floreali.

Chiudiamo le nostre interviste con Libero Rillo, presidente del Sannio Consorzio Tutela Vini, dirimpettaio di Casa Campania con il proprio stand dedicato che ha fatto scuola partendo ancora 5 anni fa con tale progetto. Le ultime parole ad un grande rappresentante giunto al massimo vertice dell’OIV – Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino – l’enologo e titolare di Quinto Decimo prof. Luigi Moio.

L’arguta analisi sul futuro della Campania non poteva avere interprete migliore: siamo davvero sole, pizza e mandolino, o possiamo offrire molto altro a chi ancora non conosce una delle regioni più belle e ricche d’Italia dal punto di vista enogastronomico? A breve la risposta.

Champagne Bollinger: in principio era il legno

È un ventoso pomeriggio di settembre quando varchiamo il cancello di uno dei templi del Pinot Noir, la maison Bollinger. Siamo nel villaggio di Aÿ, uno dei diciassette grand cru di Champagne, vocato proprio al pinot noir, dove Bollinger produce bollicine dal 1829.

È tuttavia riduttivo circoscrivere la caratteristica produttiva  di Bollinger con l’utilizzo di non meno del 60% di pinot noir in tutte le cuvée. Lo stile della maison è più complesso: riusciamo a intuirne le sfaccettature durante la visita alla cantina storica e a catturarne l’essenza nella degustazione finale.

Iniziamo la nostra passeggiata all’aperto tra i filari del Clos Chaudes Terres, che insieme al Clos St. Jacques, per un totale di solo mezzo ettaro in Aÿ contro 179 di proprietà della Maison, è una parcella miracolosamente sopravvissuta alla fillossera e dunque ancora a piede franco. Da questo momento in poi ci prende metaforicamente per mano Tante Lily, al secolo Elisabeth Law de Lauriston-Boubers, che, vedova a soli 42 anni di Jacques Bollinger, dal 1941 tenne salde le redine aziendali fino al 1971, traghettando di fatto la maison nell’era moderna. A lei spetta l’intuizione del grande valore delle due piccole parcelle ancora a piede franco e la creazione nel 1969 del Blanc de Noirs Vieilles Vignes Françaises, che, nell’intenzione di Madame Bollinger, doveva rappresentare lo stile antico dello champagne. Le due parcelle vengono lavorate a mano con il solo ausilio di cavalli da traino e potate secondo l’antica tecnica della propaggine perpetuata. L’ultima annata commercializzata di Vieilles Vignes Françaises è la 2013, per un totale di 2477 bottiglie.

Attraversiamo la soglia della cantina storica e incontriamo immediatamente la barrique, vero fil rouge dello stile Bollinger. La prima fermentazione di tutte le uve viene effettuata in varia misura in acciaio e barrique. Solo il legno piccolo, però, è in grado di creare maggiore resistenza alla micro ossigenazione e un miglior potenziale di affinamento, tanto che le etichette millesimate della Maison provengono esclusivamente da fermentazione in legno. Le barrique, di terzo/quarto passaggio, provengono tutte dal Domaine Chanson, in Borgogna, proprietà acquisita nel 1999 da Bollinger. Ma per comprendere l’importanza che la barrique rappresenta nello stile produttivo della Maison, ci basti pensare che il legno per riparare le doghe proviene dalla foresta di Cuis, di proprietà della famiglia Bollinger dal 1829 e che tra le maestranze della casa, ci sono quelle dedicate esclusivamente alla manutenzione delle botti. Manutenzione che inizia circa tre mesi prima della vendemmia, quando vengono riempite d’acqua, per garantirne l’impermeabilizzazione, successivamente asciugate e infine sterilizzate, pronte ad accogliere esclusivamente la prima pressatura delle uve, la cuvée.

In seguito alla fermentazione alcolica, tutti i vini sono sottoposti a fermentazione malolattica e al termine del processo di vinificazione, dopo circa 6-8 mesi, avviene l’imbottigliamento. Notevole il fatto che anche i vins de reserve vengono imbottigliati in magnum e tappati con sugheri in attesa dell’utilizzo: si tratta di  circa 800.000 bottiglie conservate nei sotterranei della cantina, dove affinano tra i cinque e i quindici anni, con una piccola aggiunta di zucchero e lievito, che di fatto li rende delle vere e proprie bombe aromatiche. Il legno dunque è la firma Bollinger, utilizzato in  varie fasi e misure: parzialmente per vinificare gli champagne sans année, esclusivamente non solo per i millesimati ma anche per i vins de reserve, che andranno ad arricchire in percentuali differenti tutte le etichette della Maison.

Anche il tempo di affinamento in bottiglia è uno dei caratteri rappresentativi di Bollinger: la Special Cuvée affina per 36 mesi; la Grande Année, riposa per non meno di sette anni (l’ultimo millesimo imbottigliato è stato il 2014 e probabilmente il prossimo sarà il 2022); solo le migliori espressioni della già selezionata Grande Année superano i dieci anni di affinamento e vestono l’etichetta Bollinger R.D., dove le iniziali R.D. stanno per Récemment Degorgée, a sottolineare la caratteristica del prodotto che viene commercializzato poco dopo la sboccatura.  Anche quest’ultima etichetta geniale intuizione di Tante Lily, che lanciò nel 1967 il millesimo 1952 con l’intenzione di esaltare sia l’immediata freschezza della recente sboccatura sia il palato sontuoso, risultato del lunghissimo affinamento. 

SPECIAL CUVÉE

60% Pinot Noir, 25% Chardonnay; 15% Meunier

10% della massa vinificato in barrique

6/7% di vins de réserve affinate in magnum

36 mesi di affinamento

Dosaggio: 8 g/l

Remuage meccanico

Signature label della Maison, ne racchiude tutte le caratteristiche sopra descritte. La scelta del nome anglofono strizza l’occhio a uno dei mercati più importanti per Bollinger, il Regno Unito, dove la Maison è presente sin dal 1834. Legame rafforzato anche dal fatto che Bollinger è l’unico champagne bevuto da James Bond sin dal 1978.

Oro brillante alla vista, si caratterizza sin da subito per il carattere speziato, che si alterna ai sentori di finocchietto,  zucchero a velo, buccia d’arancia, e frutta secca tostata. Entra morbido in bocca, con effervescenza delicata e ricorda il pain d’epices di Natale. Al coup de nez è capace di rivelare anche un delicato carattere floreale.

GRANDE ANNÉE ROSÉ 2014

67% Pinot Noir, 33% Chardonnay

100% della massa vinificata in barrique

5% di vino Côte aux Enfants

7 anni di affinamento

5% di vino Côte aux Enfants

Sboccatura: Marzo 2022

Dosaggio 8 g/l

Remuage manuale

Rosato ottenuto da blend di vino bianco e rosso, come previsto da disciplinare in Champagne. Il vino rosso è il coteaux-champenois Côte aux Enfants, pinot noir di singolo appezzamento non vinificato in tutte le annate.

Brillante nel color rame, cattura immediatamente il naso per i sentori di petali di rose rosa e gelsomino africano che fanno da trama al caramello salato e al croccante di mandorle tostate. Il palato sensuale e avvolgente richiama continuamente al sorso e ammalia nel rimando alle spezie orientali e all’incenso. Per meditare se proprio da soli, ma meglio da godere in piacevole compagnia.

BRUNELLO DI MONTALCINO 2018 DI ARGIANO È IL MIGLIOR VINO DEL MONDO PER WINE SPECTATOR

BINDOCCI (PRES. CONSORZIO BRUNELLO): RICONOSCIMENTO ENORME PER L’AZIENDA E PER L’INTERA DENOMINAZIONE. A MONTALCINO QUALITÀ A PRESCINDERE DA ANNATE

(Montalcino – SI, 10 novembre 2023) Comunicato Stampa

È un Brunello di Montalcino il miglior vino del mondo 2023 per la celebre rivista americana Wine Spectator. L’Argiano 2018 diventa così il secondo Brunello ad aggiudicarsi il premio più ambito a livello globale, dopo l’affermazione di Tenuta Nuova di Casanova di Neri, nel 2001. “Siamo felici per l’azienda senese guidata da Bernardino Sani, sotto la proprietà dell’imprenditore brasiliano André Santos Esteves – ha detto il presidente del Consorzio del vino Brunello di Montalcino, Fabrizio Bindocci –. Questo premio, che vede per il secondo anno consecutivo la presenza di un Brunello sul podio di Wine Spectator, rappresenta un enorme riconoscimento per tutta la denominazione e conferma da una parte il rapporto virtuoso di Montalcino con gli investitori stranieri, dall’altra la capacità delle nostre imprese di esprimere la massima qualità anche in annate spesso accolte tiepidamente dalla critica”. Il Brunello di Montalcino 2018 di Argiano è il quinto “Wine of The Year” nella storia – tutta toscana – dell’Italia premiata da Wine Spectator. La qualità stellare dell’Argiano Brunello di Montalcino 2018 – cita nella presentazione la rivista statunitense – è frutto di oltre 10 milioni di dollari di investimenti realizzati nella tenuta in un decennio. Segno che nel mondo del vino, un cambio di proprietà o di paradigma stilistico può portare enormi benefici. Argiano è una proprietà con 57 ettari di vigneto, di questi quasi 22 sono destinati al Brunello e 10 al Rosso di Montalcino. Citata dal Carducci a fine ‘800 (“Mi tersi con il vin d’Argiano, il quale è buono tanto”), la tenuta dispone di un wine relais nella villa cinquecentesca.

50 Top Pizza World 2023: la pizza è ancora italiana?

Ci siamo sempre chiesti se sia nato prima l’uovo o la gallina. Adesso, nella splendida cornice del Teatro di Corte del Palazzo Reale di Napoli, la domanda che ci balena in mente è una sola: la pizza è ancora italiana?

Foto © Alessandra Farinelli

A giudicare dal primo posto parimerito tra Diego Vitagliano e Francesco Martucci, nella classifica di 50 Top Pizza World 2023, potremmo propendere per un responso positivo. Questo se non si tenesse conto della cronologia completa delle altre 99 posizioni, ove, con grande stupore, ne abbiamo davvero viste di tutti i colori.

Nulla di nuovo in realtà: l’Italian Style (da non confondere col famigerato Italian Sounding) è sinonimo di buona tavola e, soprattutto, buona vita. La pizza non poteva esimersi dal rispecchiare la parte positiva del Belpaese, fonte di allegria, convivialità e sapori. Da Napoli, capitale di questa nobile pietanza, al mondo intero, il passo è stato breve.

Foto © Alessandra Farinelli

E per sfatare un altro tabù, non sono solo emigrati a portare il verbo dell’Italia all’estero. Sempre più cittadini di varie nazionalità, per nulla imparentati con le nostre origini e cultura, riescono a compiere il passo decisivo aprendo locali da Top player della categoria. Posti dove la pizza diventa regina assoluta del territorio, ambita dalle classi sociali senza distinzioni di natura economica. Una sorta di “livella”, per citare un altro grande partenopeo come Totò, che pone sullo stesso piano il ricco e il povero, alla ricerca continua di sperimentazioni o di classicità.

Foto © Alessandra Farinelli

L’alimento viene contaminato, trasfigurato, per poi ritornare tale dalle vie della globalizzazione nelle nostre case. Non possiamo pensare che tale processo a ritroso manchi di influenzare anche le visioni dei padroni di casa, eccellenti maestri negli impasti e ancor più nel dressing, così come viene chiamato, in termine tecnico, il condimento.

Nella scelta delle materie prime di assoluta qualità, nel loro accostamento a volte quasi onirico, sta il segreto di ogni artista che dedica anima e corpo alla pizza. Un marchio che contraddistingue una “setta” di buongustai prima che pizzaioli, rispettosi di esaltare al meglio i gusti degli avventori, colpendo la loro fantasia e insegnando cosa voglia dire mangiar bene.

Spazio, dunque, ai protagonisti, tra premiati e organizzatori, in attesa della classifica 2024 di Top 50 Pizza.

(Le foto allegate al presente articolo sono di ph. Alessandra Farinelli per 50TopPizza)

Fontodi: la magia del Sangiovese in purezza nel cuore del Chianti Classico

Non capita tutti i giorni di varcare il cancello di cantine affascinanti come quella di Fontodi.

Ad accoglierci c’era il dinamico e autoctono Silvano Marcucci, panzanese doc, cuore pulsante dell’azienda, orgoglioso e consapevole di trovarsi in un territorio di rara bellezza. Dopo esserci sgranchiti le gambe passeggiando in vigna, Silvano ci ha illustrato la storia dell’azienda, per poi entrare in cantina e degustare con enorme piacere i vini. Dalla terrazza di Fontodi si gode di un panorama senza pari digradante verso le Alpi Apuane, l’Appennino Tosco-emiliano e lo splendore dei vigneti e oliveti sotto e circostanti.

Un’esperienza memorabile ed emozionante.

Fontodi si trova nel cuore del Chianti Classico, più precisamente nella vallata che si apre a sud del borgo di Panzano a forma di anfiteatro, denominata “Conca d’oro“.  Il biodistretto nel comune fiorentino di Greve in Chianti.

Un terroir rinomato da secoli per la sua alta vocazione alla viticoltura di qualità dovuta alla combinazione unica di elevata altitudine, terreni galestrosi, esposizioni ottimali e un microclima favorevole per l’allevamento della vite. Caldo e asciutto, caratterizzato da notevoli escursioni termiche tra le ore diurne e notturne.

L’azienda è, dal 1968, di proprietà della famiglia Manetti, con Giovanni Manetti attuale Presidente del Consorzio Vino Chianti Classico. Vanta circa  110 ettari di vigneti, condotti secondo i dettami dell’agricoltura biologica. La cantina è disposta su tre livelli e si avvale della forza di gravità, evitando l’uso di pompe elettriche. Negli anni ottanta qui è nato Flaccianello della Pieve e da allora il  successo è stato enorme, fra i grandissimi nomi della vitivinicoltura toscana. 

Panzano con il recente arrivo delle UGA (Unità Geografiche Aggiuntive) per la Gran Selezione, ha visto ancor di più certificare la propria qualità.

I vini degustati

Flaccianello della Pieve IGT 2019 – Sangiovese in purezza, matura in barriques e botti di rovere francese per 24 mesi. Tonalità rosso rubino intenso e luminoso, ricco e complesso, sprigiona sentori floreali di viola mammola, ribes, marasca, mora e di visciole sotto spirito, poi tabacco e china. Avvolgente e dotato di una nobile trama tannica, con un finale lunghissimo su cenni balsamici ed un sorso duraturo.

Chianti Classico Gran Selezione Vigna del Sorbo 2020 – Sangiovese in purezza, matura per 24 mesi in barriques e botti di rovere francese. Rosso rubino intenso, al naso è un’ esplosione di profumi, viola, lampone, fragola  ciliegia, prugna, rabarbaro e bacche di ginepro, al gusto è pieno ed appagante,  morbido, generoso ed armonioso.

Chianti Classico 2020 – Sangiovese in purezza – Matura in legno piccolo e botti grandi di rovere per 18 mesi – Rosso rubino luminoso, al naso rimanda sentori inizialmente di viola mammola e frutti a bacca rossa, come ribes e ciliegie, per poi proseguire su gradevoli note di spezie dolci. Al gusto è fine, sapido e suadente.

Chianti Classico Filetta di Lamole 2020 – Sangiovese 100% –  Rubino trasparente, rivela note ciclamino, erbe aromatiche, la tipica arancia sanguinella e spezie dolci.  Tannini setosi e vivace freschezza a conclusione di un elegante sorso.

Fontodi

Via San Leonino 89 – Loc. Panzano

50022 Greve in Chianti (Fi)

http://www.fontodi.com

Puglia: “Gusto Jazz” enogastronomia e musica per fare grande il territorio di Corato (BA) e delle Murge

La Quinta edizione di Gusto Jazz a Corato è di diritto tra i Grandi Eventi di Puglia.

Come ci è riuscita? Grazie al vincente connubio, ormai rodato, tra musica ed enogastronomia 100% pugliese. Non è mancata la stoccata di Joe Bastianich alla “sacralità del cibo italiano”, ovviamente con la sua inconfondibile, agrodolce ironia.

Otto giorni in cui la parola d’ordine è stata sinergia tra musica e buon cibo, questa la sintesi di Gusto Jazz. Giunta alla quinta edizione, la rassegna quest’anno si è arricchita del Parco del Gusto: due serate di confronto tra eccellenze enogastronomiche murgiane le cui caratteristiche sono, da sempre, artigianalità, estro creativo e grandi certezze a tavola.

La musica, sempre protagonista, ha scandito i passaggi della manifestazione verso il futuro. Con Alberto La Monica, direttore artistico e mentore della rassegna, abbiamo ripercorso i momenti salienti che hanno fatto di Gusto Jazz un evento imperdibile.

Photo credits: Francesco De Marinis

La musica al centro

Partiamo dall’inizio. Un sogno portare il Jazz lontano dalle classiche mete turistiche blasonate marittime. Alberto La Monica ci è riuscito: “l’idea è nata dal nostro desiderio – quello dell’associazione Art Promotion – di organizzare un evento che potesse diventare una punta di diamante nel cartellone culturale coratino. Volevamo realizzare qualcosa che fosse in grado di promuovere a 360 gradi il territorio sulla scia del Corato Jazz Festival che, negli anni, ha lasciato il suo segno. Si tratta di una naturale evoluzione che tiene al centro sempre la musica”.

Quest’anno il Festival è stato improntato alle voci femminili. Ad aprire la rassegna il 20 luglio Niki Nicolai. E poi Serena Brancale, Simona Bencini, Carolina Bubbico, Costanza Alegiani, Francesca Tandoni e Kelly Joyce. Voci internazionali nel panorama musicale soul e jazz. L’outsider di lusso è stato senz’altro Joe Bastianich, che in veste di musicista folk accompagnato dalla band Terza Classe, ha inaugurato il Parco del Gusto il 24 luglio. E chi meglio di lui avrebbe potuto farlo?

L’etica del buon mangiare

Il primo Parco del Gusto della rassegna ha messo insieme le eccellenze coratine e murgiane fatte di panificatori eccellenti come Marco Lattanzi del Panificio Toscano (tre pani Gambero Rosso 2024) fino alle golosità casearie di cui la città ne è ambasciatrice. Non sono mancate birre artigianali e le migliori cantine del circondario, tra cui Azienda Agricola Mazzone e la cooperativa Terra Maiorum che hanno dato voce alla cultura vitivinicola cittadina.

Il Parco del Gusto, secondo La Monica, è la naturale evoluzione di Gusto Jazz: “da quest’anno siamo tornati in centro con il Parco del Gusto, l’obiettivo è creare maggiore coinvolgimento. Una serie di eventi che contribuiscono alla promozione del territorio che è anche sinonimo di eccellenze enogastronomiche. Negli anni scorsi ci sono sempre stati momenti dedicati al tema, però come tutte le cose, si cresce. Il programma di quest’anno è stato ancora più ricco dal punto di vista gustativo”.

Photo credits: Francesco De Marinis

A Corato quando si parla di pasta c’è una voce che unisce tutti: quella della Pastificio Granoro, un’eccellenza a livello internazionale. Un passo ulteriori in avanti con la linea proveniente da grano 100% pugliese biologico. Si chiama Linea Dedicato ed è un modo per rassicurare il consumatore su un prodotto integro e salutare, importante per la dieta, simbolo dell’italianità e della Regione. Con lo chef Antonio Reale, re del padellone pugliese, sono state proposte due ricette, una in omaggio alla famiglia Bastianich dal sapore americano ma non troppo, l’altra ispirata all’orgoglio pugliese con tanto di salsiccia di cavallo e provola.

Quando si parla di carboidrati non si può prescindere dal comfort food per eccellenza, la pizza. Alimento su cui si potrebbe dibattere per ore, a Gusto Jazz è stata raccontata nella sua accezione contemporanea, ben diversa dalla classica espressione napoletana. Si chiama Contemporanea Pugliese e l’Italian Pizza Master Vincenzo Florio è tra i maggiori esponenti in materia. Anche in questo caso uno show cooking alla scoperta dei segreti che hanno reso la contemporanea non solo una combinazione di ingredienti, ma un vero e proprio stato d’animo da stendere a colpi di farina ed esperienza.

Photo credits: Francesco De Marinis

Un ensemble incredibile le due serate, proprio come farebbe un duo jazz. Se fare cibo è come comporre musica, l’abbiamo chiesto a tutti i protagonisti, Joe Bastianich compreso. A questa domanda, in conferenza stampa, ha risposto così “Non si può fare improvvisazione né in musica né col cibo, bisogna saper mettere insieme in modo ragionato ogni ingrediente come ispirazione, melodia, suoni, tecnica ed emozioni. Tutto questo può creare un brano e anche un piatto da mangiare”.

E pur riconoscendo la sacralità della cultura enogastronomica italiana, Bastianich invita tutti a prendersi un po’ meno sul serio, chiedendo, con ironia ovviamente, di derogare anche ad alcuni canoni del buon mangiare “Cappuccino dopo il branzino? Speriamo di no, ma non escludiamolo per chi proprio non può farne a meno. Dategli questo cappuccino e non rompete”. Senza mezzi termini, ma con il sorriso.

Photo credits Francesco De Marinis – al centro Alberto La Monica

Il cibo come musica per la bocca

Il cibo in ogni sua declinazione diventa gusto e diventa piacere, così come la musica. Ci chiediamo se serve una kermesse così grande e strutturata. La risposta è più che affermativa, soprattutto ora in cui il mangiare consapevole è fondamentale, così come ascoltare musica di qualità. Dal prossimo Gusto Jazz, secondo La Monica, dobbiamo aspettarci una coerenza con le passate edizioni, ma non solo: “non mancherà grande attenzione per ciò che il nostro territorio esprime con le sue eccellenze enogastronomiche a 360 gradi”.

Viva il Gusto, viva il Jazz!

Photo credits: Francesco De Marinis