“San Severo provincia di Foggia…”

Un giorno a San Severo (FG), alla ricerca di quell’identità pugliese ammirata e decantata in Italia e all’estero.

Lo ripeteva sempre Lino Banfi nei film commedia anni ’80: San Severo provincia di Foggia. Lo ripeteva come un mantra e tutti noi, compreso il sottoscritto, immaginavamo questo luogo intriso di un senso arcaico di bellezza agreste, di tradizioni e di genuinità degli abitanti.

E allora perché non trascorrere un giorno proprio lì, in compagnia di produttori che hanno fatto la storia dell’areale, guidati dall’autrice di 20Italie Serena Leo. Le video interviste contenute nell’articolo rappresentano uno spaccato verace dell’Italia Meridionale, dove le storie familiari si mescolano spesso a quelle aziendali e viceversa. Dove far qualità costa caro, perché non puoi usufruire degli agi e dell’abbrivio economico di altre realtà soprattutto del Centro-Nord.

Gianfelice D’Alfonso Del Sordo ci narra dell’importanza di una varietà autoctona come il Nero di Troia, in grado di dare vini di carattere, dalle sensazioni vellutate nella loro espressione tannica. Un corredo di frutti di bosco e sensazioni mediterranee uniche nel loro genere, il marchio di fabbrica del Sud. I suoli presenti sono ricchi di calcare e sedimentazioni marine fossili. Vengono chiamati in dialetto “coppanetta” dalle piccole colline (le coppe) dove si scavava la pietra di Apicena per le costruzioni.

L’azienda D’Alfonso Del Sordo è la storia di questo territorio, con il suo carico di ricerca e sperimentazione in cantina e vigna, tra uvaggi, blend di varietà sui campi e microvinificazioni separate per parcelle. Il racconto parte da un assunto storico di fatto: San Severo è da sempre un grande bacino enologico, con cantine sotterranee di rara bellezza, poste all’interno delle mura cittadine. Ci arriveremo per gradi, non dimenticando il passato fatto anche di povertà, dove i ragazzi potevano permettersi di giocare con una palla fatta di vinacce spremute e correre a nascondersi dietro a trattori, enormi torchi in legno e fienili. Gente avvezza alla semplicità, nei modi e nei gesti. Casteldrione è il Nero di Troia dalle sfumature rubino intense e dal sapore gioviale ed elegante, che non ti obbliga ad un abbinamento forzatamente impegnativo.

Da Pisan Battel, in compagnia di Antonio Pisante – titolare con Leonardo Battello di questa splendida realtà – abbiamo parlato dell’altra gemma di San Severo: la spumantistica di altissimo livello. L’enologo Cristiano Chiloiro paragona il passato ed il presente delle bollicine locali ad un hardware sofisticato, che cerca soltanto un software in grado di decifrarlo e assestarlo in maniera definitiva.

In poche parole le potenzialità ci sono, in particolare per il Bombino Bianco, ma serve ancora un pizzico di consapevolezza ed autocoscienza per eguagliare i vertici mondiali della produzione.

Cremoso e avvolgente il Brut Metodo Classico da Bombino Bianco, ma a sorprenderci per finezza e duttilità d’utilizzo è il Pas Dosè Rosè Metodo Classico da Nero di Troia in purezza. Lo stile è tutto ed i vini di Pisan Battel si rivelano un fiore all’occhiello pronto al confronto con i mercati più esigenti.

Pagina conclusiva del nostro percorso la visita da D’Araprì, i pionieri della bolla pugliese. Daniele Rapini spiega, con gli occhi lucidi d’emozione, gli inizi del padre, dalle esperienze in Francia fino ai primi imbottigliamenti arditi, che finivano spesso con le carcasse di bottiglie scoppiate per l’alta pressione. Poi la svolta ed il salto di qualità, divenendo dai primi anni 2000 il riferimento per un movimento che ha coinvolto numerosi vigneron.

Un “distretto dello spumante” mancante solo sulla carta, per numeri ancora troppo esigui e opinioni divergenti tra i vari attori. La posta in gioco è elevata, si tratta del futuro stesso della Denominazione e del suo cavallo di razza, che siamo certi porterà le luci della ribalta anche alle altre versioni ferme, a base degli autoctoni che il terroir sa offrire.

A Natale un brindisi a tutta Puglia

Piatti tipici e calici di vino che non possono mancare sulle vostre tavole

Natale è davvero alle porte e il tempo per stilare il perfetto menu per pranzo e cena, stringe. In Puglia – e chi vi scrive è piuttosto di parte – ci si sta già dando da fare per rispettare appieno le tradizioni senza alcuna sbavatura. Tra le variazioni sul classico plateau di crudo di mare o sul “sopratavola” fatto di cruditè di verdure, senza farsi mancare i dolcetti fritti o di pasta di mandorla in ogni declinazione, da Nord a Sud andiamo alla scoperta di tutta la tipicità del buon mangiare e di abbinamenti “enoici” 100% pugliesi per festeggiare davvero al meglio.

Fritto e bollicine

Che Natale è senza la frittura? Certamente non il tipico Natale pugliese! Sulle tavole del tacco d’Italia dall’8 dicembre fino all’Epifania non possono e non devono mai mancare le frittelle di pasta cresciuta. Focaccine, pettole, scorpelle, tutte gustose declinazioni che “aprono lo stomaco” prima di grandi battaglie a tavola. Le frittelle, rigorosamente vuote o al massimo aromatizzate al pomodoro o al rosmarino, sono perfette sempre e si accompagnano con una bollicina, magari a km zero. Tra le referenze che abbiamo amato di più e a cui non vogliamo rinunciare, c’è il metodo classico da Bombino Bianco.

Un vitigno autoctono, ben radicato in Capitanata foggiana e lavorato finemente a San Severo, dove la tradizione spumantistica è storica. Una referenza raffinata, che mette tutti d’accordo in tavola la firma D’Araprì – RN spumante da Bombino Bianco che nasce da una prima fermentazione in tonneaux, svolge una permanenza sur lie, senza farsi mancare ripetuti bâtonnage. L’affinamento sui lieviti  e bottiglia poi, va avanti per 36 mesi. Accompagna egregiamente un aperitivo festoso tutto pugliese, a cui si aggiunge sempre qualcosa in più prima di passare davvero al pezzo forte.

Quando si va di bianco

La natura contadina di Puglia è sempre ben nota, ma tra le ricette che non devono assolutamente mancare per il 26 dicembre, il detox day per intenderci, è la minestra di verdure o la cosiddetta fògghja mìsche. Uno sformato di verdure di stagione ripassate in forno, condito con brodo e con un po’ di carne sfilacciata, il tutto tenuto insieme da mozzarella e formaggio grattugiato. Una teglia che arriva in tavola trionfante e si accompagna con focaccine fritte da riempire semppre con la verdura o con un po’ di pane. Un piatto che simboleggia in pieno il detto “Natale al pomodoro, Santo Stefano in brodo”.

Il perché sta nella riscoperta della tradizione, o anche nell’illusione che mangiare verdura, in qualche modo, serva per alleggerirsi dai troppi sensi di colpa di precedenti pranzi. Ma cosa scegliere in abbinamento? La Falanghina in regione sta riscoprendo la sua stagione felice e quella Cortecampana di D’Alfonso del Sordo è un ottimo compromesso per chi cerca un vino di carattere, perfetto per reggere piatti di questa portata, frittura compresa.

Vigilia al sugo

La vigilia è pesce, certo, ma un piatto di pasta bisogna pure mangiarlo, meglio se al sugo. Allora ecco trionfare il baccalà al pomodoro da servire con le amate lagane, un tipo di pasta che ben si presta a trattenere il saporito sugo di pesce. Da Nord a Sud questo è un piatto trasversale, che piace a tutti ed è piuttosto semplice da preparare. Bastano un po’ di sponsali, pomodori, baccalà già spinato e una padella pronta a fare faville. In qualche minuto il sugo è già pronto per tuffarci dentro le lagane da risottare e da portare a tavola.

Si presta bene per terminare quest’impresa un rosato da Bombino Nero e con quel po’ di Nero di Troia quanto basta. Direttamente da Castel del Monte è indicato per i suoi sentori non scontati, freschi e fragranti, con dei ricordi di frutta di bosco. Fiore di Ribes di Cantina Santa Lucia è un’espressione di Puglia di cui proprio non si può fare a meno, nemmeno per le feste.

Non è Natale senza dolcetti

Il periodo che precede il 25 Dicembre in Puglia è tutto un fabbricare dolci di ogni misura e gusto, per i più piccoli, ma anche per gli adulti golosi. Tra i grandi classici a base di mandorle spiccano i sasamelli. Tipici della piccola Gravina in Puglia, hanno saputo conquistare proprio tutti per il sapore inconfondibile che ci fa dire subito “Ora è Natale”. Preparati con mandorle tritate, rigorosamente di Toritto, farina, cacao amaro, cannella vin cotto, chiodi di garofano e olio evo, chiudono in bellezza il pranzo delle feste.

Per accompagnarli il Primitivo di Manduria Dolce Naturale è la giusta scelta e fa sempre bella figura. Il suo livello di zucchero non è mai troppo invadente o stucchevole, in grande equilibrio con tannicità e acidità. Il Chicca di Varvaglione 1921, sposa perfettamente l’atmosfera avvolgente del Natale con tutti i suoi profumi.

Mai dire no al panettone

Se il panettone non è figlio della tradizione di Puglia, bisogna dire che molte cose sono cambiate e le tavole di casa, ormai, si sono aperte alle declinazioni più fantasiose del gran lievitato milanese. Sono molti i mastri panificatori che in questi anni si sono cimentati a trovare la ricetta del panettone pugliese per eccellenza, ma Eustachio Sapone ha trovato la formula perfetta con il suo Pugliettone. Realizzato interamente con ingredienti regionali, omaggia la regione così, arrivando in tavola con un concept ben definito. “Arancia candita del Golfo di Taranto, finocchietto selvatico e odori della Murgia, Burro di Turi, fichi dottati del Salento e la tipica glassa realizzata con le mandorle di Toritto.

Una cottura in contenitore d’argilla con dei fori praticati per liberare il vapore in eccesso durante la cottura”. Una formula semplice, però di sostanza. Inutile dire che è un’armonia di sapori che piacerà anche agli haters del candito. Il Moscato di Trani è la scelta per eccellenza, con le sue inconfondibili note fruttate che ricordano gli agrumi canditi e che vanno a intersecarsi perfettamente con le arance tarantine e la mandorla di Toritto utilizzata per il topping del Pugliettone. Un abbinamento ben riuscito, quello del Moscato di Trani di Villa Schinosa, in ogni singolo dettaglio.

Buone Feste a tutti e che Natale pugliese sia!

Buona Zuppetta a tutti! In Puglia a San Severo il Natale inizia così…

Natale sta arrivando ed è il momento di mettersi comodi per studiare a puntino il menu da proporre. Se ai grandi classici delle feste ormai triti e ritriti, preferiamo puntare su qualcosa di veramente insolito, dal gusto caratteristico e storico, dobbiamo scavare nelle nostre radici. Oggi, vi portiamo con 20Italie ai piedi del maestoso Gargano, precisamente a San Severo in provincia di Foggia.

Una terra da sempre legata all’agricoltura e al latifondismo, la San Severo del Natale si racconta a tavola con la Zuppetta. Un piatto all’apparenza semplice, eppure cruccio di tutti i veri cultori della gastronomia. Il piatto – ad alto contenuto di lattosio va detto per gli intolleranti – è una sorta di carta d’identità dell’essere figli di questi luoghi. Con Alfredo Mennelli, volto della gastronomia cittadina “Da Alfredo”, abbiamo scoperto tutti i segreti che si celano dietro la preparazione di questo maestoso piatto. Non mancherà, per i wine lovers, uno speciale abbinamento a base di bollicine, tutto festoso.

La storia

In principio era il pancotto. Si, perché la paga di un contadino, nella migliore delle ipotesi, era pane e verdure, che mescolate insieme riuscivano a mandare avanti una famiglia anche per più giorni. Ma i caporali, i cosiddetti capoccia, cosa mangiavano? Grado maggiore vuol dire ricompensa maggiore, allora il loro pancotto si arricchiva di proteine come formaggio e carne. Ed è così che nasce la Zuppetta di San Severo, da una ricca ricompensa. “Unendo il formaggio ecco la zuppetta, il pancotto dei ricchi. Una ricetta all’apparenza facile che mette insieme il pane di grani antichi, scamorza, caciocavallo podolico e tacchino, tutto ciò che i contadini potevano solo sognare”. A dircelo è proprio Alfredo.

La Zuppetta, con gli anni, si è guadagnata il titolo di piatto tipico natalizio perché c’è bisogno di tempo nella preparazione e perché è un piatto che mette a dura prova le massaie. Ma nessuno può farne a meno sulle grandi tavole addobbate a festa. Alfredo, che ha condotto una ricetta proprio analitica sul piatto, ha scoperto ogni suo segreto in modo da creare, assieme ad altri sanseveresi una sorta di disciplinare etico da rispettare. Le fonti, quelle dirette e autentiche, provengono dalla saggezza e dai ricordi degli anziani del paese. “Il tacchino deve essere necessariamente nostrano, grasso e allevato in masseria, perché altrimenti la resa in termini di sapore è diversa. Con le parti migliori, ossa e pelle comprese, bisogna preparare il brodo da cuocere lentamente almeno per tre ore. Chiodi di garofano, alloro, sedano carote, zucchine, tutti sapori semplici ma autentici. Questo composto unito alla carne successivamente sfilacciata, saranno la preziosa essenza del sapore della zuppetta. A ciò dobbiamo aggiungere il caciocavallo podolico garganico, scamorza stagionata e il pane tagliato a fette spesse e bruscato, strato per strato” – continua Alfredo – “Per completare la ricetta ci deve essere anche una punta di cannella, che resta comunque facoltativa in base ai propri gusti”.

La tradizione della Zuppetta resta e si tramanda da generazione in generazione. Custodirla al meglio però, si può ed è per questo che è necessario preservarne la ricetta originale. Ma quale futuro c’è per questo piatto ce lo dice Alfredo Mennelli “Da tanti anni si sta ragionando sulla creazione di un gruppo che ne preservi l’integrità del piatto. Proprio in questi giorni è tornata l’idea di formare una sorta di Confraternita della Zuppetta con un gruppo di sanseveresi innamorati del piatto. Non manca anche la possibilità di inserire il piatto tra i presidi Slow Food”.

La preparazione

La Zuppetta può definirsi una lasagna d’altri tempi perché è tutta una questione di strati. Si inizia dalle fette di pane, adagiate in una comoda teglia rettangolare con un fondo di brodo di tacchino. Cospargere, quindi, con carne, scamorza, mozzarella sfilacciata caciocavallo a fette e ripetiamo, fino a riempire la teglia in altezza. Una volta completato il tutto si va dritti in forno per mezz’ora a 180 gradi per rendere lo sformato filante e dorato e se la parte superiore sembra seccarsi nessun problema, aggiungendo il brodo tutto si inumidirà come da tradizione.

La proposta vino

Il momento fatidico è arrivato: cosa abbinare ad una ricetta di ottima complessità organolettica? Sicuramente ciò che serve è potenza e pulizia al palato, ma per i più romantici anche quella nota di territorio con un prodotto local a chilometro zero non può mancare. Ecco perché questo piatto – che per i sanseveresi è quasi una religione – va abbinato a qualcosa che parli di “casa”. In una terra in cui le bollicine sono il biglietto da visita per finezza e unicità, la nostra scelta va sull’azienda Pisan Battel. L’etichetta nata dal pensiero di Antonio Pisante e Leonardo Battello, è un omaggio all’autoctono, ma anche all’evoluzione della bollicina sanseverese, biglietto da visita di questa città e di questa terra quasi di confine. Per la Zuppetta abbiamo scelto il Metodo Classico Brut da Bombino Bianco da 24 mesi sui lieviti: gli aromi raffinati al naso e un palato audace reggono alla grande la succulenza e untuosità della Zuppetta. Morso dopo morso, sorso dopo sorso, senza troppi pensieri. Perché in fondo, la tavola delle feste deve essere armoniosa, leggera, frizzante. Proprio come ciò che ci aspetta al calice.

Buona Zuppetta di San Severo a tutti voi!


Puglia: Pepenero, a Bisceglie il bistrot all’italiana nato “per amore di casa”

Raccontarsi liberamente attraverso la propria cucina si può. Siamo a Bisceglie da Pepenero, il bistrot
italiano, come lo definisce lo chef patron Daniele Antonelli.

Pepenero Bistrot Italiano a Bisceglie vuole discostarsi dalla miscellanea modaiola pugliese in cucina. Già osteria Slow Food dal 2020, nei suoi primi 10 anni di attività vuole mettere il punto sui traguardi raggiunti e far luce sul futuro all’insegna sempre dell’amore di “casa”.

Dal 2013, nel suo giardino urbano, ha scelto di riscrivere la tradizione nel piatto e sulla pizza. Location in pieno Apulian Style, piatti lavorati il giusto e belli da vedere, sono gli elementi che lo rendono un bistrot fuori da ciò che già ci aspettiamo. Tra gli ingredienti che scrivono il successo di Pepenero c’è sicuramente una gran voglia di raccontare la Puglia al piatto nobilitandola attraverso la semplicità di ogni ingrediente autoctono.

Dove siamo

Basta allontanarsi quel tanto che basta dal mare di Bisceglie – città nota per i suoi sospiri – per giungere da Pepenero. All’ingresso un elegante giardino urbano ci protegge dal caos cittadino. Verde e legno ci accompagnano verso l’interno del locale dove il dettaglio fa la differenza. Tinte chiare, legno alle pareti, vimini a soffitto e lavagne sempre pronte a scandire il tempo del bistrot e niente tovaglie, ma eleganti centrini che ricordano quelli intrecciati dalle nonne. Un omaggio shabby chic accoglierà le pietanze del locale, per niente scontate o ordinarie, in armonia con l’interno. Ad occuparsi dei particolari, sin dal 2013, è Marirosa Castriotta, moglie di Daniele Antonelli.

Squadra che vince non si cambia

Al timone di Pepenero c’è Daniele Antonelli, cresciuto tra la pasticceria e un diploma da geometra messo subito nel cassetto. La cucina è sempre stato il suo rifugio; tra esperienze italiane ed estere ha saputo prendere tutto il buono che è venuto. Londra con chef Patrice Loni, ma anche Belgio e Francia, le palestre che lo hanno forgiato fino al suo ritorno a casa, a Bisceglie. Nel 2013 inizia la storia di un bistrot non convenzionale “Un po’ per caso, un po’ per amore di casa” dirà lo chef. Un progetto cresciuto con senso di appartenenza e voglia di proporre novità da mangiare in una città come
Bisceglie ancorata alle tradizioni culinarie, alle volte, più agée.

A fargli compagnia animando la brigata di cucina c’è chef Antonio Modugno, esperienza da sous chef. Entra in cucina dieci anni fa e il suo mood ha sposato subito quello di Antonelli “Creo i miei piatti partendo dall’ingrediente, sviluppando l’idea attraverso tecnica, ricordi e associazioni affettive. Sottovuoto, marinatura e osmosi sono le mie tecniche di riferimento. Da lì nasce una nuova ricetta, che trae forza dal territorio e si arricchisce di una profonda attenzione estetica”.

La degustazione e la carta

PepeNero ha una cucina fluida che attraversa le stagioni. Il territorio fa la parte del leone, ma le tecniche del zero spreco impongono l’utilizzo di tutto ciò che arriva in cucina. Pesce, carne, vegetali, in diverse ed esaltanti forme. Materie prime che caratterizzano “casa” eticamente in accordo con la filosofia del chilometro zero “La materia prima per noi preziosa può essere la cima di rapa di Minervino Murge, la triglia di giornata, i calamaretti e lo sgombro. Mettiamo in carta anche le aragoste, solo se sono dell’Adriatico e quando sono disponibili”.

E se un semplice uovo esce dall’ovvio per essere arricchito da una frittura leggera e cicorie crude croccanti, anche una semplice triglia arriva in carta come un piatto di punta pronto a conquistarci con la sua croccantezza. La proposta di chef Antonelli si esalta quando gli si da carta bianca; un percorso
degustazione “A occhi chiusi” in grado di raccontare, dall’antipasto al dolce, la sua cucina. Non mancano mai i risotti e la pasta ripiena, punto di forza in ogni sua declinazione estiva o invernale.

Da bere c’è un’agile proposta al calice che accompagna ogni portata del percorso, oppure per chi vuole mettersi alla prova con una bottiglia, da Pepenero potrà scegliere tra circa 200 referenze. Rossi, rosati, bianchi, orange, racconteranno l’Italia del vino.

Dedicata ai golosi c’è un’esperienza interattiva tra territorio e buone idee da far diventare dessert. Dalle lavorazioni con frutta fresca, rigorosamente stagionale e territoriale, prendono forma rivisitazioni dei grandi classici, come il castagnaccio. Servito con un rinfrescante gelato all’alloro e ginito con un giro di olio extravergine di oliva dalla cultivar autoctona Coratina, mette un punto fermo sulle potenzialità della terra di Puglia.

La pizza un capitolo a parte

I lievitati da Pepenero sono ciò che hanno fatto e fanno la storia mainstream del locale. Pane, focaccia e naturalmente pizza. Quest’ultima vive di luce propria, è un biglietto da visita e non un prodotto qualunque. Partiamo dall’impasto frutto di uno studio in continua evoluzione. Farina tipo 0 con germe di grano e tipo 1 variabile in base allo scouting periodico, semola di grano duro Korasan, idratazione al 72%, blend di oli da Coratina e Ogliarola, sale lievito madre e quel tanto che basta di lievito di birra. Se puristi del lievito madre state storcendo il naso, attenzione perché c’è una spiegazione tecnica a riguardo e ce lo spiega chef Antonelli “Non bisogna rinunciare sempre e comunque a ciò che la tecnica ci mette a disposizione. Basta saper dominare al meglio le proporzioni per avere un impasto assolutamente digeribile e senza nessuna defaillance”. Il risultato è una pizza contemporanea, con la giusta consistenza dal bordo non troppo alto fino alla base che regge perfettamente gli ingredienti, anche quelli in apparenza più “ingombranti”.

Taranto: guida essenziale alla scoperta della città dei due mari

L’incanto delle mitologiche sirene, l’influenza culturale di Sparta e della Magna Grecia, fanno di Taranto una delle mete italiane più interessanti da visitare.

Unica nel suo genere è chiamata la “città dei due mari” poiché unisce Mar Grande e Mar Piccolo. Taranto è pronta a far parlare di sé, non solo per le note vicende legate all’acciaieria, ma per un fermento culturale che rimette al centro storia e tradizione da tramandare nei secoli.

Taranto, per noi gastronomi itineranti, significa anche cozze nere e Primitivo di Manduria, da gustare secondo il giusto pairing per non sacrificare mai il gusto. Andare alla scoperta di questa città equivale al mettersi alla prova per una giornata diversa dal solito, o per un weekend all’insegna di scoperte a tema cultura, buon vivere, buon mangiare e ovviamente, buon bere.

Attraverso le epoche per fare storia

Le origini si perdono nei tempi e ogni traccia è certificabile anche solo percorrendo le sue strade. Le prime, datate VII secolo A.C., sono riconducibili alla spartana Taras. Nell’epoca della massima espansione della Magna Grecia, Taranto è diventata un punto di riferimento per il commercio, data la posizione strategica sul mare. Crocevia di differenti culture, testimoniate dal MArTA, Museo Archeologico Nazionale di Taranto, che possiede oltre 200.000 reperti archeologici dalla preistoria fino ai giorni nostri. La testa di donna è una delle opere più incisive per bellezza e conservazione, senza dimenticare le teste del giovane Cesare Augusto ed Eracle.

Il Castello Aragonese, in tutta la sua magnificenza, fa da vedetta sul mar Piccolo dal suo isolotto. È una struttura visitabile che dimostra quanto le diverse epoche ne abbiano segnato l’evoluzione, maestoso simbolo della città. Il Ponte Girevole, o Ponte Porta Nuova, è invece una sorta di lasciapassare per le navi più grandi che devono solcare il Mar Piccolo. Un gioiello di ingegneria.

Importante il centro storico che con la sua architettura senza età. Suggestive le stratificazioni degli edifici in superficie e nei sotterranei. Si, certamente, perché Taranto annovera cripte e ipogei visitabili, come l’Ipogeo di Palazzo de Beaumont Bellacicco situato ben 5 metri sotto il livello del mare.

La Taranto amante della Natura

Se la storia di Taranto sembra essere volta a uno sviluppo industriale, certamente non mancano le eccezioni che stupiscono a pochi passi dalla costa. La svolta naturalistica l’assicura l’associazione Jonian Dolphin Conservation (in sigla J.D.C.) che ci porta a scoprire i cetacei più intelligenti del mare: i delfini. L’attività, iniziata nel 2009, è orientata allo studio di questa specie che ha trovato un habitat perfetto per prosperare, divenendo una icona. La J.D.C. coniuga il sano divertimento di una gita in barca, all’osservazione dei delfini che saltano tra le onde, alla scoperta della biodiversità marina ionica. La mission, riuscita, è quella di vivere un’esperienza giornaliera irripetibile con approdi verso paradisi incontaminati.

A tavola la regina

La cozza tarantina, carnosa e saporita, è la regina della tipicità territoriale. Presidio Slow Food al quale hanno già aderito oltre venti mitilicoltori, richiedo impegno nel rispettare canoni precisi per poter essere identificata come tarantina al 100%, riguardanti le tempistiche di allevamento, il rispetto dell’ecosistema circostante, l’impatto ambientale ridotto. La migliori cozze sono quelle del Mar Piccolo, poiché beneficiano delle correnti di acqua dolce, i cosiddetti “citri”. L’afflusso di acqua salmastra crea le condizioni ideali per la coltivazione di questi mitili, che risultano così meno sapidi. Si presta perfettamente per i tubettini con le cozze, un classico di Puglia, al naturale nella classica impepata rigorosamente al verde, oppure con olio, aglio e peperoncino, e gratinate per chi non vuole rinunciare a sapori più forti. La cozza “integralista” è quella che si gusta cruda, al massimo intinta in un mix di olio, limone, pepe e prezzemolo.

Terra di Primitivo

E se l’idea delle cozze cucinate in modi più disparati possibili, ci fa venir sete, allora è il momento di andare alla scoperta delle realtà vitivinicole territoriali. Prima di tutto è bene dire che Taranto è terra di Primitivo di Manduria. Proprio verso il Golfo di Taranto si concentrano i vigneti più rappresentativi. Il territorio comprende soprattutto la città di Manduria, ma non manca Francavilla Fontana, limite settentrionale dell’areale. Rientrano nella provincia anche Carosino, Monteparano, Leporano, Pulsano, Faggiano, Roccaforzata, San Giorgio Jonico, San Marzano di San Giuseppe, Fragagnano, Lizzano, Sava, Torricella, Maruggio e Avetrana, oltre ad Erchie, Oria, Torre Santa Susanna in provincia di Brindisi. Ne vengono fuori vini unici, freschi e dalla muscolatura mai eccessiva, ottimi per accompagnare carni cotte al fornello, (su tutte le bombette), una prerogativa della zona che riflette le abitudini della vicina Valle d’Itria. Rossi che, nella versione Riserva, si impreziosiscono di sentori terziari senza mai snaturarsi. Per una cena pop il Primitivo di Manduria si esprime perfettamente come rosato, perfetto per le chiancaredde al sugo di pomodoro e basilico, o con la semplice frisella artigianale.

Anche il Primitivo di Manduria Dolce DOCG ha il suo riconoscimento, accompagnando tutto l’anno il fine pasto, dolcetti di Natale inclusi. Su tutti vincono sempre le carteddate, strisce di pasta da friggere e inzuppare nel vin cotto d’uva o fichi. Primitivo di Manduria è sinonimo anche di enoturismo, quindi per tutti i wine lovers non mancano cantine immerse nelle campagne pugliesi più autentiche e suggestive d’Italia.

“Al Convento” a Cetara (SA) l’enogastronomia campana e pugliese si mescolano brindando al presente

Costiera Amalfitana e Murge, Cetara e Manduria.

Poco in comune verrebbe da pensare. L’una, patria di pescatori – incastonata tra le rocce che degradano verso il mare del monte Falerio – e l’altra, invece,  contrasto tra la quintessenza del Mediterraneo, ma foriera di terra brulicante e sabbiosa, patria di uve a bacca rossa, dove è il Primitivo a sventolare.

Difficile che le due realtà possano, allora, incontrarsi anche a tavola. Perché pensi Manduria e dici Primitivo. Pensi Cetara e dici alici e le sue variazioni. Eppure (per fortuna) gli stereotipi sono stati costruiti solo per essere abbattuti da chi è curioso.

E così ne viene fuori che in una piovosa serata settembrina, al ristorante Al Convento di Cetara, l’istrionico patron Pasquale Torrente – simbolo di una ristorazione cetarese resistente alle mode e fortino di cultura gastronomica stretta tanto quanto le maglie delle reti da pesca delle sue amate alici – trova il modo per abbatterli.

Lo fa attraverso quelle splendide ceramiche vietresi, trasformati in piatti colorati e finemente decorati, che suggellano l’appartenenza locale di ogni portata. Nulla che non sia di quella terra, nulla che non sia pescato in quel mare. Nulla che non possa non avvicinarsi a 300 km di distanza passando per le Murge e arrivando a stazionarsi nei dintorni di Manduria.

Cantine San Marzano, azienda vitivinicola nata nel 1962 dall’unione di 19 vignaioli in un piccolo comune della provincia tarantina come San Marzano di San Giuseppe. Oggi, a distanza di oltre 60 anni, la Cooperativa è diventata una delle grandi espressioni enologiche pugliesi.

Al suo presidente, Francesco Cavallo, e soprattutto agli attuali 1.200  viticoltori associati, il merito di aver saputo unire tradizione e innovazione in quei 1500 ettari di vigneti pugliesi costituiti principalmente da negroamaro, primitivo, susumaniello, malvasia e verdeca.  

Ed è stato allora in quell’antico chiostro del ’600 – immagine da cartolina per i numerosi turisti in visita a Cetara e oggi sede del ristorante Al Convento – che i piatti creati da Gaetano, figlio di Pasquale Torrente, sono stati capaci di stregare tutti e di dimostrare che, tra le tante qualità dei vini pugliesi, c’è senza dubbio anche quello di sposarsi con la buona tavola.

Il Calce Rosè – metodo classico a base di chardonnay e negroamaro, con sosta sui lieviti per oltre 36 mesi, sembra giocare divinamente con l’iconica bruschetta burro e alici, grazie alla sferzata di freschezza regalata dal sorso.

La pacatezza di “Tramari” Salento Igp Rosè a base di primitivo, sa ben gestire la cheviche di ricciola che, a tratti, sprigiona l’irriverenza di piccantezze sapientemente dosate.

Una frittura sotto forma di frittatina di pasta e di crocchette di patata e bottarga – la cui alta menzione va all’olio utilizzato, studiato appositamente da Gaetano e Pasquale, per garantire il massimo della leggerezza – si lascia accompagnare dal Salento Igp “Edda” (“lei” in dialetto salentino). Chardonnay (con una minoritaria percentuale di bacche bianche autoctone), carico di materia e ricco di influenze marine, con acidità e struttura in grado di non aggiungere nulla di più e di non sottrarre nulla di meno alla complessità del cibo.

Mentre un saporitissimo tubetto con zuppa di pesce trova nel Primitivo Salento Igp “Sessantanni”, il cui numero ricorda il sessantesimo compleanno di Cantine San Marzano, il perfetto complementare in un sorso di assoluto equilibrio gusto-olfattivo e di lunga persistenza. E se di tradizione si parla non poteva mancare un omaggio alla “pippiata” napoletana con il ragù che diventa quasi un’istigazione a finire il piatto in scarpetta, senza nessun senso di colpa.

L’abbinamento è con il re dei vitigni pugliesi, e trova il suo culmine nel Primitivo di Manduria Dop “Sessantanni”. Intenso, dalla leggera tostatura e dalla bocca di grande lunghezza gustativa.

Puglia: “Gusto Jazz” enogastronomia e musica per fare grande il territorio di Corato (BA) e delle Murge

La Quinta edizione di Gusto Jazz a Corato è di diritto tra i Grandi Eventi di Puglia.

Come ci è riuscita? Grazie al vincente connubio, ormai rodato, tra musica ed enogastronomia 100% pugliese. Non è mancata la stoccata di Joe Bastianich alla “sacralità del cibo italiano”, ovviamente con la sua inconfondibile, agrodolce ironia.

Otto giorni in cui la parola d’ordine è stata sinergia tra musica e buon cibo, questa la sintesi di Gusto Jazz. Giunta alla quinta edizione, la rassegna quest’anno si è arricchita del Parco del Gusto: due serate di confronto tra eccellenze enogastronomiche murgiane le cui caratteristiche sono, da sempre, artigianalità, estro creativo e grandi certezze a tavola.

La musica, sempre protagonista, ha scandito i passaggi della manifestazione verso il futuro. Con Alberto La Monica, direttore artistico e mentore della rassegna, abbiamo ripercorso i momenti salienti che hanno fatto di Gusto Jazz un evento imperdibile.

Photo credits: Francesco De Marinis

La musica al centro

Partiamo dall’inizio. Un sogno portare il Jazz lontano dalle classiche mete turistiche blasonate marittime. Alberto La Monica ci è riuscito: “l’idea è nata dal nostro desiderio – quello dell’associazione Art Promotion – di organizzare un evento che potesse diventare una punta di diamante nel cartellone culturale coratino. Volevamo realizzare qualcosa che fosse in grado di promuovere a 360 gradi il territorio sulla scia del Corato Jazz Festival che, negli anni, ha lasciato il suo segno. Si tratta di una naturale evoluzione che tiene al centro sempre la musica”.

Quest’anno il Festival è stato improntato alle voci femminili. Ad aprire la rassegna il 20 luglio Niki Nicolai. E poi Serena Brancale, Simona Bencini, Carolina Bubbico, Costanza Alegiani, Francesca Tandoni e Kelly Joyce. Voci internazionali nel panorama musicale soul e jazz. L’outsider di lusso è stato senz’altro Joe Bastianich, che in veste di musicista folk accompagnato dalla band Terza Classe, ha inaugurato il Parco del Gusto il 24 luglio. E chi meglio di lui avrebbe potuto farlo?

L’etica del buon mangiare

Il primo Parco del Gusto della rassegna ha messo insieme le eccellenze coratine e murgiane fatte di panificatori eccellenti come Marco Lattanzi del Panificio Toscano (tre pani Gambero Rosso 2024) fino alle golosità casearie di cui la città ne è ambasciatrice. Non sono mancate birre artigianali e le migliori cantine del circondario, tra cui Azienda Agricola Mazzone e la cooperativa Terra Maiorum che hanno dato voce alla cultura vitivinicola cittadina.

Il Parco del Gusto, secondo La Monica, è la naturale evoluzione di Gusto Jazz: “da quest’anno siamo tornati in centro con il Parco del Gusto, l’obiettivo è creare maggiore coinvolgimento. Una serie di eventi che contribuiscono alla promozione del territorio che è anche sinonimo di eccellenze enogastronomiche. Negli anni scorsi ci sono sempre stati momenti dedicati al tema, però come tutte le cose, si cresce. Il programma di quest’anno è stato ancora più ricco dal punto di vista gustativo”.

Photo credits: Francesco De Marinis

A Corato quando si parla di pasta c’è una voce che unisce tutti: quella della Pastificio Granoro, un’eccellenza a livello internazionale. Un passo ulteriori in avanti con la linea proveniente da grano 100% pugliese biologico. Si chiama Linea Dedicato ed è un modo per rassicurare il consumatore su un prodotto integro e salutare, importante per la dieta, simbolo dell’italianità e della Regione. Con lo chef Antonio Reale, re del padellone pugliese, sono state proposte due ricette, una in omaggio alla famiglia Bastianich dal sapore americano ma non troppo, l’altra ispirata all’orgoglio pugliese con tanto di salsiccia di cavallo e provola.

Quando si parla di carboidrati non si può prescindere dal comfort food per eccellenza, la pizza. Alimento su cui si potrebbe dibattere per ore, a Gusto Jazz è stata raccontata nella sua accezione contemporanea, ben diversa dalla classica espressione napoletana. Si chiama Contemporanea Pugliese e l’Italian Pizza Master Vincenzo Florio è tra i maggiori esponenti in materia. Anche in questo caso uno show cooking alla scoperta dei segreti che hanno reso la contemporanea non solo una combinazione di ingredienti, ma un vero e proprio stato d’animo da stendere a colpi di farina ed esperienza.

Photo credits: Francesco De Marinis

Un ensemble incredibile le due serate, proprio come farebbe un duo jazz. Se fare cibo è come comporre musica, l’abbiamo chiesto a tutti i protagonisti, Joe Bastianich compreso. A questa domanda, in conferenza stampa, ha risposto così “Non si può fare improvvisazione né in musica né col cibo, bisogna saper mettere insieme in modo ragionato ogni ingrediente come ispirazione, melodia, suoni, tecnica ed emozioni. Tutto questo può creare un brano e anche un piatto da mangiare”.

E pur riconoscendo la sacralità della cultura enogastronomica italiana, Bastianich invita tutti a prendersi un po’ meno sul serio, chiedendo, con ironia ovviamente, di derogare anche ad alcuni canoni del buon mangiare “Cappuccino dopo il branzino? Speriamo di no, ma non escludiamolo per chi proprio non può farne a meno. Dategli questo cappuccino e non rompete”. Senza mezzi termini, ma con il sorriso.

Photo credits Francesco De Marinis – al centro Alberto La Monica

Il cibo come musica per la bocca

Il cibo in ogni sua declinazione diventa gusto e diventa piacere, così come la musica. Ci chiediamo se serve una kermesse così grande e strutturata. La risposta è più che affermativa, soprattutto ora in cui il mangiare consapevole è fondamentale, così come ascoltare musica di qualità. Dal prossimo Gusto Jazz, secondo La Monica, dobbiamo aspettarci una coerenza con le passate edizioni, ma non solo: “non mancherà grande attenzione per ciò che il nostro territorio esprime con le sue eccellenze enogastronomiche a 360 gradi”.

Viva il Gusto, viva il Jazz!

Photo credits: Francesco De Marinis

Puglia: il racconto del tour organizzato dal Consorzio di Tutela Vini D.O.P. Salice Salentino

di Luca Matarazzo

Puglia. Nell’immaginario collettivo la mente va subito alle spiagge bianche, al mare cristallino, al ballo della taranta, al vento e al buon cibo. Senza dimenticare il vino che tanto bramiamo raccontare tra le pagine di 20Italie.

Puglia, però, significa tante denominazioni di origine. Molteplici sfaccettature della stessa medaglia, ognuna con la sua storia da raccontare. Tra di esse parleremo dello sforzo comunicativo attuato dal Consorzio di Tutela Vini D.O.P. Salice Salentino nell’offrire la visione dello stato attuale produttivo, tra le province di Lecce (Salice Salentino, Veglie e Guagnano), Brindisi (San Pancrazio Salentino e San Donaci) e parte del territorio comunale di Campi Salentina in provincia di Lecce e Cellino San Marco in provincia di Brindisi.

Una zona apparentemente ricca in termini numerici con circa 1670 ettari vitati iscritti e ben 42 cantine impegnate nella produzione di 110 mila ettolitri di vino. A visualizzare la cartina geografica colpisce l’estensione del territorio riversato giusto al centro, a mo’ di cuneo, tra una sponda e l’altra dei mari che bagnano la regione: Adriatico e Ionio.

Urgeva, dunque, una visita in loco per vedere di persona la bellezza degli alberelli di Negroamaro, forma di coltivazione a forte rischio di scomparsa, le tante meraviglie del archeologiche e capire il sacrificio di chi cerca di lavorare con passione, non pensando alla quantità come nel passato. Un confronto virtuoso tra realtà di medie dimensioni – difficile trovare aziende di pochi ettari, per retaggio del latifondismo e per il costo relativamente basso dei terreni agricoli – e Cooperative vitivinicole di ampio respiro che stanno attuando accorgimenti in positivo sulla filiera.

Tutto ciò è stato reso possibile anche grazie al contributo del Masaf, ai sensi del decreto direttoriale n.553922 del 28 ottobre 2022 (cfr. par. 3.3 dell’allegato D al d.d. 302355 del 7 luglio 2022); non possiamo che rallegrarci di simili iniziative. Tutto bene quindi? La risposta che usiamo utilizzare in tali frangenti è: dipende! Di certo l’impressione avuta di primo impatto spinge verso una vena di profondo ottimismo, pensando ai trascorsi in chiaroscuro che ha vissuto l’areale.

Resta la necessaria e ulteriore valorizzazione del principe di queste zone: quel Negroamaro, capace di emozionare esaltandosi nelle versioni in rosa e sublime nei rossi a patto di non mostrare eccessive estrazioni e muscoli. A tal scopo, il dibattito in seno al Consorzio sta portando a una radicale modifica del disciplinare con l’inserimento di una nuova versione da minimo 85% di Negroamaro e maturazioni soft unicamente in tini di acciaio. Forse non basterà, ma è un primo passo compiuto non certo per condannare quanto fatto finora, quanto piuttosto per spiegare una nuova visione stilistica. A parere del sottoscritto, comunque, l’uso del legno in affinamento per una varietà così instabile nel colore e difficile da domare nei profumi può essere un valore aggiunto (se utilizzato cum grano salis).

Partiamo nel tour da Apollonio, azienda del 1870 certificata tra quelle storiche del Comprensorio. I fratelli Marcello e Massimiliano hanno cominciato a imbottigliare dagli anni ’60 del secolo scorso, con un successo commerciale raggiunto in 40 Paesi.

Scenografica la cantina sotterranea ricavata da antiche vasche di cemento, così come validi i prodotti offerti tra i quali spicca il rosato Diciotto Fanali 2019, selezione delle uve migliori da vecchi impianti di Negroamaro ad alberello con palo di sostegno. Ottima la progressione tra note di macchia mediterranea, liquirizia e frutta di bosco matura.

Proseguiamo con Cantina Cooperativa Vecchia Torre a Leverano, composta attualmente da 1240 soci aderenti per quasi 1500 ettari vitati. Pensando ai 44 conferitori del 1959, tra cui v’erano due donne e persino un sacerdote, sembra un altro mondo.

Straordinaria l’idea di presentare un Vermentino 2022, varietà qui consentita, interessante e dinamico. Danza tra salvia, pera williams e fiori di zagara. Ottimo il rapporto qualità-prezzo, riservato anche al Salice Salentino Riserva 2016 dal tannino setoso e integrato.

Claudio Quarta e la figlia Alessandra sono l’emblema di come si possa fare ricerca, sperimentazione, con un occhio alle tradizioni e uno fisso al futuro. Cantina Moros, giovane realtà, dimostra già di essere un’azienda dal potenziale ragguardevole, persino trainante per l’eccellenza del suo metodo produttivo.

Al momento un’unica sublime etichetta, degustata in 2 annate molto diverse: il Moros Salice Salentino Rosso Riserva 2018 è scuro e potente, denso e maturo. Meglio performante l’anteprima 2019 elegante, di impronta da grande rosso di carattere e serbevolezza.

Il mito Leone de Castris meriterebbe un intero articolo dedicato solo alla storia leggendaria che li ha condotti a esser i primi imbottigliatori e commercianti di rosato in Italia. Five Roses resiste inossidabile dal 1943, più identitario nello standard rispetto a quello “Anniversario”.

Piernicola Leone de Castris può andar fiero dell’opera del suo staff e del progetto Per Lui, che tra le tante versioni presenta anche un Salice Salentino Riserva 2019 avvolgente, grazie a un lieve appassimento delle uve in pianta.

Ci avviamo verso la conclusione del viaggio, con la doverosa tappa alla Cantina Cantele, accolti da Gianni Cantele erede di una dinastia di commercianti di vino e adesso a capo di un’impresa conosciuta in tutto il mondo. Il padre, enologo di fama, sul finire del secolo scorso ha rivoluzionato il concetto di fare Chardonnay in Puglia.

Gianni ne ha seguito le orme stilistiche, proponendo un Metodo Classico Rohesia Pas Dosé millesimo 2016 – sboccatura febbraio 2022 – dalle nuance speziate e fini, con mortella, ribes rosso e pasticceria finale. Impressionante il Teresa Manara Salice Salentino Riserva 2020 che uscirà entro fine 2023. Leggera surmaturazione, balsamico e succoso al punto giusto, dalla trama antocianica compatta. Puro velluto.

Terminiamo con la Cooperativa San Donaci e il vulcanico presidente Marco Pagano. Estensioni più ridotte rispetto alle sue omologhe, ma importante attività di presidio, soprattutto per quanto concerne la tutela dell’alberello di Negroamaro. Molto parcellizzata tra la Provincia di Brindisi e di Lecce, con appezzamenti belli e selvaggi in cui passeggiare diventa un lusso per gli occhi.

E che dire della cantina di affinamento sotterranea, anche questa ricavata dalle vecchie vasche di cemento utilizzate nel passato.

Ottima interpretazione dei rosati, non solo dal vitigno cardine per la zona, ma anche dal Susumaniello, delicato e sempre più ricercato dagli estimatori.

Lu Salentu: lu sule, lu mare, lu ientu“.

“A Sud dell’Anima”: l’elogio della cucina delle Murge

di Serena Leo

Proviamo a immaginare una terrazza che guarda dritto verso le Murge, quelle autentiche. Siamo in Puglia, precisamente a Minervino Murge, luogo incantevole per silenzio e profumi pronti, come un gioco d’avventura, a rapire i sensi… senza passare dal via. Se al bello ci aggiungiamo anche il buono della cucina territoriale, raccontare la quintessenza della regione diventa ancor più semplice. Ad arricchire questa storia che parla di cibo, tra diverse consistenze, ci sono Nadia Tamburrano e Ivan d’Introna, mente e cuore del ristorante pugliese A Sud dell’Anima. Una vera e propria destinazione gourmet per gli appassionati della cucina “casereccia” rivisitata in chiave fine dining.

Nadia Tamburrano e Ivan d’Introna

Come arrivare

Minervino Murge è tra i gioielli più belli dell’alta Puglia, diversi dai classici racconti a cui siamo stati abituati. Qui il vero mare non sembra fatto d’acqua, bensì di distese infinite di campi dove si respira ancora l’atmosfera rurale di un tempo. La cittadina vive una nuova primavera e non mancano scorci in cui anche solo un “basso” oppure vicoli e strade che si sviluppano in altezza, diventano location artistiche degne di set cinematografici, come già successo per I Basilischi di Lina Wertmuller.

La splendida terrazza

A Sud dell’Anima ricalca la tradizione locale in ogni dettaglio: dalla sala in pietra che assorbe e rilascia un profumo di casa, per finire con stampe alle pareti dai colori ben definiti. Un’atmosfera delicata – o meglio soffusa – che concede la possibilità agli avventori di concentrarsi su piatti che parlano di radici, che raccontano storie antiche e sigillano passioni. Nadia e Ivan hanno saputo rivoluzionare la cucina tipica proiettandola ai giorni nostri, strizzando l’occhio a quel fine dining non solo da canali social, ma bensì ricco di sostanza e qualità.

Da dove sono partiti?

Come nasce A Sud dell’Anima ce lo dice Nadia, ideatrice del menu ragionato e chef per vocazione. Da autodidatta si è formata osservando tutto ciò che le capitasse attorno: <<ho imparato le basi della cucina guardando mia mamma, una campionessa delle cotture lente e tradizionali. Sin da piccola l’ho affiancata ripetendo ogni suo gesto, dall’assaggio di ogni preparazione in poi. Amavo restare in cucina perché per me era quasi un divertimento perdermi tra i profumi delle orecchiette rigorosamente fatte a mano, delle verdure ed erbette fresche di campagna che, con i miei nonni, amavamo raccogliere.>>

Le Tapas

E le mani in pasta, metaforicamente parlando, Nadia ha iniziato a metterle presto: <<a 8 anni ero libera di preparare dolci, essenzialmente quelli di Natale, con l’aiuto della famiglia. Un momento che coinvolgeva proprio tutti, dai più piccoli ai più grandi. A misurarmi con la cucina ad alta intensità, invece, ho iniziato a 15 anni in un altro ristorante del paese. Una vera palestra.>> Quella di Nadia è una storia che si ripete in tanti ragazzi della zona.

Dalla Sardegna a mete ambite nel settore luxury, i ragazzi hanno avuto modo di misurarsi con diverse realtà del settore food e wine, sviluppando una precisa idea da convogliare in Puglia: creare, grazie alle ricette del territorio, pietanze bilanciate, gustose e addirittura sperimentali. Hanno accettato la sfida della strada più difficile: quella di non essere profeti in patria, però con delle abilità in più. Una su tutte, l’intraprendenza!

Il pane fresco

Il menu degustazione di A Sud dell’Anima è ragionato, esula dal concetto dell’arcaica carrellata di antipasti, nello stile attrattivo-turistico della cucina pugliese. Si tratta, infatti, di un percorso che passa da tutti e cinque i sensi, senza distinzione di sorta, toccando nel profondo dell’anima. Un cambio di passo, secondo Ivan e Nadia, fatto per apprezzare ogni singolo dettaglio a tavola: <<Vogliamo che la gente assaggi i piatti della nostra tradizione, che parlino al 100% del territorio minervinese e murgiano in ogni particolare. Proponiamo dei pairing con profumi selvatici o erbe spontanee poco usate o dimenticate, ma anche un fusion ragionato. Tendiamo ad eliminare il superfluo e, allo stesso tempo, non sacrifichiamo in alcun modo la complessità del piatto che tanto piace ai curiosi della tavola. Rivisitiamo i must della tradizione locale raccontando a tavola aneddoti correlati”.>>

Il cavallo tonnato

Anche a tavola si può imparare tanto. Tra i piatti da non perdere assolutamente ci sono le tapas pugliesi, servite seguendo la stagionalità delle materie prime, variabili dal classico calzone servito a mo’ di mattonella, alla riproduzione della mitica “chianca” per lavare i panni, con lampascione fritto, leggero e croccante. Il tutto da abbinare a una bollicina territoriale magari da uve Bombino Bianco, come Lucy dell’Azienda Agricola Mazzone, una chicca dal corpo immenso, un evergreen di longevità. A seguire il cavallo tonnato cotto a bassa temperatura, verdurine croccanti e finocchietto selvatico delle Murge. Un piatto fresco che ritrae, in chiave innovativa, uno dei tanti volti del territorio. Il carciofo fritto con uovo mimosa, spuma di caciocavallo e finocchietto, è il piatto che può conquistare anche i più scettici a caccia di novità e di fritti leggeri. A Sud dell’Anima si reinventa la cucina casalinga senza snaturarla, anzi “attualizzandola” attraverso buone idee in grado di risvegliare i ricordi d’infanzia.

Tagliatelle all’Aglianico

Come si esprime Minervino al piatto ce lo dicono sempre Nadia e Ivan: <<tenendo la barra dritta sui grandi classici, lavorando sulle cotture, riappropriandoci del tempo lento, senza sacrificare impiattamento ed essenza. Il nostro punto di forza sta nel concetto di fusion ragionato, frutto delle nostre esperienze fuori, unite all’accuratezza che ci mettiamo nello studiare un piatto semplice come può essere lo gnocchetto con le cime di rape e alici.>>

Gnocchetto cime di rapa e alici

Nel menu estivo vige d’obbligo qualche incursione di mare che è a pochi chilometri di distanza. Si inizia dal tortello di riso con pecorino, mascarpone e ricotta – dove ogni ingrediente bilancia l’altro – saltato al burro, vin cotto e tartare di gambero rosa. Occhio alla terrina di agnello con erbette murgiane, verdure a vapore e salsa demi-glace. Un’opera d’arte che richiede impegno per la preparazione e la lentissima cottura. Un secondo interessante che si unisce alla star del locale: la guancia di vitello, regina incontrastata nei cuori degli abituèe.

Terrina di agnello

Vino, birra e distillati

Ad occuparsi della sala e della cantina è Ivan, appassionato di realtà vitivinicole italiane e internazionali. Tra i migliori abbinamenti cibo-vino che dalla Puglia ci fanno viaggiare per il mondo, lui racconta: <<cerco di privilegiare i vini del territorio lavorando sulle eccellenze come il Nero di Troia, espressioni interessanti di Cantina Santa Lucia e Giancarlo Ceci. Mi piace anche giocare con vitigni extraregionali che sanno tenere testa alla cucina di Nadia, fatta di cotture delicate e di fritture saporite. Non manca una nicchia estera con etichette slovene, tedesche, americane e francesi. La carta è costruita in modo tale da dare ai clienti una possibilità di scelta e di scegliere, per ogni portata, un vino differente”.

Molto presto alla carta del locale verrà aggiunta una rara novità: una IGA da Nero di Troia, denominata Elèna. Per Ivan sarà il completamento della carta e anche la prima di una trilogia di birre studiate ad hoc per il ristorante: <<Elèna è interessante sui nostri piatti perché richiama tanto le Murge con i suoi sentori erbacei e speziati, che tendiamo ad utilizzare per profumare con delicatezza i piatti. La birra si sposa bene con un nostro aperitivo e gli antipasti. Un modo diverso di pasteggiare assaporando la nuova essenza della Puglia da mangiare e bere.>>

Sul dolce si può anche degustare con un quasi introvabile Eiswine. E perché no un soft drink da inizio o fine pasto, fino a giungere ai distillati mai banali, in completo relax sulla bellissima terrazza.

Tortello fatto in casa

L’essenza della ristorazione del futuro è scritta nelle sue radici?

Secondo Ivan e Nadia il futuro dell’enogastronomia è scritto proprio qui, nella tradizione. La ristorazione che verrà sarà una sorta di “ritorno al futuro” in grado di suscitare ricordi attraverso la vista, l’olfatto, la consistenza e il gusto. Se il nostro desiderio è quello di tornare un po’ bambini e un po’ innamorati dell’antica cucina, allora A Sud dell’Anima, ristorante gourmet e popular al tempo stesso, sarà la nostra (e vostra) destinazione ideale.

A Sud dell’Anima

Via Chiuso Cancello 3

Minervino Murge

Tel: 0883691175

Mail: asuddellanima@libero.it

“San Marzano on Tour” al ristorante Quattro Passi di Massa Lubrense (NA)

di Ombretta Ferretto

Quando il vino diventa protagonista è capace di cavalcare le migliori tavole del Paese, come una celebrità sa cavalcare le vie del palcoscenico. L’evento “San Marzano On Tour”, dedicato all’omonima cantina pugliese San Marzano è nato in collaborazione con Gambero Rosso. Una tournée enogastronomica che tocca alcune località del Belpaese con i loro ristoranti gourmet.

L’avvincente sfida porta la Puglia fuori dai propri confini per abbinare i vini San Marzano con piatti delle tradizioni regionali italiane: i menu vengono approntati tappa per tappa in modo da poter offrire la miglior esperienza sensoriale nell’abbinamento cibo-vino.

Cantine San Marzano è una Cooperativa vitivinicola fondata da diciannove soci in località San Marzano di San Giuseppe (TA) nel 1962 e si estende su 1500 ettari complessivi. Protagonista del tour enologico che ha già toccato il SanBrite di Cortina d’Ampezzo e Da Gabrisa a Positano. Entusiasmo, dunque, per la terza tappa on the road, che vede protagonista assieme vini dell’azienda, il ristorante Quattro Passi della famiglia Mellino, due stelle Michelin.

Siamo a Nerano, piccolo borgo di pescatori, incastonato sulla punta estrema di quella lingua di terra che a nord culla in un grande abbraccio il Golfo di Napoli, e a sud si frastaglia tra fiordi e insenature della Costiera Amalfitana. Ospiti nella splendida location Luca Conversano, sales area manager di San Marzano, Angelo Cotugno export manager, Maria Cavallo, proprietaria, e Lorenzo Ruggeri, vice curatore della Guida Vini d’Italia del Gambero Rosso. Ad accoglierci lo chef Fabrizio Mellino, responsabile del ristorante di famiglia, e suo padre Antonio, chef patron e fondatore del locale giunto al quarantesimo anno di attività.

Atmosfera rilassante nella sala al primo piano: il camino scoppiettante fa da piacevole compagnia, complice una primavera insolitamente fredda. Il richiamo al mare, a pochi metri di distanza, è presente in ogni particolare dell’arredamento stile coastal e delle decorazioni. Dalle sedute in vimini bianche, rosse e blu, alle sculture di spugne, coralli e grandi pesci bianchi, che sembrano letteralmente guizzare fuori dal soffitto per poi rituffarsi nello stesso mare immaginifico posto sopra le teste dei presenti.

Non mancano a tavola i panificati creati da Fabrizio: i grissini di pasta di tarallo, il bis di panini alla camomilla e ai cinque cereali, le croccanti sfoglie a base di Provolone del Monaco Dop modellate nella forma di quelle vele che d’estate solcano la baia sottostante. Aprono le danze gastronomiche gli amuse-bouche che riportano alle origini stesse del ristorante, nato come pizzeria nel 1983: due montanare ripiene e una polpettina di melanzane. Un piccolo involucro in carta racchiude la pizzetta fritta e richiama nella forma un forno a legna, su cui è impresso il simbolo dei quattro passi.

Al calice la prima proposta è Calce Rosé Spumante Metodo Classico Brut 2017, da uve Chardonnay e Negramaro, che sosta sui lieviti per trentasei mesi. Il nome vuole essere un omaggio ai borghi della Valle dell’Itria, dipinti in calce bianca per rifrangere i feroci raggi del sole nei caldi mesi estivi. Colpiscono immediatamente i sentori agrumati e di piccoli frutti rossi, in perfetta corrispondenza con il sorso fresco e lungo. Il Metodo Classico accompagna anche la prima portata del menù, la spuma di patate con uova di salmone affumicate all’incenso e olio al rosmarino: le sfumature color buccia di cipolla, ancora brillano nel bicchiere, quasi a richiamare la tonalità rosata delle uova di salmone, completandone sapidità e aromaticità.

La tradizione diventa evoluzione nella portata successiva che fa da eco all’antipasto tipico della costiera sorrentina, l’insalata di calamari. È quasi un peccato spezzarne l’armonia cromatica disegnata dalle tagliatelle di calamaro con limone di Massa Lubrense e bottarga. La pasta è ridisegnata non solo nel nome e nella forma, ma pure nella consistenza, e si abbina a regola d’arte con il secondo vino in degustazione, Timo Vermentino Salento IGP 2022 da Vermentino in purezza. L’abbinamento più riuscito della serata con le fragranze classiche del varietale, ancora giovani, che si completano al palato in sentori di arancia tarocca e macchia mediterranea.

Le linguine alla Nerano, pietanza conosciuta in tutto il mondo, sono qui servite nella personale
interpretazione dello chef, che affianca alle zucchine anche i loro fiori, e predilige come formaggio un Parmigiano Reggiano stagionato 12 mesi. Anche il formato scelto (la linguina e non lo spaghetto) è voluto per esaltare al meglio i sapori dell’intingolo. Viene subito servito Edda Bianco Salento IGP 2021, vino dall’anima femminile (Edda in dialetto salentino significa “Lei”), blend di Chardonnay e una percentuale variabile – tra il 30% e il 35% – di autoctoni quali Moscatello e Fiano Minutolo. Elevato in barrique di rovere francese per circa quattro mesi. Olfatto delicatamente floreale e vegetale, arricchito da tenui sentori di vaniglia. L’abbinamento non risulta, forse, il migliore, con il retrogusto della zucchina che si allunga nel sorso verso una chiusura di bocca amaricante.

La temperatura in tarda serata si mitiga e invita i partecipanti a godere degli spazi esterni, come la terrazza del cocktail bar, proprio fuori dalla sala. Un vero giardino pensile affacciato sul mare, dove
il bianco e il blu dominano anche nei disegni esagonali delle ceramiche vietresi. Affacciandosi possiamo quasi immaginare i turisti che d’estate scendono dalle imbarcazioni private e salgono al locale, passando direttamente dalla cantina vini, per gustare un cocktail o una cena in questo angolo di Paradiso.

Proseguiamo la cena con un vitigno autoctono riscoperto da una quindicina d’anni: il Susumaniello, il cui nome deriva da un’espressione dialettale che significa caricarsi come un somaro. Molto produttivo in gioventù, diventa sempre più avaro di frutti con l’ravanzare del tempo. Ed è proprio nel momento in cui avviene questa riduzione della resa che il Susumaniello offre risultati sorprendenti!
Amai Susumaniello Rosé Salento IGP 2021 è un vino che ammalia già alla vista, nel suo tenue
color rosa antico, ottenuto dalla permanenza sulle bucce inferiore a due ore. Erbe officinali, maggiorana in prima battuta, e speziature di pepe rosa dominano su tutti, con il palato avvolto da nuance saporite che non stancano mai. Un vino che porta le note del mare”, come ha voluto sottolineare Luca Conversano, grazie a freschezza e sapidità bilanciate dal leggero calore finale.

Erbe aromatiche protagoniste anche nel trancio di spigola in salsa acetosella, dalle delicate presenze acidule che si sposano con Amai. Il pre-dessert di Fabrizio Mellino, invece, è un guizzo di velluto, un sorbetto al lime con kiwi, su spuma di latte e menta, che accompagna alla chiusura dei sipari in maniera elegante.

Dulcis in fundo, è proprio il caso di dirlo, arriva il momento del Primitivo, declinato nella versione Dolce Naturale: 11 Filari Primitivo di Manduria DOCG Dolce Naturale 2019. Il nome deriva dal numero di filari originariamente selezionati per ottenere tale prodotto. Viti ad alberello su cui appassiscono naturalmente i grappoli d’uva. Dopo la fermentazione, l’affinamento è in barrique di rovere francese e americano per dodici mesi. Prima ancora del colore rubino impenetrabile, impreziosito da sfumature granate, incantano le sinuosità delle movenze nel bevante, che preannunciano una bella struttura. Il naso spazia dai fichi secchi alla ciliegia in confettura, dal mallo di noce a note balsamiche di menta. La bocca è incredibilmente fresca, pulita, accarezzata da un tannino delicato, tanto da ipotizzarlo non soltanto con i dessert.

Lo chef affida la chiusura del menù al Babà guarnito con albicocca pellecchiella del Vesuvio e crema chantilly. Il richiamo alla tradizione culinaria della Terra delle Sirene non manca neppure nella petit patisserie in accompagnamento ai caffè: la Sfogliatella Santa Rosa, che leggenda vuole sia nata in un monastero della Costiera, e i cioccolattini ripieni di crema di melanzane e decorati con un granello di sale grosso, reminiscenza della ricetta della parmigiana dolce sorrentina.

La serata si conclude con una visita alla cantina interna del ristorante Quattro Passi, una piccola cattedrale enologica scavata nella roccia, le cui nicchie accolgono l’ampia selezione di vini italiani ed esteri, oltre a magnum di pregio e rare verticali di etichette celebri.