Merano: Alpi, passeggiate nella natura, enogastronomia e buon vivere

Un luogo magico come pochi la nostra tappa a Merano, complice l’evento Merano Wine Festival di caratura internazionale. Alpi, passeggiate nella natura, enogastronomia e, naturalmente, buon vivere.

Cos’altro serve per scegliere una meta ideale sia d’estate, quando la calura delle città rende le notti inquiete, sia d’inverno con la magia delle cime innevate e quel clima tipico da cioccolata calda, strudel di mele, caldarroste e vino. Magari, perché no, scegliendo una cantina altoatesina come Stroblhof, che racconteremo in un prossimo articolo.

O camminando lungo la promenade del fiume Passirio, osservando rapide e mulinelli che si formano dall’impeto delle acque superficiali. In tardo autunno i colori si tingono delle sfumature del foliage, che dal verde acceso delle fronde degli alberi percorre l’ampio spettro delle tinte rosse e marroni.

I portici, le chiese e gli splendidi palazzi storici di tradizione austro-ungarica, emblema della cittadina, con le sue locande e i negozi di abbigliamento e prodotti agroalimentari. Il freddo qui diventa secco e piacevole, una sensazione frizzante che mantiene sempre attivi, con la voglia di stare in movimento, approfittando di una giornata di sole e di una buona compagnia.

Ville e Castelli circondano il panorama lungo la strada che conduce ai Giardini di Castel Trauttmansdorff, ben 12 ettari, con specie vegetali provenienti da ogni angolo del globo su un dislivello di 100 metri. Cactus, aloe, agavi e piante tropicali, grazie al clima non estremo della vallata, protetta dalle catene montuose porfiriche in entrambi i lati. Papere e stambecchi trovano pace e serenità in tale spettacolo di natura.

L’Alto Adige è un modello di organizzazione semplicemente perfetta, ove nulla è lasciato al caso. Lo si osserva nella gestione della res publica o dei campi coltivati tra meleti e vigne. Lo si osserva ancor di più nell’allestimento di eventi divenuti capisaldo della cultura enogastronomica italiana, come il Merano Wine Festival che con l’edizione 32, ideata da Helmuth Köcher nel 1992 e andata in scena dal 3 al 7 novembre, fa un salto nel futuro dell’enogastronomia e della viticoltura, lanciando con una metafora un messaggio chiaro alle nuove generazioni.

«Quando si parla della Terra che ci ospita, compito dell’ospite è quello di rispettare l’oste capace di mettergli a disposizione così tanta ricchezza e così tanta varietà» spiega Helmuth Köcher che ha concesso una breve intervista ai nostri microfoni.

Assieme a lui, tra le oltre 6.500 presenze durante le cinque giornate della manifestazione che celebra le eccellenze enogastronomiche selezionate da The WineHunter, ospiti di lusso come il prof. Luigi Moio, e una nutrita rappresentanza della Campania, con i Presidenti dei vari Consorzi giunti al completo e uniti in un comune denominatore: portare a Merano non solo pizza, sole e mandolino, ma tanta, tantissima qualità tra vino e cibo, presentati al pubblico in Masterclass e banchi d’assaggio, con la collaborazione dell’Associazione Italiana Sommelier.

Scopriremo insieme tutto questo nelle puntate successive e nel relativo podcast su youtube con la playlist integrale ed i commenti a margine. Il tempo stringe, Merano con le sue bellezze paesaggistiche, architettoniche, culinarie e fieristiche vi aspetta. Seguiteci.

Food & Book: la cultura del cibo, il cibo nella cultura

Si è chiusa a Montecatini Terme (PT) lo scorso 29 ottobre la nona edizione del Food & Book Festival del libro e della cultura gastronomica, la kermesse dedicata a chi il cibo lo cucina e lo racconta, organizzata dall’Associazione Culturale Eureka in collaborazione con la casa editrice Agra e con la direzione di Sergio Auricchio e Stefano Carboni (Mg Logos). L’evento è patrocinato dal Comune di Montecatini Terme, dalla Regione Toscana e dall’ANP, Associazione nazionale dirigenti scolastici.

A fare da teatro alla quattro giorni di presentazioni e dibattiti, oltre all’Istituto alberghiero F. Martini e al Palazzo del Turismo, la suggestiva cornice neoclassica delle Terme Tettuccio. L’accoglienza e il servizio durante la manifestazione sono stati curati dagli allievi dell’Istituto alberghiero F. Martini.

Una manifestazione eclettica, Food & Book, sin dalla prima edizione del 2014, dato che si pone come obiettivo quello di far incontrare autori, che in differenti modalità parlano di cibo dalle loro pagine, e chef, che esprimono il concetto del cibo attraverso una propria originale narrazione in cucina. In altri termini cultura del cibo e cibo nella cultura, senza mai discostarsi dalla stretta attualità che il tema impone.

La trama dell’edizione 2023 ha infatti riguardato le biodiversità alimentari, il patrimonio ittico italiano, la straordinaria ricchezza dell’olivicoltura nel nostro Paese, oltre al dibattito più che mai attuale sull’occupazione nel mondo dell’accoglienza e della ristorazione. La IX Edizione del Festival è stata dedicata a Eduardo De Filippo che proprio a Montecatini Terme, nel 1931, debuttò con la propria compagnia, appena costituita insieme ai fratelli Peppino e Titina. Nella Cena di Gala di venerdì 27 Ottobre, in onore di Eduardo, gli chef Marcello Leoni e Pietro Parisi, insieme agli alunni dell’istituto alberghiero F. Martini, hanno rivisitato alcuni piatti della tradizione napoletana, che il grande poeta e drammaturgo ha narrato nelle sue opere, come il ragù, attore comprimario e silenzioso della commedia Sabato, Domenica e Lunedì. Nella stessa serata Patrizia Cirulli, cantautrice milanese, ha narrato in musica alcune poesie di Eduardo tratte dal suo ultimo album Fantasia, presentato durante  il Festival.

Chef Leoni, insieme a Valentina Tepedino, ha partecipato anche ai due dibattiti di sabato 28 ottobre sul patrimonio ittico italiano, in qualità di Testimonial de “L’AMO italiano”, progetto promosso da Eurofishmarket – società di consulenza, ricerca e formazione nel settore ittico di cui la Tepedino è direttrice- nato per promuovere e valorizzare prodotti ittici di qualità. Temi affrontati: la valorizzazione del pescato italiano e del cosiddetto “pesce povero”, attraverso la conoscenza del prodotto e del modo migliore per cucinarlo. Ai due diversi round sono intervenuti Benedetta Mariotti, Responsabile Qualità di Arbi Spa, Alessandra Malfatti, Presidente de La Cittadella di Viareggio, e Maurizio Acampora, Presidente della Cooperativa mare nostrum di Viareggio.

Diversi gli autori presenti al festival con opere nelle quali il cibo gioca ruoli diversi: dalla giornalista Monica Viti, col suo Matcha al veleno (Sonzogno), giallo “a porte chiuse” ambientato in una scuola di té milanese, alla torinese Desy Icardi, che con La pasticcera di mezzanotte (Fazi) conclude la serie di romanzi dedicati ai cinque sensi.

Non sono mancati gli approfondimenti scientifici sull’alimentazione, con Antonello Senni autore di La Nutriscenza (Agra Editrice) e Giuseppe Nocca con Educazione Alimentare e Sport – Nutrizione movimento salute (Dde Editrice).

Tra gli altri autori ospiti anche Anna Maria Gehney con Il corpo nero (Fandango Libri) e Marco Vichi e Leonardo Gori con il loro Vite Rubate (Guanda), romanzo a quattro mani.

Francesca Romana Barberini, conduttrice e autrice di programmi enogastronomici, ha regalato alla platea aneddoti legati alla figura di Sora Lella – al secolo Elena Fabbrizi, sorella del grande attore romano Aldo e cuoca nell’omonima trattoria- raccontati nel suo Annamo Bene (Giunti), ricettario biografico della nonna di tutti gli italiani, come la definì Carlo Verdone. E alla più autentica cucina romanesca è stata dedicata la Cena con lo scrittore di sabato 28 ottobre, dove la Barberini ha avuto occasione di raccontare alcuni dei piatti cucinati al Grand Hotel Croce di Malta seguendo le ricette di Sora Lella, come gli gnocchi all’amatriciana. 

Un importante approfondimento è stato dedicato, nella giornata di domenica 29 ottobre, alla situazione dell’olivicoltura e dell’oleoturismo in Italia. Sono intervenuti il Sottosegretario all’Agricoltura Patrizio Giacomo La Pietra, la giornalista Fabiola Pulieri, autrice di Oleoturismo – Opportunità per imprese e territori (Agra Editrice), Giuseppe Nocca, storico dell’alimentazione, Antonello Senni,  genetista esperto di evoluzione e di nutrigenomica umana, Alessandro Benedetti, Presidente del frantoio Cooperativo di Montecatini; ha moderato il dibattito Alessandro Sartoni, Assessore alla Cultura di Montecatini Terme.

A quattro anni ormai dall’entrata in vigore della legge nazionale sull’oleoturismo, sono ancora molte le Regioni che non hanno recepito la norma, restando di fatto al palo su uno dei fattori che potrebbe diventare propulsivo per lo sviluppo dell’olivicoltura nel nostro paese, fatta di piccole aziende e di agricoltura prevalentemente eroica. Inoltre mancano ancora interventi a trecentosessanta gradi e campagne d’informazione e formazione capaci di dare al prodotto olio d’oliva il giusto rilievo sia in termini di visibilità che di prezzo.

Non poteva mancare, in una manifestazione dedicata alla cultura del cibo, il vino, presente in questa IX edizione di Food & Book con le bollicine: Adriana Assini ha presentato Madame Clicquot – Lo Champagne sono io (Scrittura & Scritture), biografia romanzata della celebre mademoiselle Ponsardin, vedova Clicquot, mentre Sciampagna, lo spumante classico italiano (Marcianum press), approfondita antologia sul mondo delle bollicine italiane, è stato raccontato dai curatori Giampaolo Zuliani e Alice Lupi.

Un giorno a Padula: tra storia, arte, cultura e gastronomia

Un giorno a Padula (SA) può cambiare la vita? La risposta andrebbe articolata se aggiungiamo alla domanda iniziale il naturale prosieguo: un giorno a Padula, tra storia, arte, cultura, gastronomia e persino legalità può cambiare la vita? Certamente sì! Parlando, ad esempio, di rispetto della Legge e delle Istituzioni che la applicano a fatica in territori affatto semplici.

Lo racconta ai microfoni di 20Italie l’erede di Joe Petrosino, quel Nino Melito Petrosino unico pronipote del primo vero “detective” della polizia americana. Siamo nella Casa Museo, la sola in Italia dedicata ad un martire delle Forze dell’Ordine; il 19 ottobre 1883 Joe Petrosino riceve il fatidico distintivo, dopo una gavetta impensabile passata persino dal ruolo di netturbino.

Grazie all’esperienza acquisita per le strade, impara presto la tattica del camuffamento e dell’intercettazione, sventando diversi pericoli e attentati. Di lui se ne celebra ancor’oggi il ricordo negli Stati Uniti, con una sorta di festa nazionale per l’immensa gratitudine del popolo americano al sacrificio (pagato a caro prezzo) nel combattere la Black Hand (la Mano Nera) mafiosa.

Palermo gli fu fatale, giunto in visita in incognito per comprendere le dinamiche della associazioni criminali, una soffiata ne fece saltare la copertura consegnandolo ai colpi di pistola dei sicari. “Chi salva una vita salva il mondo intero” è scritto nel Talmud di Babilonia. La vita di Petrosino non è stata salvata, ma con la sua opera incessante, gli arresti eccellenti e i dossier scottanti, sono state salvate migliaia di vite umane da morti efferate e inique vessazioni.

Alleggeriamo il discorso adesso con le parole di Francesco Barra – Fattoria Agriturismo Alvaneta – per spiegare il peperone corno di capra nella sua versione crusco, cotto e croccante. Una ricetta facile da realizzare lo vede unito alle uova strapazzate, o agli gnocchetti con baccalà e olio piccante. Il Sud chiama con i suoi sapori forti.

Ci spostiamo nella Certosa di San Lorenzo, sito Patrimonio Unesco, per incontrare Caterina Di Bianco, Vicesindaco in rappresentanza dell’Amministrazione Comunale di Padula, Ente che ci ha concesso gentilmente interviste e visite ad imprenditori e aziende locali a chilometro zero.

È il caso di Nicola Cestaro con il socio Francesco Ferrigno che hanno realizzato la startup 1306 con la presentazione al pubblico di Silentium – antico elixir certosino, nato da una miscela di oltre 70 tra spezie ed erbe officinali seguendo le ricette dei monaci. O Vincenzo Fagiolo ed il suo Amaro del Tumusso, un prodotto elegante dall’innovativa tecnica di affinamento per ben 60 giorni in anfore di terracotta.

Concludiamo la parte gastronomica e agroalimentare menzionando Riccardo Di Novella, direttore dell’Eco Museo della Valle delle Orchidee e delle Antiche Coltivazioni, tra innumerevoli varietà di fiori e piante mediche presenti sul territorio. Ed infine l’Associazione L’Aquilone che prepara le polpette della mietitura, fatte con salsiccia sbriciolata e melanzane, avendo sempre cura di esaltare le potenzialità e le tradizioni del territorio.

La visita al Battistero Paleocristiano di San Giovanni in Fonte del IV secolo, le cui fondamenta poggiano su un’autentica fonte battesimale, è un luogo di rara e mistica bellezza senza tempo.

Gli fa degna compagnia il Convento di S. Francesco D’Assisi, con il suo meraviglioso chiostro dove trovare pace e meditazione.

Un ringraziamento particolare va a Monaci Digitali Srl, con Gianluca e Chiara che svolgono un importantissimo ruolo di comunicazione e riscoperta del territorio, grazie a un progetto di smart working che prevede l’ospitalità tra la magnifica Certosa e il Convento di San Francesco di operatori che lavorano in remoto. Quest’ultimi potranno rivivere le atmosfere dei monaci certosini conoscendo altresì le molteplici meraviglie del Vallo di Diano. Tanti i momenti dedicati anche al trekking, alla cultura enogastronomica ed all’interazione con le Amministrazioni Pubbliche.

Possiamo affermare, parafrasando un antico motto, che anche Padula… val bene una messa.

Sake Days a Firenze: il racconto dell’evento unico nel suo genere per gli amanti del Giappone (e non solo)

Domenica 8 ottobre al Renny Club in via Baracca 1 a Firenze, in occasione della terza edizione dei Sake Days si è tenuta una manifestazione unica nel suo genere, che ha visto coinvolti i principali distributori e importatori di bevande provenienti dal Giappone.

Una masterclass molto interessante, volta a far scoprire quanto il sake possa rappresentare una scelta perfetta per gli abbinamenti ai piatti della dieta mediterranea, è stata condotta da Gaetano Cataldo, sommelier ed esperto di sake e da Luciana Mandarino di Madstudio/Marificio.

Il Marificio è un laboratorio di idee culinarie che prende forma e vita dai pesci più pregiati e ricercati del mare italiano, che vengono lavorati per creare salumi di pesce, quali la bresaola di tonno, il girello di pesce spada, la lonza di morone: una proficua collaborazione tra lo chef stellato Pasquale Palamaro e l’armatore Filippo Castaldi. Il cibo che viene creato è sostenibile, a basso impatto ambientale ed etico.

Cataldo ha stimolato la platea con alcune considerazioni, riguardanti la “compatibilità” dei sapori della dieta mediterranea con la bevanda giapponese a base di riso.

Italia e Giappone si trovano alle stesse latitudine e sono circondate dal mare, l’Italia solo su tre lati essedo una penisola; entrambe si estendono in lunghezza, abbracciando diversi paralleli e hanno suoli vulcanici e territori sismici. Le abitudini alimentari di questi paesi sono state valutate positivamente dallo studio del Dott. Ancel Keys, nell’ambito di una ricerca sulla longevità della popolazione verso gli anni Sessanta (Seven Countries Study), abbinate a un corretto stile di vita.

Le vicende storiche legate alla seconda Guerra Mondiale hanno sicuramente frenato l’entrata e la diffusione di prodotti giapponesi sul mercato statunitense, cosa che non è accaduta per quanto riguarda quelli italiani.

E’ stato molto interessante scoprire come il pesce del nostro mare, lavorato con passione e cura, affumicato e salato possa diventare un partner perfetto per le varie tipologie di sake! Il sapore umami è la chiave di lettura dei vari piatti di entrambe le cucine, per cui ricercare nel nostro caso un sake adatto a bilanciare l’esperienza gustativa.

La degustazione è iniziata con un sake spumantizzato, con il quale si è brindato in apertura della degustazione. I relatori hanno consigliato di tenere piccole quantità di cibo e di sake in modo da provare diversi abbinamenti e trovare il cosiddetto best pairing.

Sicuramente il sommelier o il ristoratore devono conoscere molto bene i piatti e gli ingredienti, in modo da poter consigliare il sake più adatto, alla corretta temperatura di servizio.

Il primo piatto di insaccati di mare del Marificio ha visto una ricciola nera, preparata come lonza di morone, di colore bianco, una salamella dolcemare (una ricetta trattata con il vino ischitana) e un girello di pesce spada, mentre il secondo è stato composto con un insaccato da pesce spada, ricciola e tonno, seguita dalla bresaola di tonno e per finire la ‘nduja di Spilinga, con peperoni gialli e rossi.

Il sake, contenendo circa un quinto in meno di acidi fissi rispetto al vino, riesce ad abbinarsi molto piacevolmente: Il primo sake degustato, un Tokubetsu Junmai, (junmai= senza aggiunta di alcol) ha un nome che tradotto significa Luna dopo la Pioggia e proviene dalla prefettura di Hiroshima; la sgrammatura del chicco di riso, scelto di una tipologia aromatica, si aggira al 60%. Un sake delicato ed elegante, con profumi che vanno ricercati dentro il bicchiere, tra cui spiccano le note aromatiche e speziate, con una lieve piccantezza sul finale. Il secondo sake in degustazione è Dassai 45, ottenuto da un riso la cui sgrammmatura si aggira al 45% e appartiene alla tipologia Junmai Daiginjo, con vibrante intensità e profumi erbacei, frutta tropicale, guanabana, umami e speziati. Il terzo sake servito richiede un tempo maggiore perché possa aprirsi e possa essere apprezzato grazie alle sensazioni retrolfattive: una tipologia di Futsushu, prodotto per la prima volta dalla cantina nel 1964, riprendendo l’antica tradizione dei Taru sake, che prevedono l’utilizzo delle botti di cedro. Si apprezzano sensazioni di cedro appunto, di conifere, di menta piperita, di umami. Una esperienza molto stimolante e interessante, che ha aperto la mente agli abbinamenti con i prodotti del nostro mare, sapientemente trattati; il sake rappresenta un mondo che merita di essere approfondito, perché espressione di una cultura millenaria.

A tal proposito, a breve inizieranno i corsi organizzati dalla Scuola del Sake, per ora a Firenze, con Giovanni Baldini e molti altri validissimi relatori del calibro di Gaetano Cataldo.

Il Cinema prende forma a Sala Consilina (SA) con la decima edizione del Toko Film Fest

Ciak si gira! Parliamo di territorio e lo facciamo, questa volta, con una lodevole iniziativa giunta ormai alla sua decima edizione: il Toko Film Fest – Festival Internazionale di Cinema e Cultura.

Ideato da un’associazione di giovani appassionati della settima arte, definita tale dal critico Ricciotto Canudo nel manifesto del 1921, la kermesse ha cambiato più volte forma, come la pelle di un camaleonte mentre cerca di adattarsi ai colori dell’ambiente circostante.

Partito nel 2014 dalla Piazzetta Gracchi – “la chiazzeredda” per i cittadini salesi – l’evento ha assunto ormai le forme di un appuntamento fisso, che richiama pubblico dai numerosi comuni del Vallo di Diano (e non solo). Ospiti fissi selezionati tra registi, attori e musicisti di caratura nazionale, oltre laboratori di recitazione, cortometraggi, live podcast e talk culturali.

Quest’anno la vera novità è stata quella di passare da un Festival interattivo e itinerante dei tempi della pandemia ad una sorta di “Festival diffuso” lungo 7 giorni e con numerose iniziative in programma dal 24 al 30 luglio. Il culmine sarà il live show finale con il concerto di Valerio Lundini, conduttore televisivo, musicista, comico e scrittore, accompagnato dal gruppo I Vazzanikki già presenti su Raidue nel programma satirico “Una pezza di Lundini”.

Il dibattito invece, spiega il direttore artistico Gianmarco Ungaro, vedrà la presenza del regista Valerio Vestoso e degli artisti Demetra Bellina, Cristina Cappelli, Sabrina Martina, Andrea Vailati, Mauro Zingarelli e il team di sviluppatori indie Morbidware: Diego Sacchetti, Giuseppe Longo e Matteo Corradini (membro dei The Pills e scriptwriter di “The Textorcist”).

Nei giorni precedenti si è svolta la proiezione al Cinema Adriano del film Mixed by Erry del regista Sidney Sibilia e un incontro al Gran Caffè Trezza a Teggiano (SA) per la visione dei cortometraggi ammessi in concorso al Toko Film Fest.

Non manca l’attenzione verso i produttori del territorio; l’occasione ideale per fare la conoscenza di Alessandro Paventa, uno dei titolari, assieme ai cugini, del Caseificio S. Antonio di Sala Consilina (SA), terza generazione di imprenditori abili nel realizzare fiordilatte e caciocavallo di alta qualità. Una gradevole sosta trascorsa assaggiando proprio il loro caciocavallo, stagionato dieci giorni e cotto alla piastra su pane bruschetta.

Nel retro del Palazingaro, sede delle ultime due serate della manifestazione, è possibile anche osservare una piccola mostra d’arte contemporanea, ispirata alle problematiche sociali e ambientali del nostro tempo. Dichiarano gli organizzatori: <<prima ancora che una rassegna cinematografica, è amore per il territorio e per le proprie radici. Uno dei punti fermi è il recupero del centro storico di Sala Consilina, utilizzando il Festival anche per rafforzare la comunità esistente e rilanciare la zona come attrattore turistico e di investimenti nell’intero Vallo di Diano. Una parte fondamentale della nostra macchina organizzativa è sempre stata accompagnare i nostri ospiti – o nuovi membri dello staff provenienti da fuori Regione – a visitare i punti di forza del Vallo di Diano: Certosa di Padula, Grotte di Pertosa, Battistero di San Giovanni in Fonte ed altri, di concerto con le istituzioni e coinvolgendo altre associazioni ove necessario>>.

Per ulteriori info: https://www.tokofilmfestival.it/

L’ingresso è totalmente gratuito.

Il Nihonshu (Sake giapponese) nel corso del tempo

di Gaetano Cataldo

Il sorso meditato, associato alla consuetudine del bere responsabilmente, diventa una sorta di esercizio intellettuale, arricchimento culturale e allenamento mnemonico. La memoria olfattiva non è l’unica ad essere sollecitata: vecchie annate rievocano aneddoti ed accadimenti storici precisi, facendo rivivere fatti e persone di altre epoche.

Se ne restano lì, Impigliati nel fluire del tempo e rievocati da una sorsata di vino appena prelevato da un grosso qvevri, la nascita dell’alfabeto cuneiforme sumerico e le gesta mitologiche del re Gilgameš di Uruk, la fiera ebrezza degli Argonauti alla vigilia della ricerca del Vello d’Oro nell’antica Colchide, la remora delle antiche e fiere navi fenicie giunte fino a Cartagine, in Croazia ed in altri angoli del Mar Mediterraneo; parimenti, un boccale di birra dissetante tra amici non di rado aiuta a riscoprire le origini di questa bevanda oltre la spuma: la pratica di svezzare i neonati con lo zythum nell’Antico Egitto, i rituali religiosi officiati con la scura e concentratissima curmy, riservata al faraone ed il culto del gruit, miscela d’erbe antesignana del luppolo, custodito dalle popolazioni etrusche in un’epoca in cui la Campania non era stata ancora colonizzata dai Romani e quindi non monopolizzata nelle abitudini di beva col nettare dionisiaco.

Il sake giapponese, leggasi nihonshu per piacere, rientra di diritto tra i massimi sistemi del bere fermentato, unitamente al vino e alla birra, pertanto non sfugge assolutamente alle considerazioni di cui sopra, essendo il suo un fascino ammantato da storia e leggende millenarie.

Come accennato in un precedente articolo, pare tutto abbia avuto inizio in Cina

Con buone probabilità il casuale processo di fermentazione del riso sembra sia avvenuto attorno al V millennio a.C. nei pressi del Fiume Azzurro, mentre altre fonti sosterrebbero invece lo sia stato in prossimità del Fiume Giallo durante il periodo della dinastia Shang, tra il XVII ed il XI secolo a.C.

È bene osservare che ci sono degli antenati cinesi che si avvicinano molto al sake giapponese: lo shokoshu e lo shaohing-jiu, entrambi provenienti dalla regione dello Shaoxing nell’Est della Cina, nelle cui produzioni vengono impiegati cereali, come riso e addirittura grano, durante il processo fermentativo, per non parlare di un altro parente prossimo al sake: l’huang-jiu, ossia il vino giallo, tutt’oggi elemento di estremo rilievo nella gastronomia cinese. Nelle terre del Dragone Rosso va rilevato che, tre secoli prima della nascita di Gesù Cristo, viene fatta menzione per la prima volta di una particolare muffa nello Zhouli, libro dei riti della dinastia Zhou, che in seguito verrà classificata come aspergillus oryzae, elemento tutt’oggi di estrema importanza per l’alimentazione in Estremo Oriente.

Ma cosa accadeva nell’arcipelago giapponese e come si è arrivati al sake?

Alcuni reperti archeologici consistenti in anfore, vasellame e coppe, sono stati rinvenuti sull’isola di Kyushu nel sud del Giappone qualche anno fa e gli esami al radiocarbonio vorrebbero risalissero al periodo Jomon, tra il 10.000 ed il 300 a.C., epoca in cui alcune tracce confermano la consuetudine a bere alcolici, ottenuti dalla fermentazione di uva selvatica e di altri frutti spontanei da parte degli abitanti. È alla fine di questo periodo, più o meno tra il 600 ed il 500 a.C., che assisteremo all’introduzione del riso nell’arcipelago nipponico da parte dei cinesi. Durante il periodo Yayoi, databile tra il 300 a.C. ed il 300 d.C., assistiamo allo sviluppo ed al consolidamento delle tecniche di coltura del riso per mezzo dell’allagamento delle risaie e dei terreni predisposti alla semina di questo prezioso cereale. È bene rilevare che le testimonianze scritte più accreditate confermano il consumo di sake in Giappone risalga proprio a quest’epoca: nelle “Cronache dei Tre Regni” o “Gishi Wajin Den”, più precisamente nel Libro di Wei, testo cinese importantissimo, viene descritto come interpretare e decifrare gli ideogrammi giapponesi rispetto ai costumi del tempo, tra cui la consuetudine di bere alcol appunto sia durante le danze popolari che nei periodi di lutto. Insomma una vera e propria guida che includeva anche nozioni geografiche e nomenclatura topografica dell’epoca.

Grazie all’impulso cinese la società giapponese cominciò a cambiare radicalmente ed assumere, a poco a poco, una connotazione culturale tutta sua… al periodo Yayoi, come recitato nel testo che lo menziona per la prima volta, ossia l’Ohsumikoku Fudoki, appartiene il kuchi-kami no sake, il sake ancestrale preparato dalle sacerdotesse shintoiste attraverso la masticazione del riso caldo, poi riposto in recipienti di terracotta assieme ad altro riso ed acqua perché amilasi e fermentazione potessero aver luogo.

Il rituale della preparazione del sake da masticazione da parte delle giovani vergini fa sì che nel periodo Kofun ed Asuka, tra il III ed il VII secolo d.C., la bevanda sia consacrata agli dei per ingraziarsi buona sorte e raccolti fruttuosi e purtroppo, dopo essere divenuto una bevanda molto popolare, proibita: il consumo infatti divenne appannaggio esclusivo dell’imperatore e della sua corte. Nel 689 d.C. fu istituita la prima casa di produzione di sake al palazzo imperiale di Nara e costituirono un organismo che ne vigilasse il processo, inoltre si beveva il doburoku, un sake “fangoso”, ergo non filtrato. Col periodo Nara , datato tra il 710 ed il 794, la sacralità del sake  venne consolidata ulteriormente da un editto imperiale che ne codificò il culto durante specifiche funzioni religiose, proprie dello Shintoismo; dal Fudoki , testo di cronache di costumi e terre, opera letteraria voluta dalla stessa Genmei, un’importantissima rivoluzione nel processo di produzione del nettare di riso, si apprende circa l’introduzione del kamutachi: il termine antico è nient’altro che il sinonimo del meglio noto koji-kin, la spora fungina che cresce lungo gli steli del riso cui si è fatto cenno precedentemente ed il cui nome scientifico, lo ricordiamo, è aspergillus oryzae.

Di importante rilevanza storico-culturale è stata la prima consacrazione dell’intero Giappone del 754 avvenuta proprio in una delle sale del Grande Tempio Orientale tutt’oggi presidiata dalle imponenti statue dei quattro guardiani del Kaidan-In.

Dal 794 al 1185, detto periodo Heian, il Giappone vede il fiorire dell’arte della scrittura a corte e numerose sono le descrizioni in forma letteraria ed artistica circa il servizio di mescita del sake; nel 927 viene ultimata, per volere dell’imperatore Daigo, la stesura dell’Engishiki, libro di leggi e costumi del tempo contenente una vera e propria trattazione sul processo di fermentazione, la descrizione di una dozzina di sake conosciuti e viene menzionata per la prima volta la consuetudine di bere il sake caldo con le tecniche di riscaldamento. Alla fine del periodo Heian, nome dell’antica Kyōto, la domanda di sake aumentò così vertiginosamente da superare persino il prezzo del riso e, di conseguenza, i santuari shintoisti produttori di sake si moltiplicarono rapidamente in tutto il paese.

L’era Kamakura – Muromachi, dal 1185 al 1493, sancisce l’inizio della produzione moderna di sake e si praticava l’antica tecnica fermentativa chiamata bodai-moto: essa consisteva nel mescolare riso grezzo cotto al vapore con acqua, koji e lieviti per ottenere un miscuglio ricco di acido lattico… una sorta di batonnage.

Nel 1252 il governo dovette correre ai ripari limitando e regolando la produzione per impedire il consumo di sake degenerasse nella piaga dell’alcolismo. Tra il 1493 ed il 1600, ossia nel periodo Azuchi – Momoyama, venne introdotta la levigatura del riso con metodo Morohaku, descritto nel libro Tamon-in Nikki pubblicato nel 1569, creata la ricetta per la distillazione dello shōchū e, udite udite, fu introdotta la pratica della pastorizzazione…  appena 300 anni prima di Pasteur, aumentando così la shelf-life del fermentato.

Durante il periodo Tokugawa, noto anche come Edo, inizia il declino per lo shogunato ed il governo trova una stabilizzazione definitiva nella città di Tokyo. In questa fase di progresso generale avvengono altri determinanti cambiamenti per la produzione qualitativa di sake: come si tramanda nel Tamonin viene scoperta da Tazaemon Yamamura, fondatore della cantina Sakuramasamune, ancora attiva ed una delle più famose, la sorgente Miyamizu sul Monte Rokko nella prefettura di Hyogo e si comprende di conseguenza la funzione dell’acqua nel sake. Il cambiamento che porta Edo, la moderna Tokyo, a diventare la nuova capitale del Giappone in luogo di Osaka comporterà il trasporto di sake via mare e di conseguenza la costruzione di navi apposite chiamate Taru Kaisen, inoltre viene introdotta la figura del Toji, praticamente l’enologo del sake; nel Kanzukuri viene stabilito che i migliori sake debbano essere prodotti in inverno dove l’assenza o quasi di lieviti ed altri batteri non interferisce, inoltre verrà praticata la pastorizzazione a freddo ed infine, cosa importantissima, si introduce e perfeziona il processo fermentativo in tre fasi chiamato Sandan Jikomi.

Al Periodo Meiji, databile tra il 1868 ed il 1912, si deve la nascita della bottiglia “Issho Bin”, in pratica la bottiglia magnum del sake; nel 1873 il sake viene liberalizzato, consentendone il consumo al popolo, ed il fermentato di riso e koji compare sul Vecchio Continente, debuttando all’Expo Mondiale di Vienna.

Durante il secolo scorso, tanto nel periodo Taisho che nel periodo Showa, sono stati apportati altri miglioramenti ma cosa ancora più importante è avere comprensione che il sake è frutto di ogni singolo tassello che nel corso della sua storia è servito ad ottimizzare un prodotto ed uno stile di bere evolutosi senza sosta nel tempo fino ai nostri giorni.

Cosa possiamo dire del periodo Hensei, cioè dal 1989 fino ai giorni nostri? Con l’Expo di Milano del 2015 l’Italia diventa il primo paese europeo per l’importazione di sake di qualità e nel dicembre dello stesso anno il nihonshu viene insignito dell’indicazione geografica il cui disciplinare ne sancisce la tutela per tutte le 47 prefetture in cui viene prodotto. Ci sarebbe decisamente da dire molto di più in termini storici sul nihonshu, ma questo escursus compresso ci dovrebbe aiutare a comprendere sufficientemente quanto il fermentato giapponese sia stato testimone dell’evoluzione della civiltà che l’ho ha procreato, diventando elemento inscindibile nella vita sociale di questo grande Paese. Bere il vino di riso e koji è un’opportunità per fare un viaggio a ritroso in epoche remote, per confrontarsi con altre culture, con un tocco healthy e di grande appeal allo stesso tempo.

Il Nihonshu: il Sakè giapponese rapportato alla Dieta Mediterranea

di Gaetano Cataldo

Le tre principali religioni monoteiste del bere fermentato sono inequivocabilmente il vino, la birra e il sake giapponese, a dimostrazione del fatto che il dio Bacco non è mai stato né monotono né monofago, approdando persino nelle terre del Sol Levante per insegnare all’uomo cosa estrarre dal riso (e con cosa) e per brindare al miracolo dell’esistenza.

Esattamente come per sorella birra e fratello vino anche il sake giapponese ha una storia millenaria, da bevanda sia popolare che elitaria: il suo racconto è intriso di cultura, arte, storia e letteratura e riesce ad abbracciare tutte le umane attività, nondimeno religione, bellezza e salute. Insomma il sake non è certo una moda, ma fa decisamente tendenza, se così si può dire, ed accompagna l’uomo nel lungo corso del fluire del tempo, testimoniandone l’evoluzione e contribuendo alla nascita della Civiltà Nipponica.

Il fermentato più famoso del Giappone è diffuso in tutto il mondo. Si pensi che ebbe il suo esordio ufficiale dinanzi al grande pubblico occidentale proprio durante la prima Weltausstellung (Esposizione Universale) del 1873, nell’allora capitale dell’impero austro-ungarico; non soltanto famoso, ma anche prodotto in tutto il mondo, anzi imitato in tutto il mondo! Il sake è entrato di fatto nella quotidianità, ricoprendo un ruolo tanto alimentare quanto edonistico, sulle tavole dei Paesi Orientali e diventando un ottimo pairing per pietanze raffinate d’ogni sorta, persino come ingrediente principale in moltissimi cocktails, come il saketini, capostipite della miscelazione a base del fermentato di riso, inventato nel Queens dallo chef Matsuda nel 1964.

Ma facciamo subito chiarezza: ciò di cui si vorrebbe disquisire nel corso di questo pezzo in realtà si chiama Nihonshu!

Infatti con il termine sake viene indicatomolto genericamente l’alcool, mentre con la parola nihonshu, scritta allo stesso modo e probabilmente inventato dai samurai per diversificare la loro bevanda nazionale dalle altre importate nell’arcipelago, tendiamo a definire un prodotto che deriva dalla fermentazione del riso con aggiunta di acqua e koji, una sorta di spora fungina o muffa. Inoltre, perché lo si possa denominare nihonshu, occorre venga sottoposto a filtraggio, fatti salvi diversi stili di lavorazione e, al di sopra di ogni cosa, deve essere prodotto e imbottigliato integralmente ed esclusivamente in Giappone.

Un po’ di storia…

Con buona probabilità, il casuale processo di fermentazione del riso ha avuto origine in Cina attorno al V millennio a.C. nei pressi del Fiume Azzurro, per quanto altre fonti sostengano  sia avvenuto in prossimità del Fiume Giallo, durante il periodo della dinastia Shang, tra il XVII ed il XI secolo a.C. Nella grande Cina, tre secoli prima della nascita di Gesù Cristo, viene fatta menzione di una particolare muffa per la prima volta nello Zhouli, libro dei riti della dinastia Zhou, che in seguito verrà classificata come Aspergillus Oryzae, ossia quel fungo filamentoso cui si accennava prima e di estrema importanza per l’alimentazione in tutto l’Estremo Oriente.

Ciò non significa che il sake abbia realmente avuto origine in Cina, per quanto la bevanda più prossima ad esso sia il cosiddetto huang-jiu. Solo grazie al know-how cinese sulla coltivazione del riso il Popolo Giapponese ha imparato a sostenersi sulle proprie gambe, diventando una civiltà autonoma, e inventando il fermentato tra il 300 a.C. e il 300 d.C. nella versione ancestrale del kuchikami no zake, fino ad arrivare ai nostri giorni, ai processi innovativi ed alle attuali espressioni di questa iconica bevanda.

Ovviamente è facile immaginare certi abbinamenti col nihonshu: sushi, ostriche e sashimi ne sono un esempio piuttosto lampante e diffuso. E se invece vi suggerissero di sorseggiarlo con la nostra amatissima Dieta Mediterranea?

Statene certi perché lo dico dal 2017: il nihonshu, ed il modello nutrizionale mediterraneo per il quale l’Italia è indiscussa capitale, vanno a nozze!

Intanto cominciamo col rilevare che l’Italia, per gran parte, e il Giappone sono circondati dal mare, hanno uno sviluppo territoriale che si estende in lunghezza e non in ampiezza, oltre ad essere Paesi vulcanici e sismici imbrigliati nella stessa fascia di latitudine.

Va rammentato che tra i Paesi le cui osservazioni hanno dato vita allo studio epidemiologico condotto dal celebre Ancel Keys a partire dal 1957, colui che coniò il termine “Dieta Mediterranea” e ne enunciò i dettami, v’era anche il Giappone. Infatti il Seven Countries Study, ideato, coordinato e condotto per molti anni dal prof. Keys, è stato uno studio epidemiologico di monitoraggio eseguito su oltre 12 mila persone di età compresa tra 40 e 59 anni, appartenenti a 16 aree situate in sette Paesi dislocati in tre continenti. Le analisi ottenute dalle osservazioni fanno riferimento alle relazioni intercorrenti tra abitudini alimentari e malattie del sistema cardiocircolatorio: in via generale, l’incidenza e la mortalità coronarica risultavano decisamente più elevate nelle aree del Nord Europa e del Nord America e più basse nelle coorti del Sud Europa e del Giappone.

Ebbene le assonanze tra la Dieta Mediterranea e la Cucina Giapponese sono evidenti almeno dagli anni ’70 del secolo scorso e sottolineano quanto un consumo di alimenti variegati, privilegiando materie prime di origine vegetale, incluso un sano stile di vita, siano tratti comuni dei centenari del Cilento e del Giappone, seppur con ingredienti differenti ma dallo stesso valore nutraceutico e, talvolta, dal simil profilo organolettico.

Piaccia osservare che, per quanto con sfumature e costumanze diverse, il Popolo Giapponese e quello Italiano amano dare il benvenuto a tavola, proprio perché come nella Dieta l’ospitalità, la condivisione del buon cibo e del buon bere sono elementi inscindibili di un grande, genuino senso di convivialità.

Per quanto si possa giustamente ritenere che natto, salsa di soia, miso e tofu siano elementi “alieni” alla nostra idea locale di gastronomia, è bene ribadire che i Paesi del Mare Nostrum non sono assolutamente estranei ai cibi fermentati: ne sono esempio il kefir, la colatura di alici e le olive in salamoia. Inoltre non è recentissima la diffusione di modelli di ristorazione che fondano la loro filosofia su piacevoli contaminazioni e tecniche come la latto-fermentazione Katsuobushi? Rispondo: bottarga, acciughe sotto sale e la stessa colatura di alici appunto! Tofu? mozzarella o parmigiano reggiano, a seconda del grado di stagionatura della cagliata di soia. Alga Wakame? Puntarelle ed agretti con i condimenti a noi più cari, pomodori secchi e chi più ne ha più ne metta!

La chiave di volta dell’abbinamento è nel fattore umami e nella considerazione che, grazie ad un quinto in meno dell’acidità contenuta mediamente in un vino, il nihonshu non litiga mai col cibo. Insomma crudità sia di mare che di terra, risotti, formaggi, funghi e tartufi, verdure grigliate, salumi, frittate e carni pregiate si offrono piacevolmente al pairing con il nihonshu.

Dunque buon nihonshu a tutti e… kampai!