Il Nihonshu (Sake giapponese) nel corso del tempo

di Gaetano Cataldo

Il sorso meditato, associato alla consuetudine del bere responsabilmente, diventa una sorta di esercizio intellettuale, arricchimento culturale e allenamento mnemonico. La memoria olfattiva non è l’unica ad essere sollecitata: vecchie annate rievocano aneddoti ed accadimenti storici precisi, facendo rivivere fatti e persone di altre epoche.

Se ne restano lì, Impigliati nel fluire del tempo e rievocati da una sorsata di vino appena prelevato da un grosso qvevri, la nascita dell’alfabeto cuneiforme sumerico e le gesta mitologiche del re Gilgameš di Uruk, la fiera ebrezza degli Argonauti alla vigilia della ricerca del Vello d’Oro nell’antica Colchide, la remora delle antiche e fiere navi fenicie giunte fino a Cartagine, in Croazia ed in altri angoli del Mar Mediterraneo; parimenti, un boccale di birra dissetante tra amici non di rado aiuta a riscoprire le origini di questa bevanda oltre la spuma: la pratica di svezzare i neonati con lo zythum nell’Antico Egitto, i rituali religiosi officiati con la scura e concentratissima curmy, riservata al faraone ed il culto del gruit, miscela d’erbe antesignana del luppolo, custodito dalle popolazioni etrusche in un’epoca in cui la Campania non era stata ancora colonizzata dai Romani e quindi non monopolizzata nelle abitudini di beva col nettare dionisiaco.

Il sake giapponese, leggasi nihonshu per piacere, rientra di diritto tra i massimi sistemi del bere fermentato, unitamente al vino e alla birra, pertanto non sfugge assolutamente alle considerazioni di cui sopra, essendo il suo un fascino ammantato da storia e leggende millenarie.

Come accennato in un precedente articolo, pare tutto abbia avuto inizio in Cina

Con buone probabilità il casuale processo di fermentazione del riso sembra sia avvenuto attorno al V millennio a.C. nei pressi del Fiume Azzurro, mentre altre fonti sosterrebbero invece lo sia stato in prossimità del Fiume Giallo durante il periodo della dinastia Shang, tra il XVII ed il XI secolo a.C.

È bene osservare che ci sono degli antenati cinesi che si avvicinano molto al sake giapponese: lo shokoshu e lo shaohing-jiu, entrambi provenienti dalla regione dello Shaoxing nell’Est della Cina, nelle cui produzioni vengono impiegati cereali, come riso e addirittura grano, durante il processo fermentativo, per non parlare di un altro parente prossimo al sake: l’huang-jiu, ossia il vino giallo, tutt’oggi elemento di estremo rilievo nella gastronomia cinese. Nelle terre del Dragone Rosso va rilevato che, tre secoli prima della nascita di Gesù Cristo, viene fatta menzione per la prima volta di una particolare muffa nello Zhouli, libro dei riti della dinastia Zhou, che in seguito verrà classificata come aspergillus oryzae, elemento tutt’oggi di estrema importanza per l’alimentazione in Estremo Oriente.

Ma cosa accadeva nell’arcipelago giapponese e come si è arrivati al sake?

Alcuni reperti archeologici consistenti in anfore, vasellame e coppe, sono stati rinvenuti sull’isola di Kyushu nel sud del Giappone qualche anno fa e gli esami al radiocarbonio vorrebbero risalissero al periodo Jomon, tra il 10.000 ed il 300 a.C., epoca in cui alcune tracce confermano la consuetudine a bere alcolici, ottenuti dalla fermentazione di uva selvatica e di altri frutti spontanei da parte degli abitanti. È alla fine di questo periodo, più o meno tra il 600 ed il 500 a.C., che assisteremo all’introduzione del riso nell’arcipelago nipponico da parte dei cinesi. Durante il periodo Yayoi, databile tra il 300 a.C. ed il 300 d.C., assistiamo allo sviluppo ed al consolidamento delle tecniche di coltura del riso per mezzo dell’allagamento delle risaie e dei terreni predisposti alla semina di questo prezioso cereale. È bene rilevare che le testimonianze scritte più accreditate confermano il consumo di sake in Giappone risalga proprio a quest’epoca: nelle “Cronache dei Tre Regni” o “Gishi Wajin Den”, più precisamente nel Libro di Wei, testo cinese importantissimo, viene descritto come interpretare e decifrare gli ideogrammi giapponesi rispetto ai costumi del tempo, tra cui la consuetudine di bere alcol appunto sia durante le danze popolari che nei periodi di lutto. Insomma una vera e propria guida che includeva anche nozioni geografiche e nomenclatura topografica dell’epoca.

Grazie all’impulso cinese la società giapponese cominciò a cambiare radicalmente ed assumere, a poco a poco, una connotazione culturale tutta sua… al periodo Yayoi, come recitato nel testo che lo menziona per la prima volta, ossia l’Ohsumikoku Fudoki, appartiene il kuchi-kami no sake, il sake ancestrale preparato dalle sacerdotesse shintoiste attraverso la masticazione del riso caldo, poi riposto in recipienti di terracotta assieme ad altro riso ed acqua perché amilasi e fermentazione potessero aver luogo.

Il rituale della preparazione del sake da masticazione da parte delle giovani vergini fa sì che nel periodo Kofun ed Asuka, tra il III ed il VII secolo d.C., la bevanda sia consacrata agli dei per ingraziarsi buona sorte e raccolti fruttuosi e purtroppo, dopo essere divenuto una bevanda molto popolare, proibita: il consumo infatti divenne appannaggio esclusivo dell’imperatore e della sua corte. Nel 689 d.C. fu istituita la prima casa di produzione di sake al palazzo imperiale di Nara e costituirono un organismo che ne vigilasse il processo, inoltre si beveva il doburoku, un sake “fangoso”, ergo non filtrato. Col periodo Nara , datato tra il 710 ed il 794, la sacralità del sake  venne consolidata ulteriormente da un editto imperiale che ne codificò il culto durante specifiche funzioni religiose, proprie dello Shintoismo; dal Fudoki , testo di cronache di costumi e terre, opera letteraria voluta dalla stessa Genmei, un’importantissima rivoluzione nel processo di produzione del nettare di riso, si apprende circa l’introduzione del kamutachi: il termine antico è nient’altro che il sinonimo del meglio noto koji-kin, la spora fungina che cresce lungo gli steli del riso cui si è fatto cenno precedentemente ed il cui nome scientifico, lo ricordiamo, è aspergillus oryzae.

Di importante rilevanza storico-culturale è stata la prima consacrazione dell’intero Giappone del 754 avvenuta proprio in una delle sale del Grande Tempio Orientale tutt’oggi presidiata dalle imponenti statue dei quattro guardiani del Kaidan-In.

Dal 794 al 1185, detto periodo Heian, il Giappone vede il fiorire dell’arte della scrittura a corte e numerose sono le descrizioni in forma letteraria ed artistica circa il servizio di mescita del sake; nel 927 viene ultimata, per volere dell’imperatore Daigo, la stesura dell’Engishiki, libro di leggi e costumi del tempo contenente una vera e propria trattazione sul processo di fermentazione, la descrizione di una dozzina di sake conosciuti e viene menzionata per la prima volta la consuetudine di bere il sake caldo con le tecniche di riscaldamento. Alla fine del periodo Heian, nome dell’antica Kyōto, la domanda di sake aumentò così vertiginosamente da superare persino il prezzo del riso e, di conseguenza, i santuari shintoisti produttori di sake si moltiplicarono rapidamente in tutto il paese.

L’era Kamakura – Muromachi, dal 1185 al 1493, sancisce l’inizio della produzione moderna di sake e si praticava l’antica tecnica fermentativa chiamata bodai-moto: essa consisteva nel mescolare riso grezzo cotto al vapore con acqua, koji e lieviti per ottenere un miscuglio ricco di acido lattico… una sorta di batonnage.

Nel 1252 il governo dovette correre ai ripari limitando e regolando la produzione per impedire il consumo di sake degenerasse nella piaga dell’alcolismo. Tra il 1493 ed il 1600, ossia nel periodo Azuchi – Momoyama, venne introdotta la levigatura del riso con metodo Morohaku, descritto nel libro Tamon-in Nikki pubblicato nel 1569, creata la ricetta per la distillazione dello shōchū e, udite udite, fu introdotta la pratica della pastorizzazione…  appena 300 anni prima di Pasteur, aumentando così la shelf-life del fermentato.

Durante il periodo Tokugawa, noto anche come Edo, inizia il declino per lo shogunato ed il governo trova una stabilizzazione definitiva nella città di Tokyo. In questa fase di progresso generale avvengono altri determinanti cambiamenti per la produzione qualitativa di sake: come si tramanda nel Tamonin viene scoperta da Tazaemon Yamamura, fondatore della cantina Sakuramasamune, ancora attiva ed una delle più famose, la sorgente Miyamizu sul Monte Rokko nella prefettura di Hyogo e si comprende di conseguenza la funzione dell’acqua nel sake. Il cambiamento che porta Edo, la moderna Tokyo, a diventare la nuova capitale del Giappone in luogo di Osaka comporterà il trasporto di sake via mare e di conseguenza la costruzione di navi apposite chiamate Taru Kaisen, inoltre viene introdotta la figura del Toji, praticamente l’enologo del sake; nel Kanzukuri viene stabilito che i migliori sake debbano essere prodotti in inverno dove l’assenza o quasi di lieviti ed altri batteri non interferisce, inoltre verrà praticata la pastorizzazione a freddo ed infine, cosa importantissima, si introduce e perfeziona il processo fermentativo in tre fasi chiamato Sandan Jikomi.

Al Periodo Meiji, databile tra il 1868 ed il 1912, si deve la nascita della bottiglia “Issho Bin”, in pratica la bottiglia magnum del sake; nel 1873 il sake viene liberalizzato, consentendone il consumo al popolo, ed il fermentato di riso e koji compare sul Vecchio Continente, debuttando all’Expo Mondiale di Vienna.

Durante il secolo scorso, tanto nel periodo Taisho che nel periodo Showa, sono stati apportati altri miglioramenti ma cosa ancora più importante è avere comprensione che il sake è frutto di ogni singolo tassello che nel corso della sua storia è servito ad ottimizzare un prodotto ed uno stile di bere evolutosi senza sosta nel tempo fino ai nostri giorni.

Cosa possiamo dire del periodo Hensei, cioè dal 1989 fino ai giorni nostri? Con l’Expo di Milano del 2015 l’Italia diventa il primo paese europeo per l’importazione di sake di qualità e nel dicembre dello stesso anno il nihonshu viene insignito dell’indicazione geografica il cui disciplinare ne sancisce la tutela per tutte le 47 prefetture in cui viene prodotto. Ci sarebbe decisamente da dire molto di più in termini storici sul nihonshu, ma questo escursus compresso ci dovrebbe aiutare a comprendere sufficientemente quanto il fermentato giapponese sia stato testimone dell’evoluzione della civiltà che l’ho ha procreato, diventando elemento inscindibile nella vita sociale di questo grande Paese. Bere il vino di riso e koji è un’opportunità per fare un viaggio a ritroso in epoche remote, per confrontarsi con altre culture, con un tocco healthy e di grande appeal allo stesso tempo.

Il Nihonshu: il Sakè giapponese rapportato alla Dieta Mediterranea

di Gaetano Cataldo

Le tre principali religioni monoteiste del bere fermentato sono inequivocabilmente il vino, la birra e il sake giapponese, a dimostrazione del fatto che il dio Bacco non è mai stato né monotono né monofago, approdando persino nelle terre del Sol Levante per insegnare all’uomo cosa estrarre dal riso (e con cosa) e per brindare al miracolo dell’esistenza.

Esattamente come per sorella birra e fratello vino anche il sake giapponese ha una storia millenaria, da bevanda sia popolare che elitaria: il suo racconto è intriso di cultura, arte, storia e letteratura e riesce ad abbracciare tutte le umane attività, nondimeno religione, bellezza e salute. Insomma il sake non è certo una moda, ma fa decisamente tendenza, se così si può dire, ed accompagna l’uomo nel lungo corso del fluire del tempo, testimoniandone l’evoluzione e contribuendo alla nascita della Civiltà Nipponica.

Il fermentato più famoso del Giappone è diffuso in tutto il mondo. Si pensi che ebbe il suo esordio ufficiale dinanzi al grande pubblico occidentale proprio durante la prima Weltausstellung (Esposizione Universale) del 1873, nell’allora capitale dell’impero austro-ungarico; non soltanto famoso, ma anche prodotto in tutto il mondo, anzi imitato in tutto il mondo! Il sake è entrato di fatto nella quotidianità, ricoprendo un ruolo tanto alimentare quanto edonistico, sulle tavole dei Paesi Orientali e diventando un ottimo pairing per pietanze raffinate d’ogni sorta, persino come ingrediente principale in moltissimi cocktails, come il saketini, capostipite della miscelazione a base del fermentato di riso, inventato nel Queens dallo chef Matsuda nel 1964.

Ma facciamo subito chiarezza: ciò di cui si vorrebbe disquisire nel corso di questo pezzo in realtà si chiama Nihonshu!

Infatti con il termine sake viene indicatomolto genericamente l’alcool, mentre con la parola nihonshu, scritta allo stesso modo e probabilmente inventato dai samurai per diversificare la loro bevanda nazionale dalle altre importate nell’arcipelago, tendiamo a definire un prodotto che deriva dalla fermentazione del riso con aggiunta di acqua e koji, una sorta di spora fungina o muffa. Inoltre, perché lo si possa denominare nihonshu, occorre venga sottoposto a filtraggio, fatti salvi diversi stili di lavorazione e, al di sopra di ogni cosa, deve essere prodotto e imbottigliato integralmente ed esclusivamente in Giappone.

Un po’ di storia…

Con buona probabilità, il casuale processo di fermentazione del riso ha avuto origine in Cina attorno al V millennio a.C. nei pressi del Fiume Azzurro, per quanto altre fonti sostengano  sia avvenuto in prossimità del Fiume Giallo, durante il periodo della dinastia Shang, tra il XVII ed il XI secolo a.C. Nella grande Cina, tre secoli prima della nascita di Gesù Cristo, viene fatta menzione di una particolare muffa per la prima volta nello Zhouli, libro dei riti della dinastia Zhou, che in seguito verrà classificata come Aspergillus Oryzae, ossia quel fungo filamentoso cui si accennava prima e di estrema importanza per l’alimentazione in tutto l’Estremo Oriente.

Ciò non significa che il sake abbia realmente avuto origine in Cina, per quanto la bevanda più prossima ad esso sia il cosiddetto huang-jiu. Solo grazie al know-how cinese sulla coltivazione del riso il Popolo Giapponese ha imparato a sostenersi sulle proprie gambe, diventando una civiltà autonoma, e inventando il fermentato tra il 300 a.C. e il 300 d.C. nella versione ancestrale del kuchikami no zake, fino ad arrivare ai nostri giorni, ai processi innovativi ed alle attuali espressioni di questa iconica bevanda.

Ovviamente è facile immaginare certi abbinamenti col nihonshu: sushi, ostriche e sashimi ne sono un esempio piuttosto lampante e diffuso. E se invece vi suggerissero di sorseggiarlo con la nostra amatissima Dieta Mediterranea?

Statene certi perché lo dico dal 2017: il nihonshu, ed il modello nutrizionale mediterraneo per il quale l’Italia è indiscussa capitale, vanno a nozze!

Intanto cominciamo col rilevare che l’Italia, per gran parte, e il Giappone sono circondati dal mare, hanno uno sviluppo territoriale che si estende in lunghezza e non in ampiezza, oltre ad essere Paesi vulcanici e sismici imbrigliati nella stessa fascia di latitudine.

Va rammentato che tra i Paesi le cui osservazioni hanno dato vita allo studio epidemiologico condotto dal celebre Ancel Keys a partire dal 1957, colui che coniò il termine “Dieta Mediterranea” e ne enunciò i dettami, v’era anche il Giappone. Infatti il Seven Countries Study, ideato, coordinato e condotto per molti anni dal prof. Keys, è stato uno studio epidemiologico di monitoraggio eseguito su oltre 12 mila persone di età compresa tra 40 e 59 anni, appartenenti a 16 aree situate in sette Paesi dislocati in tre continenti. Le analisi ottenute dalle osservazioni fanno riferimento alle relazioni intercorrenti tra abitudini alimentari e malattie del sistema cardiocircolatorio: in via generale, l’incidenza e la mortalità coronarica risultavano decisamente più elevate nelle aree del Nord Europa e del Nord America e più basse nelle coorti del Sud Europa e del Giappone.

Ebbene le assonanze tra la Dieta Mediterranea e la Cucina Giapponese sono evidenti almeno dagli anni ’70 del secolo scorso e sottolineano quanto un consumo di alimenti variegati, privilegiando materie prime di origine vegetale, incluso un sano stile di vita, siano tratti comuni dei centenari del Cilento e del Giappone, seppur con ingredienti differenti ma dallo stesso valore nutraceutico e, talvolta, dal simil profilo organolettico.

Piaccia osservare che, per quanto con sfumature e costumanze diverse, il Popolo Giapponese e quello Italiano amano dare il benvenuto a tavola, proprio perché come nella Dieta l’ospitalità, la condivisione del buon cibo e del buon bere sono elementi inscindibili di un grande, genuino senso di convivialità.

Per quanto si possa giustamente ritenere che natto, salsa di soia, miso e tofu siano elementi “alieni” alla nostra idea locale di gastronomia, è bene ribadire che i Paesi del Mare Nostrum non sono assolutamente estranei ai cibi fermentati: ne sono esempio il kefir, la colatura di alici e le olive in salamoia. Inoltre non è recentissima la diffusione di modelli di ristorazione che fondano la loro filosofia su piacevoli contaminazioni e tecniche come la latto-fermentazione Katsuobushi? Rispondo: bottarga, acciughe sotto sale e la stessa colatura di alici appunto! Tofu? mozzarella o parmigiano reggiano, a seconda del grado di stagionatura della cagliata di soia. Alga Wakame? Puntarelle ed agretti con i condimenti a noi più cari, pomodori secchi e chi più ne ha più ne metta!

La chiave di volta dell’abbinamento è nel fattore umami e nella considerazione che, grazie ad un quinto in meno dell’acidità contenuta mediamente in un vino, il nihonshu non litiga mai col cibo. Insomma crudità sia di mare che di terra, risotti, formaggi, funghi e tartufi, verdure grigliate, salumi, frittate e carni pregiate si offrono piacevolmente al pairing con il nihonshu.

Dunque buon nihonshu a tutti e… kampai!