Vero Omakase Rooftop: tra sashimi, nigiri, gunkan, wasabi… e cultura del Sol Levante

Il sushi master Gilberto Silva crea un viaggio nei sapori e nelle tradizioni più autentiche del Giappone. 

Quante volte avete pronunciato le parole “mi fido di te”? Il contesto davvero particolare del Vero Omakase Rooftop, all’interno del Ro World di Nola (NA), rischia di rappresentare un nuovo modo di affidarsi totalmente nelle mani di qualcuno.

La cosa più bella è la mancanza di un reale vincolo di parentela se non “temporaneo”: giusto il tempo, infatti, di sedersi al banco dello chef, in attesa di essere stupiti dalle tante preparazioni ideate ogni sera da Gilberto Silva.

Il concept stesso di sushi (nel termine ampio di piatti tipici a base di pesce crudo, alghe, uova, riso e condimenti) viene ridisegnato sulla base delle usanze orientali, nel rispetto delle rigide normative alimentari europee. Una differenza anzitutto nel metodo di lavorazione e conservazione, che in Italia prevede l’obbligo del passaggio in abbattitore per evitare pericolose contaminazioni parassitarie.

Nel Paese del Sol Levante, invece, si pratica l’immediata sfilettatura del pescato, preceduta dall’eviscerazione ed eventuale marinatura con limone. La temperatura di servizio delle pietanze è però identica per entrambe le realtà, compresa tra 3 e 9°C atta a garantire la massima qualità del prodotto.

Parte da qui il viaggio tra i sapori e i ricordi di Gilberto Silva, originario del Brasile e divenuto amante di tutto ciò che riguardi l’Oriente. Un’esperienza riversata ai clienti finali, sulla relazione diretta tra chef ed ospite, che siede in prima fila per ascoltare, osservare e gustare. Nella formula Omakase (traduzione “mi fido di te”), le preparazioni vengono eseguite e raccontate davanti all’avventore, con un massimo di sei persone per volta di fronte allo chef.

Al Vero Omakase Rooftop è comunque possibile optare per i tavoli in sala ed ordinare à la carte :sono disponibili 20 coperti interni e 40 in terrazza. Il maître Roberto Tanzi ed il sommelier Giuseppe Bonomo riescono ad intercettare le varie esigenze gastronomiche esaltando al meglio l’experience.

I protagonisti, le selezioni del pescato proveniente da tutto il mondo, vengono presentate all’interno di una scatola di legno quasi un dono ed un segno di rispetto per i presenti. Da lì sono giunte le ricette per noi della stampa, presenti la sera del 10 luglio grazie all’abile organizzazione della giornalista Nadia Taglialatela. Un momento di riflessione su quanta fretta abbiamo spesso in un istante che dovrebbe essere di gioia e d’attesa come il piacere di acculturarsi a tavola.

Scampi freschi, gamberi di Mazara del Vallo, trilogie di tonno, capesante del Canada, ricciole e ricci di mare giganti del Giappone. E poi ancora dentici, orate, polpo di Spagna e persino il Wagyū la carne più pregiata di sempre, proprio per non farsi mancare nulla.

Il lungo percorso ha inizio prima dal “cotto”, con un bao di kebab di tonno, spezie orientali, cipolla al lampone e crema acida, saporito al punto giusto. Si vira rapidi sulle specialità del pesce crudo, con carpaccio di rombo in salsa ponzu (soia e agrumi), erba cipollina e uova di trota salmonata con polvere di peperoncino togarashi molto delicata.

Una pausa fatta dal Tamagoyaki, la frittata in padella quadrata con soia e brodo dashi composto da alga kombu e katsuobushi per poi assaggiare i vari Sashimi: di tonno, ricciola di Hokkaidō, polpo verace e salmone delle isole Faroe con foglia di wasabi.

Proseguiamo con una tartare di scampo affumicato, con olio yuzu, zenzero fresco, uova di pesce volante e foglio d’oro a 24 carati da lasciare i commensali senza parole. I ravioli di gambero rosso di Mazara del Vallo anticipano il Kobe in salsa demi-glace cotto a bassa temperatura per 72 ore.

E adesso il momento clou con i Nigiri proposti da branzino giapponese, capasanta del Canada, gambero e sgombro, per concludere con un Gunkan di riccio di mare gigante ed una tagliata di Wagyu affumicata. Abbinamento cocktail-list personalizzato, coordinata dal giovane bartender Antonio Onorato, dove spicca un gustoso Bloody Mary al caramello salato.

Giuseppe Tufano, ideatore e proprietario di Ro World e del Vero Omakase Rooftop, esprime così la sua soddisfazione per il premio ricevuto dal Gambero Rosso con le “Tre bacchette” nella Guida Sushi 2025

<<È un premio che ci lusinga tantissimo. Il fatto di essere in Campania per me non ha mai significato proporre soltanto tradizione regionale. Qui da noi arrivano persone delle più diverse tipologie e provenienze:  italiani, stranieri, manager, appassionati, visitatori di passaggio. Sentivo il bisogno di far sentire accolto ciascuno di loro.  Poi c’è stato l’incontro con un maestro sushi del calibro di Gilberto Silva e  l’opportunità di porci in maniera ancor più internazionale e dinamica:  anche il mondo gastronomico giapponese, quello autentico, qui ha trovato lo spazio che merita.  Con eleganza e cura dei particolari, com’è nel nostro stile>>.

Vero Omakase Rooftop

(all’interno di Ro World)

Km 50, SS7bis, 80035 Nola NA

aperto a cena, dal lunedì alla domenica – È richiesta la prenotazione

+ 39 349 888 6066

www.roworldexperience.com/vero/

Sake Days a Firenze: il racconto dell’evento unico nel suo genere per gli amanti del Giappone (e non solo)

Domenica 8 ottobre al Renny Club in via Baracca 1 a Firenze, in occasione della terza edizione dei Sake Days si è tenuta una manifestazione unica nel suo genere, che ha visto coinvolti i principali distributori e importatori di bevande provenienti dal Giappone.

Una masterclass molto interessante, volta a far scoprire quanto il sake possa rappresentare una scelta perfetta per gli abbinamenti ai piatti della dieta mediterranea, è stata condotta da Gaetano Cataldo, sommelier ed esperto di sake e da Luciana Mandarino di Madstudio/Marificio.

Il Marificio è un laboratorio di idee culinarie che prende forma e vita dai pesci più pregiati e ricercati del mare italiano, che vengono lavorati per creare salumi di pesce, quali la bresaola di tonno, il girello di pesce spada, la lonza di morone: una proficua collaborazione tra lo chef stellato Pasquale Palamaro e l’armatore Filippo Castaldi. Il cibo che viene creato è sostenibile, a basso impatto ambientale ed etico.

Cataldo ha stimolato la platea con alcune considerazioni, riguardanti la “compatibilità” dei sapori della dieta mediterranea con la bevanda giapponese a base di riso.

Italia e Giappone si trovano alle stesse latitudine e sono circondate dal mare, l’Italia solo su tre lati essedo una penisola; entrambe si estendono in lunghezza, abbracciando diversi paralleli e hanno suoli vulcanici e territori sismici. Le abitudini alimentari di questi paesi sono state valutate positivamente dallo studio del Dott. Ancel Keys, nell’ambito di una ricerca sulla longevità della popolazione verso gli anni Sessanta (Seven Countries Study), abbinate a un corretto stile di vita.

Le vicende storiche legate alla seconda Guerra Mondiale hanno sicuramente frenato l’entrata e la diffusione di prodotti giapponesi sul mercato statunitense, cosa che non è accaduta per quanto riguarda quelli italiani.

E’ stato molto interessante scoprire come il pesce del nostro mare, lavorato con passione e cura, affumicato e salato possa diventare un partner perfetto per le varie tipologie di sake! Il sapore umami è la chiave di lettura dei vari piatti di entrambe le cucine, per cui ricercare nel nostro caso un sake adatto a bilanciare l’esperienza gustativa.

La degustazione è iniziata con un sake spumantizzato, con il quale si è brindato in apertura della degustazione. I relatori hanno consigliato di tenere piccole quantità di cibo e di sake in modo da provare diversi abbinamenti e trovare il cosiddetto best pairing.

Sicuramente il sommelier o il ristoratore devono conoscere molto bene i piatti e gli ingredienti, in modo da poter consigliare il sake più adatto, alla corretta temperatura di servizio.

Il primo piatto di insaccati di mare del Marificio ha visto una ricciola nera, preparata come lonza di morone, di colore bianco, una salamella dolcemare (una ricetta trattata con il vino ischitana) e un girello di pesce spada, mentre il secondo è stato composto con un insaccato da pesce spada, ricciola e tonno, seguita dalla bresaola di tonno e per finire la ‘nduja di Spilinga, con peperoni gialli e rossi.

Il sake, contenendo circa un quinto in meno di acidi fissi rispetto al vino, riesce ad abbinarsi molto piacevolmente: Il primo sake degustato, un Tokubetsu Junmai, (junmai= senza aggiunta di alcol) ha un nome che tradotto significa Luna dopo la Pioggia e proviene dalla prefettura di Hiroshima; la sgrammatura del chicco di riso, scelto di una tipologia aromatica, si aggira al 60%. Un sake delicato ed elegante, con profumi che vanno ricercati dentro il bicchiere, tra cui spiccano le note aromatiche e speziate, con una lieve piccantezza sul finale. Il secondo sake in degustazione è Dassai 45, ottenuto da un riso la cui sgrammmatura si aggira al 45% e appartiene alla tipologia Junmai Daiginjo, con vibrante intensità e profumi erbacei, frutta tropicale, guanabana, umami e speziati. Il terzo sake servito richiede un tempo maggiore perché possa aprirsi e possa essere apprezzato grazie alle sensazioni retrolfattive: una tipologia di Futsushu, prodotto per la prima volta dalla cantina nel 1964, riprendendo l’antica tradizione dei Taru sake, che prevedono l’utilizzo delle botti di cedro. Si apprezzano sensazioni di cedro appunto, di conifere, di menta piperita, di umami. Una esperienza molto stimolante e interessante, che ha aperto la mente agli abbinamenti con i prodotti del nostro mare, sapientemente trattati; il sake rappresenta un mondo che merita di essere approfondito, perché espressione di una cultura millenaria.

A tal proposito, a breve inizieranno i corsi organizzati dalla Scuola del Sake, per ora a Firenze, con Giovanni Baldini e molti altri validissimi relatori del calibro di Gaetano Cataldo.

Sakè: Aichi uno spaccato di Giappone dove si produce l’Houraisen Junmai Ginjo Bi

La prefettura di Aichi conta oltre 7.500.00 abitanti, si trova nella regione di Chūbu, precisamente nella parte centrale dell’isola di Honshū, la più grande dell’arcipelago giapponese, si affaccia sull’Oceano Pacifico a Sud attraverso la Baia di Ise e la Baia di Mikawa ed ha Nagoya per capoluogo.

La morfologia del paesaggio di questa terra spazia dal tratto costiero alle lande pianeggianti, dagli altipiani sino alle montagne innevate, sulle quali domina il Chasuyama coi suoi 1415 metri sul livello del mare. Per quanto rappresenti circa l’1,36% della superficie totale del Giappone, la sua produzione industriale è la più alta di tutte le altre prefetture: Aichi di fatto è il polo manifatturiero, automobilistico ed aerospaziale del Paese.

Si pensi che Nagoya, raggiungibile da Tokyo velocemente con lo Shinkasen, è la terza città più importante del Sol Levante dal punto di vista economico ed ha costituito da sempre uno snodo importantissimo, mettendo in comunicazione Osaka e Kyoto con la capitale, grazie ad una posizione geografica invidiabile che nel tempo è andata corroborandosi grazie al potenziamento ed al progresso costante del porto ed all’installazione di ben due aeroporti.

Il processo storico che ha portato Aichi a diventare la prefettura che è oggi risale almeno al tempo dell’epoca feudale nipponica, periodo in cui esistevano Mikawa ed Owari, province opulente che attirarono con le loro ricchezze e le grandi possibilità di espansione tre daimyō (equivalente di signore feudale) molto famosi.

Ieyasu Tokugawa si stabilì nella prima provincia, mentre Hideyoshi Toyotomi e Nobunaga Oda, quest’ultimo fondatore di Nagoya, nella seconda. Il 24 marzo 1603 Ieyasu Tokugawa divenne shōgun (comandante) ed in seguito pensò di affidare gran parte della provincia di Owari a suo figlio Hidetada, che a sua volta ne stabilì la capitale a Nagoya e che assunse più avanti lo shogunato, facendo prosperare il nuovo centro della provincia grazie alla posizione strategica sulla strada Tōkaidō.

Mikawa venne invece suddivisa tra daimyō che avevano servito fedelmente i Tokugawa, prima del loro accesso al potere. Aboliti gli Han nel 1871, ossia i feudi dei clan che contraddistinsero la storia giapponese per tutto il periodo Edo (ed in parte della Restaurazione Meiji), vennero create le singole prefetture: Owari una volta riunita ad Inuyama diventerà la prefettura di Nagoya, mentre Mikawa, dapprima divisa in dieci prefetture, verrà riunita nella prefettura di Nukara.

Nagoya e Nukata verranno fuse a loro volta nella prefettura di Aichi nel 1872, un modello di fermezza e laboriosità: in questa terra tutto riconduce alla dedizione ed alla fierezza cavalleresca tipica del samurai.

Da vedere assolutamente sono le spiagge della penisola Atsumi, il Toyota Kaikan Museum e la città samurai di Okazaki. Ad Inuyama bisogna visitare il museo all’aria aperta di Meiji Mura, che include edifici storici giapponesi dell’era Meiji ed era Taisho, il parco delle scimmie, il giardino Urakuen e la sala da tè Joan, oltre ai castelli di Nagoya, Okazaki e Toyohashi. La fortezza di Inuyama, ai cui piedi sorge il tempio Sanko Inari ed il santuario di Haritsuna, il castello più antico del Giappone ad essere sopravvissuto intatto a guerre e calamità naturali, mantenendo la sua struttura originale risalente al 1440 ed ultimata il 1537.

Sfoggia tutto il suo splendore sia in primavera che in autunno, grazie ai colori cangianti degli alberi di ciliegio ed acero, ed è un punto panoramico piacevolissimo per osservare il fluire del fiume Kiso. Splendide le passeggiate sino alla Gola di Korankei, il paesaggio presso i Monti Horaiji e le stazioni termali della vicina Yuya, inoltre non manca l’intrattenimento invernale con la stazione sciistica Chasuyama Kogen, la vivacità caratteristica del Capodanno a Osu Kannon e gli strepitosi fuochi d’artificio presso la Baia di Mikawa.

Famoso, infine, il vasellame della città di Seto, le ceramiche prodotte a Tokoname ed i pennelli di Toyohashi, esempi dell’artigianato di questa prefettura inoltre, dalle più semplici ali di pollo fritte alla salsa di miso hatcho, non mancano le specialità gastronomiche le quali includono anche il miso nikomi udon, tipicissimo di Nagoya, e l’hitsumabushi, a base di anguilla. La prefettura di Aichi ha ospitato nel 2005 vi un’esposizione universale sul tema “La Saggezza della Natura” e lo studio Ghibli ha annunciato di voler aprire un parco tematico nel 2022.

Per poter visitare la sakagura ove si produce l’Houraisen Junmai Ginjo Bi bisogna spingersi nell’area interna, verso le montagne, ed arrivare sino alla piccola cittadina di Shitara dove è ubicata la sede storica della cantina Sekiya, fondata nel lontano 1864. Creata dalla famiglia di Takeshi Sekiya, divenuto presidente nel 2010 a seguito della laurea in agronomia conseguita presso l’Università di Tokyo, la sakagura si pose da subito l’obiettivo di portare ristoro ai viandanti che facevano sosta nell’antico borgo ed ai commercianti che all’epoca trasportavano il sale dalla costa all’entroterra.

La mission odierna, nata dalla visione del giovane Takeshi, è quella di diventare il fulcro di una ripresa economica locale attraverso l’agricoltura, sofferente negli ultimi decenni a causa di un ricambio generazionale che manca e che è ripartito attraverso la partnership tra cantina e coltivatori, oltre che l’instaurazione di un nuovo spirito di comunità.

Giallo paglierino molto tenue e di medio corpo, così si presenta l’Houraisen Junmai Dai Ginjo Bi, dai profumi di gelsomino e rosa, mela golden e cantalupo, riso al vapore, guanábana ed una quasi impercettibile nota piperita. Grande equilibrio tra note morbide, la freschezza e sapidità. Persistenza aromatica intensa, breve ma senza essere evanescente, e garbata con un finale leggermente umami.

Un sakè sicuramente fuori dalle logiche del mercato delle sakagura industriali, con un carattere olfattivo tutt’altro che scontato e che non strizza l’occhio al consumatore, anzi richiede la dovuta attenzione per poi concedersi con la sua complessità e piacevolezza senza eccessi. Squisito col cheviche tropical, intrigante con un risotto alle fragole, esalta benissimo il sapore del polpo arrosto allo zenzero.

Il Nihonshu (Sakè Giapponese) incontra l’arte in cucina di Giuseppe Molaro chef del Contaminazioni Restaurant a Somma Vesuviana

di Gaetano Cataldo

Ci sono indubbiamente artigiani della cucina che la fermentazione ce l’hanno nel sangue. Giuseppe Molaro, chef e titolare del Contaminazioni Restaurant di Somma Vesuviana, è uno di loro, tanto più che è tra le espressioni campane dell’avanguardismo culinario e delle fusioni di sapori.

L’impiego della fermentazione lattica in cucina, per quanto anticamente la sua conoscenza fosse già nota e praticata nel Mediterraneo ai fini di accrescere la durabilità dei cibi, ha il dono di imprimere una marcia in più dal punto di vista gustativo e una spiccata raffinatezza alle pietanze, per non parlare della biodisponibilità, componente indispensabile a rendere gli alimenti più assimilabili dal nostro organismo.

Nel panorama della ristorazione gourmet tra gli interpreti più giovani e di maggiore rilevanza vi è proprio Giuseppe Molaro: classe 1986, originario di Somma Vesuviana, un piccolo borgo della provincia di Napoli alle pendici del Vesuvio. Terra rigogliosa e dai sapori intensi, quasi vulcanici, nella quale è tornato dopo oltre un decennio di vita professionale spesa in giro per mezzo mondo… vita in cui non sono mancati i sacrifici e neanche il successo.

Il sorriso genuino e sincero, la sua modestia e la delicatezza nei modi celano in realtà una personalità della gastronomia del tutto singolare e dalle spalle decisamente larghe in quanto a profondità di studio, di pratica e di esperienza: diplomatosi presso l’Istituto Alberghiero “Lorenzo De’ Medici” di Ottaviano, dopo aver mosso i primi passi nell’attività familiare in Campania ed in diverse aree in Italia, ha viaggiato e lavorato in strutture di altissimo livello tra Irlanda, Portogallo, negli Emirati Arabi ed, in maniera particolarmente significativa, in Giappone. Ha collaborato col maestro Heinz Beck, partendo naturalmente proprio dal ristorante La Pergola a Roma, tre Stelle Michelin, nel settembre del 2010 e, via via, in tutti gli altri stellati del gruppo. Dopo innumerevoli riconoscimenti sarà proprio all’Heinz Beck Restaurant di Ōtemachi, nel distretto di Chiyoda a Tokyo, che Giuseppe maturerà l’ambitissima stella nel ruolo di Executive Chef.

Una vita in viaggio attraverso culture gastronomiche diverse, ritmi di lavoro impegnativi in ambienti ad altissima competitività che diventano, se possibile, ancora più estenuanti quando si vive lontano da casa. Ma i tratti della personalità di Giuseppe sono fatti anche di resilienza, audacia e sensibilità, quei tratti tipici del giocatore leale che coniuga il sorriso allo sforzo della partita e che alla fine vince col garbo e la gentilezza.

Non di meno la sua cucina è audace per sperimentazione, razionale nel paring di accostamenti desueti, delicata nella fusione dei sapori ed elegante nel food deisgn.

Rientrato in Italia con sua moglie Yuki Mitsuishi crea Contaminazioni Restaurant nella città che lo ha visto crescere, location di appena 20 coperti con una cucina a vista ubicata proprio all’ingresso, che costituisce l’anima del locale. Un’anima da cui traspare ogni singolo movimento e passaggio atto a creare estetica e sostanza, proprio dinanzi agli occhi degli ospiti che si riservano di ammirare Giuseppe in pieno svolgimento del servizio, da una postazione davvero speciale: lo chef’s table.

L’intuito, la creatività, la sperimentazione ponderata, il forte legame di Giuseppe con la sua terra di origine e il Giappone, Paese di adozione, sono stati i presupposti perché si instaurasse un piacevole dialogo sul nihonshu con una ricetta inedita abbinata specificamente allo Houraisen Junmai Ginjo Wa della Sekiya Brewery nella prefettura di Aichi, una delle aree che, durante i suoi viaggi più gli è rimasta impressa.

Con le variazioni cromatiche del colore arancio della salsa di carote in odore di timo, olio alla cipolla ed aceto di ciliegie, unitamente al rubino intenso della salsa di mirtilli latto-fermentati, si presenta la sua indivia cotta sottovuoto con sale e maggiorana, poi saltata ed arricchita con crumble di pane raffermo, arricchito da brodo di pesce e poi tostato in soffritto di cipolle, acciughe sott’olio, timo, con foglie di mizuna a guarnire il tutto. Elementi che da soli sarebbero potenti, in questo piatto si fondono in un delicato abbraccio gustativo e trovano nell’Houraisen Junmai Ginjo.

Ricercato e armonico, grazie alle suadenti note fruttate di pesca e banana, il floreale del gelsomino e la sensazione cerealicola di riso stagionato, che al sorso rivelano freschezza e rotondità con un pizzico di umami ed una persistenza che non prevarica affatto quella del piatto proposto.

Il Nihonshu (Sake giapponese) nel corso del tempo

di Gaetano Cataldo

Il sorso meditato, associato alla consuetudine del bere responsabilmente, diventa una sorta di esercizio intellettuale, arricchimento culturale e allenamento mnemonico. La memoria olfattiva non è l’unica ad essere sollecitata: vecchie annate rievocano aneddoti ed accadimenti storici precisi, facendo rivivere fatti e persone di altre epoche.

Se ne restano lì, Impigliati nel fluire del tempo e rievocati da una sorsata di vino appena prelevato da un grosso qvevri, la nascita dell’alfabeto cuneiforme sumerico e le gesta mitologiche del re Gilgameš di Uruk, la fiera ebrezza degli Argonauti alla vigilia della ricerca del Vello d’Oro nell’antica Colchide, la remora delle antiche e fiere navi fenicie giunte fino a Cartagine, in Croazia ed in altri angoli del Mar Mediterraneo; parimenti, un boccale di birra dissetante tra amici non di rado aiuta a riscoprire le origini di questa bevanda oltre la spuma: la pratica di svezzare i neonati con lo zythum nell’Antico Egitto, i rituali religiosi officiati con la scura e concentratissima curmy, riservata al faraone ed il culto del gruit, miscela d’erbe antesignana del luppolo, custodito dalle popolazioni etrusche in un’epoca in cui la Campania non era stata ancora colonizzata dai Romani e quindi non monopolizzata nelle abitudini di beva col nettare dionisiaco.

Il sake giapponese, leggasi nihonshu per piacere, rientra di diritto tra i massimi sistemi del bere fermentato, unitamente al vino e alla birra, pertanto non sfugge assolutamente alle considerazioni di cui sopra, essendo il suo un fascino ammantato da storia e leggende millenarie.

Come accennato in un precedente articolo, pare tutto abbia avuto inizio in Cina

Con buone probabilità il casuale processo di fermentazione del riso sembra sia avvenuto attorno al V millennio a.C. nei pressi del Fiume Azzurro, mentre altre fonti sosterrebbero invece lo sia stato in prossimità del Fiume Giallo durante il periodo della dinastia Shang, tra il XVII ed il XI secolo a.C.

È bene osservare che ci sono degli antenati cinesi che si avvicinano molto al sake giapponese: lo shokoshu e lo shaohing-jiu, entrambi provenienti dalla regione dello Shaoxing nell’Est della Cina, nelle cui produzioni vengono impiegati cereali, come riso e addirittura grano, durante il processo fermentativo, per non parlare di un altro parente prossimo al sake: l’huang-jiu, ossia il vino giallo, tutt’oggi elemento di estremo rilievo nella gastronomia cinese. Nelle terre del Dragone Rosso va rilevato che, tre secoli prima della nascita di Gesù Cristo, viene fatta menzione per la prima volta di una particolare muffa nello Zhouli, libro dei riti della dinastia Zhou, che in seguito verrà classificata come aspergillus oryzae, elemento tutt’oggi di estrema importanza per l’alimentazione in Estremo Oriente.

Ma cosa accadeva nell’arcipelago giapponese e come si è arrivati al sake?

Alcuni reperti archeologici consistenti in anfore, vasellame e coppe, sono stati rinvenuti sull’isola di Kyushu nel sud del Giappone qualche anno fa e gli esami al radiocarbonio vorrebbero risalissero al periodo Jomon, tra il 10.000 ed il 300 a.C., epoca in cui alcune tracce confermano la consuetudine a bere alcolici, ottenuti dalla fermentazione di uva selvatica e di altri frutti spontanei da parte degli abitanti. È alla fine di questo periodo, più o meno tra il 600 ed il 500 a.C., che assisteremo all’introduzione del riso nell’arcipelago nipponico da parte dei cinesi. Durante il periodo Yayoi, databile tra il 300 a.C. ed il 300 d.C., assistiamo allo sviluppo ed al consolidamento delle tecniche di coltura del riso per mezzo dell’allagamento delle risaie e dei terreni predisposti alla semina di questo prezioso cereale. È bene rilevare che le testimonianze scritte più accreditate confermano il consumo di sake in Giappone risalga proprio a quest’epoca: nelle “Cronache dei Tre Regni” o “Gishi Wajin Den”, più precisamente nel Libro di Wei, testo cinese importantissimo, viene descritto come interpretare e decifrare gli ideogrammi giapponesi rispetto ai costumi del tempo, tra cui la consuetudine di bere alcol appunto sia durante le danze popolari che nei periodi di lutto. Insomma una vera e propria guida che includeva anche nozioni geografiche e nomenclatura topografica dell’epoca.

Grazie all’impulso cinese la società giapponese cominciò a cambiare radicalmente ed assumere, a poco a poco, una connotazione culturale tutta sua… al periodo Yayoi, come recitato nel testo che lo menziona per la prima volta, ossia l’Ohsumikoku Fudoki, appartiene il kuchi-kami no sake, il sake ancestrale preparato dalle sacerdotesse shintoiste attraverso la masticazione del riso caldo, poi riposto in recipienti di terracotta assieme ad altro riso ed acqua perché amilasi e fermentazione potessero aver luogo.

Il rituale della preparazione del sake da masticazione da parte delle giovani vergini fa sì che nel periodo Kofun ed Asuka, tra il III ed il VII secolo d.C., la bevanda sia consacrata agli dei per ingraziarsi buona sorte e raccolti fruttuosi e purtroppo, dopo essere divenuto una bevanda molto popolare, proibita: il consumo infatti divenne appannaggio esclusivo dell’imperatore e della sua corte. Nel 689 d.C. fu istituita la prima casa di produzione di sake al palazzo imperiale di Nara e costituirono un organismo che ne vigilasse il processo, inoltre si beveva il doburoku, un sake “fangoso”, ergo non filtrato. Col periodo Nara , datato tra il 710 ed il 794, la sacralità del sake  venne consolidata ulteriormente da un editto imperiale che ne codificò il culto durante specifiche funzioni religiose, proprie dello Shintoismo; dal Fudoki , testo di cronache di costumi e terre, opera letteraria voluta dalla stessa Genmei, un’importantissima rivoluzione nel processo di produzione del nettare di riso, si apprende circa l’introduzione del kamutachi: il termine antico è nient’altro che il sinonimo del meglio noto koji-kin, la spora fungina che cresce lungo gli steli del riso cui si è fatto cenno precedentemente ed il cui nome scientifico, lo ricordiamo, è aspergillus oryzae.

Di importante rilevanza storico-culturale è stata la prima consacrazione dell’intero Giappone del 754 avvenuta proprio in una delle sale del Grande Tempio Orientale tutt’oggi presidiata dalle imponenti statue dei quattro guardiani del Kaidan-In.

Dal 794 al 1185, detto periodo Heian, il Giappone vede il fiorire dell’arte della scrittura a corte e numerose sono le descrizioni in forma letteraria ed artistica circa il servizio di mescita del sake; nel 927 viene ultimata, per volere dell’imperatore Daigo, la stesura dell’Engishiki, libro di leggi e costumi del tempo contenente una vera e propria trattazione sul processo di fermentazione, la descrizione di una dozzina di sake conosciuti e viene menzionata per la prima volta la consuetudine di bere il sake caldo con le tecniche di riscaldamento. Alla fine del periodo Heian, nome dell’antica Kyōto, la domanda di sake aumentò così vertiginosamente da superare persino il prezzo del riso e, di conseguenza, i santuari shintoisti produttori di sake si moltiplicarono rapidamente in tutto il paese.

L’era Kamakura – Muromachi, dal 1185 al 1493, sancisce l’inizio della produzione moderna di sake e si praticava l’antica tecnica fermentativa chiamata bodai-moto: essa consisteva nel mescolare riso grezzo cotto al vapore con acqua, koji e lieviti per ottenere un miscuglio ricco di acido lattico… una sorta di batonnage.

Nel 1252 il governo dovette correre ai ripari limitando e regolando la produzione per impedire il consumo di sake degenerasse nella piaga dell’alcolismo. Tra il 1493 ed il 1600, ossia nel periodo Azuchi – Momoyama, venne introdotta la levigatura del riso con metodo Morohaku, descritto nel libro Tamon-in Nikki pubblicato nel 1569, creata la ricetta per la distillazione dello shōchū e, udite udite, fu introdotta la pratica della pastorizzazione…  appena 300 anni prima di Pasteur, aumentando così la shelf-life del fermentato.

Durante il periodo Tokugawa, noto anche come Edo, inizia il declino per lo shogunato ed il governo trova una stabilizzazione definitiva nella città di Tokyo. In questa fase di progresso generale avvengono altri determinanti cambiamenti per la produzione qualitativa di sake: come si tramanda nel Tamonin viene scoperta da Tazaemon Yamamura, fondatore della cantina Sakuramasamune, ancora attiva ed una delle più famose, la sorgente Miyamizu sul Monte Rokko nella prefettura di Hyogo e si comprende di conseguenza la funzione dell’acqua nel sake. Il cambiamento che porta Edo, la moderna Tokyo, a diventare la nuova capitale del Giappone in luogo di Osaka comporterà il trasporto di sake via mare e di conseguenza la costruzione di navi apposite chiamate Taru Kaisen, inoltre viene introdotta la figura del Toji, praticamente l’enologo del sake; nel Kanzukuri viene stabilito che i migliori sake debbano essere prodotti in inverno dove l’assenza o quasi di lieviti ed altri batteri non interferisce, inoltre verrà praticata la pastorizzazione a freddo ed infine, cosa importantissima, si introduce e perfeziona il processo fermentativo in tre fasi chiamato Sandan Jikomi.

Al Periodo Meiji, databile tra il 1868 ed il 1912, si deve la nascita della bottiglia “Issho Bin”, in pratica la bottiglia magnum del sake; nel 1873 il sake viene liberalizzato, consentendone il consumo al popolo, ed il fermentato di riso e koji compare sul Vecchio Continente, debuttando all’Expo Mondiale di Vienna.

Durante il secolo scorso, tanto nel periodo Taisho che nel periodo Showa, sono stati apportati altri miglioramenti ma cosa ancora più importante è avere comprensione che il sake è frutto di ogni singolo tassello che nel corso della sua storia è servito ad ottimizzare un prodotto ed uno stile di bere evolutosi senza sosta nel tempo fino ai nostri giorni.

Cosa possiamo dire del periodo Hensei, cioè dal 1989 fino ai giorni nostri? Con l’Expo di Milano del 2015 l’Italia diventa il primo paese europeo per l’importazione di sake di qualità e nel dicembre dello stesso anno il nihonshu viene insignito dell’indicazione geografica il cui disciplinare ne sancisce la tutela per tutte le 47 prefetture in cui viene prodotto. Ci sarebbe decisamente da dire molto di più in termini storici sul nihonshu, ma questo escursus compresso ci dovrebbe aiutare a comprendere sufficientemente quanto il fermentato giapponese sia stato testimone dell’evoluzione della civiltà che l’ho ha procreato, diventando elemento inscindibile nella vita sociale di questo grande Paese. Bere il vino di riso e koji è un’opportunità per fare un viaggio a ritroso in epoche remote, per confrontarsi con altre culture, con un tocco healthy e di grande appeal allo stesso tempo.

Il Nihonshu: il Sakè giapponese rapportato alla Dieta Mediterranea

di Gaetano Cataldo

Le tre principali religioni monoteiste del bere fermentato sono inequivocabilmente il vino, la birra e il sake giapponese, a dimostrazione del fatto che il dio Bacco non è mai stato né monotono né monofago, approdando persino nelle terre del Sol Levante per insegnare all’uomo cosa estrarre dal riso (e con cosa) e per brindare al miracolo dell’esistenza.

Esattamente come per sorella birra e fratello vino anche il sake giapponese ha una storia millenaria, da bevanda sia popolare che elitaria: il suo racconto è intriso di cultura, arte, storia e letteratura e riesce ad abbracciare tutte le umane attività, nondimeno religione, bellezza e salute. Insomma il sake non è certo una moda, ma fa decisamente tendenza, se così si può dire, ed accompagna l’uomo nel lungo corso del fluire del tempo, testimoniandone l’evoluzione e contribuendo alla nascita della Civiltà Nipponica.

Il fermentato più famoso del Giappone è diffuso in tutto il mondo. Si pensi che ebbe il suo esordio ufficiale dinanzi al grande pubblico occidentale proprio durante la prima Weltausstellung (Esposizione Universale) del 1873, nell’allora capitale dell’impero austro-ungarico; non soltanto famoso, ma anche prodotto in tutto il mondo, anzi imitato in tutto il mondo! Il sake è entrato di fatto nella quotidianità, ricoprendo un ruolo tanto alimentare quanto edonistico, sulle tavole dei Paesi Orientali e diventando un ottimo pairing per pietanze raffinate d’ogni sorta, persino come ingrediente principale in moltissimi cocktails, come il saketini, capostipite della miscelazione a base del fermentato di riso, inventato nel Queens dallo chef Matsuda nel 1964.

Ma facciamo subito chiarezza: ciò di cui si vorrebbe disquisire nel corso di questo pezzo in realtà si chiama Nihonshu!

Infatti con il termine sake viene indicatomolto genericamente l’alcool, mentre con la parola nihonshu, scritta allo stesso modo e probabilmente inventato dai samurai per diversificare la loro bevanda nazionale dalle altre importate nell’arcipelago, tendiamo a definire un prodotto che deriva dalla fermentazione del riso con aggiunta di acqua e koji, una sorta di spora fungina o muffa. Inoltre, perché lo si possa denominare nihonshu, occorre venga sottoposto a filtraggio, fatti salvi diversi stili di lavorazione e, al di sopra di ogni cosa, deve essere prodotto e imbottigliato integralmente ed esclusivamente in Giappone.

Un po’ di storia…

Con buona probabilità, il casuale processo di fermentazione del riso ha avuto origine in Cina attorno al V millennio a.C. nei pressi del Fiume Azzurro, per quanto altre fonti sostengano  sia avvenuto in prossimità del Fiume Giallo, durante il periodo della dinastia Shang, tra il XVII ed il XI secolo a.C. Nella grande Cina, tre secoli prima della nascita di Gesù Cristo, viene fatta menzione di una particolare muffa per la prima volta nello Zhouli, libro dei riti della dinastia Zhou, che in seguito verrà classificata come Aspergillus Oryzae, ossia quel fungo filamentoso cui si accennava prima e di estrema importanza per l’alimentazione in tutto l’Estremo Oriente.

Ciò non significa che il sake abbia realmente avuto origine in Cina, per quanto la bevanda più prossima ad esso sia il cosiddetto huang-jiu. Solo grazie al know-how cinese sulla coltivazione del riso il Popolo Giapponese ha imparato a sostenersi sulle proprie gambe, diventando una civiltà autonoma, e inventando il fermentato tra il 300 a.C. e il 300 d.C. nella versione ancestrale del kuchikami no zake, fino ad arrivare ai nostri giorni, ai processi innovativi ed alle attuali espressioni di questa iconica bevanda.

Ovviamente è facile immaginare certi abbinamenti col nihonshu: sushi, ostriche e sashimi ne sono un esempio piuttosto lampante e diffuso. E se invece vi suggerissero di sorseggiarlo con la nostra amatissima Dieta Mediterranea?

Statene certi perché lo dico dal 2017: il nihonshu, ed il modello nutrizionale mediterraneo per il quale l’Italia è indiscussa capitale, vanno a nozze!

Intanto cominciamo col rilevare che l’Italia, per gran parte, e il Giappone sono circondati dal mare, hanno uno sviluppo territoriale che si estende in lunghezza e non in ampiezza, oltre ad essere Paesi vulcanici e sismici imbrigliati nella stessa fascia di latitudine.

Va rammentato che tra i Paesi le cui osservazioni hanno dato vita allo studio epidemiologico condotto dal celebre Ancel Keys a partire dal 1957, colui che coniò il termine “Dieta Mediterranea” e ne enunciò i dettami, v’era anche il Giappone. Infatti il Seven Countries Study, ideato, coordinato e condotto per molti anni dal prof. Keys, è stato uno studio epidemiologico di monitoraggio eseguito su oltre 12 mila persone di età compresa tra 40 e 59 anni, appartenenti a 16 aree situate in sette Paesi dislocati in tre continenti. Le analisi ottenute dalle osservazioni fanno riferimento alle relazioni intercorrenti tra abitudini alimentari e malattie del sistema cardiocircolatorio: in via generale, l’incidenza e la mortalità coronarica risultavano decisamente più elevate nelle aree del Nord Europa e del Nord America e più basse nelle coorti del Sud Europa e del Giappone.

Ebbene le assonanze tra la Dieta Mediterranea e la Cucina Giapponese sono evidenti almeno dagli anni ’70 del secolo scorso e sottolineano quanto un consumo di alimenti variegati, privilegiando materie prime di origine vegetale, incluso un sano stile di vita, siano tratti comuni dei centenari del Cilento e del Giappone, seppur con ingredienti differenti ma dallo stesso valore nutraceutico e, talvolta, dal simil profilo organolettico.

Piaccia osservare che, per quanto con sfumature e costumanze diverse, il Popolo Giapponese e quello Italiano amano dare il benvenuto a tavola, proprio perché come nella Dieta l’ospitalità, la condivisione del buon cibo e del buon bere sono elementi inscindibili di un grande, genuino senso di convivialità.

Per quanto si possa giustamente ritenere che natto, salsa di soia, miso e tofu siano elementi “alieni” alla nostra idea locale di gastronomia, è bene ribadire che i Paesi del Mare Nostrum non sono assolutamente estranei ai cibi fermentati: ne sono esempio il kefir, la colatura di alici e le olive in salamoia. Inoltre non è recentissima la diffusione di modelli di ristorazione che fondano la loro filosofia su piacevoli contaminazioni e tecniche come la latto-fermentazione Katsuobushi? Rispondo: bottarga, acciughe sotto sale e la stessa colatura di alici appunto! Tofu? mozzarella o parmigiano reggiano, a seconda del grado di stagionatura della cagliata di soia. Alga Wakame? Puntarelle ed agretti con i condimenti a noi più cari, pomodori secchi e chi più ne ha più ne metta!

La chiave di volta dell’abbinamento è nel fattore umami e nella considerazione che, grazie ad un quinto in meno dell’acidità contenuta mediamente in un vino, il nihonshu non litiga mai col cibo. Insomma crudità sia di mare che di terra, risotti, formaggi, funghi e tartufi, verdure grigliate, salumi, frittate e carni pregiate si offrono piacevolmente al pairing con il nihonshu.

Dunque buon nihonshu a tutti e… kampai!