Vero Omakase Rooftop: tra sashimi, nigiri, gunkan, wasabi… e cultura del Sol Levante

Il sushi master Gilberto Silva crea un viaggio nei sapori e nelle tradizioni più autentiche del Giappone. 

Quante volte avete pronunciato le parole “mi fido di te”? Il contesto davvero particolare del Vero Omakase Rooftop, all’interno del Ro World di Nola (NA), rischia di rappresentare un nuovo modo di affidarsi totalmente nelle mani di qualcuno.

La cosa più bella è la mancanza di un reale vincolo di parentela se non “temporaneo”: giusto il tempo, infatti, di sedersi al banco dello chef, in attesa di essere stupiti dalle tante preparazioni ideate ogni sera da Gilberto Silva.

Il concept stesso di sushi (nel termine ampio di piatti tipici a base di pesce crudo, alghe, uova, riso e condimenti) viene ridisegnato sulla base delle usanze orientali, nel rispetto delle rigide normative alimentari europee. Una differenza anzitutto nel metodo di lavorazione e conservazione, che in Italia prevede l’obbligo del passaggio in abbattitore per evitare pericolose contaminazioni parassitarie.

Nel Paese del Sol Levante, invece, si pratica l’immediata sfilettatura del pescato, preceduta dall’eviscerazione ed eventuale marinatura con limone. La temperatura di servizio delle pietanze è però identica per entrambe le realtà, compresa tra 3 e 9°C atta a garantire la massima qualità del prodotto.

Parte da qui il viaggio tra i sapori e i ricordi di Gilberto Silva, originario del Brasile e divenuto amante di tutto ciò che riguardi l’Oriente. Un’esperienza riversata ai clienti finali, sulla relazione diretta tra chef ed ospite, che siede in prima fila per ascoltare, osservare e gustare. Nella formula Omakase (traduzione “mi fido di te”), le preparazioni vengono eseguite e raccontate davanti all’avventore, con un massimo di sei persone per volta di fronte allo chef.

Al Vero Omakase Rooftop è comunque possibile optare per i tavoli in sala ed ordinare à la carte :sono disponibili 20 coperti interni e 40 in terrazza. Il maître Roberto Tanzi ed il sommelier Giuseppe Bonomo riescono ad intercettare le varie esigenze gastronomiche esaltando al meglio l’experience.

I protagonisti, le selezioni del pescato proveniente da tutto il mondo, vengono presentate all’interno di una scatola di legno quasi un dono ed un segno di rispetto per i presenti. Da lì sono giunte le ricette per noi della stampa, presenti la sera del 10 luglio grazie all’abile organizzazione della giornalista Nadia Taglialatela. Un momento di riflessione su quanta fretta abbiamo spesso in un istante che dovrebbe essere di gioia e d’attesa come il piacere di acculturarsi a tavola.

Scampi freschi, gamberi di Mazara del Vallo, trilogie di tonno, capesante del Canada, ricciole e ricci di mare giganti del Giappone. E poi ancora dentici, orate, polpo di Spagna e persino il Wagyū la carne più pregiata di sempre, proprio per non farsi mancare nulla.

Il lungo percorso ha inizio prima dal “cotto”, con un bao di kebab di tonno, spezie orientali, cipolla al lampone e crema acida, saporito al punto giusto. Si vira rapidi sulle specialità del pesce crudo, con carpaccio di rombo in salsa ponzu (soia e agrumi), erba cipollina e uova di trota salmonata con polvere di peperoncino togarashi molto delicata.

Una pausa fatta dal Tamagoyaki, la frittata in padella quadrata con soia e brodo dashi composto da alga kombu e katsuobushi per poi assaggiare i vari Sashimi: di tonno, ricciola di Hokkaidō, polpo verace e salmone delle isole Faroe con foglia di wasabi.

Proseguiamo con una tartare di scampo affumicato, con olio yuzu, zenzero fresco, uova di pesce volante e foglio d’oro a 24 carati da lasciare i commensali senza parole. I ravioli di gambero rosso di Mazara del Vallo anticipano il Kobe in salsa demi-glace cotto a bassa temperatura per 72 ore.

E adesso il momento clou con i Nigiri proposti da branzino giapponese, capasanta del Canada, gambero e sgombro, per concludere con un Gunkan di riccio di mare gigante ed una tagliata di Wagyu affumicata. Abbinamento cocktail-list personalizzato, coordinata dal giovane bartender Antonio Onorato, dove spicca un gustoso Bloody Mary al caramello salato.

Giuseppe Tufano, ideatore e proprietario di Ro World e del Vero Omakase Rooftop, esprime così la sua soddisfazione per il premio ricevuto dal Gambero Rosso con le “Tre bacchette” nella Guida Sushi 2025

<<È un premio che ci lusinga tantissimo. Il fatto di essere in Campania per me non ha mai significato proporre soltanto tradizione regionale. Qui da noi arrivano persone delle più diverse tipologie e provenienze:  italiani, stranieri, manager, appassionati, visitatori di passaggio. Sentivo il bisogno di far sentire accolto ciascuno di loro.  Poi c’è stato l’incontro con un maestro sushi del calibro di Gilberto Silva e  l’opportunità di porci in maniera ancor più internazionale e dinamica:  anche il mondo gastronomico giapponese, quello autentico, qui ha trovato lo spazio che merita.  Con eleganza e cura dei particolari, com’è nel nostro stile>>.

Vero Omakase Rooftop

(all’interno di Ro World)

Km 50, SS7bis, 80035 Nola NA

aperto a cena, dal lunedì alla domenica – È richiesta la prenotazione

+ 39 349 888 6066

www.roworldexperience.com/vero/

Il Nihonshu (Sake giapponese) nel corso del tempo

di Gaetano Cataldo

Il sorso meditato, associato alla consuetudine del bere responsabilmente, diventa una sorta di esercizio intellettuale, arricchimento culturale e allenamento mnemonico. La memoria olfattiva non è l’unica ad essere sollecitata: vecchie annate rievocano aneddoti ed accadimenti storici precisi, facendo rivivere fatti e persone di altre epoche.

Se ne restano lì, Impigliati nel fluire del tempo e rievocati da una sorsata di vino appena prelevato da un grosso qvevri, la nascita dell’alfabeto cuneiforme sumerico e le gesta mitologiche del re Gilgameš di Uruk, la fiera ebrezza degli Argonauti alla vigilia della ricerca del Vello d’Oro nell’antica Colchide, la remora delle antiche e fiere navi fenicie giunte fino a Cartagine, in Croazia ed in altri angoli del Mar Mediterraneo; parimenti, un boccale di birra dissetante tra amici non di rado aiuta a riscoprire le origini di questa bevanda oltre la spuma: la pratica di svezzare i neonati con lo zythum nell’Antico Egitto, i rituali religiosi officiati con la scura e concentratissima curmy, riservata al faraone ed il culto del gruit, miscela d’erbe antesignana del luppolo, custodito dalle popolazioni etrusche in un’epoca in cui la Campania non era stata ancora colonizzata dai Romani e quindi non monopolizzata nelle abitudini di beva col nettare dionisiaco.

Il sake giapponese, leggasi nihonshu per piacere, rientra di diritto tra i massimi sistemi del bere fermentato, unitamente al vino e alla birra, pertanto non sfugge assolutamente alle considerazioni di cui sopra, essendo il suo un fascino ammantato da storia e leggende millenarie.

Come accennato in un precedente articolo, pare tutto abbia avuto inizio in Cina

Con buone probabilità il casuale processo di fermentazione del riso sembra sia avvenuto attorno al V millennio a.C. nei pressi del Fiume Azzurro, mentre altre fonti sosterrebbero invece lo sia stato in prossimità del Fiume Giallo durante il periodo della dinastia Shang, tra il XVII ed il XI secolo a.C.

È bene osservare che ci sono degli antenati cinesi che si avvicinano molto al sake giapponese: lo shokoshu e lo shaohing-jiu, entrambi provenienti dalla regione dello Shaoxing nell’Est della Cina, nelle cui produzioni vengono impiegati cereali, come riso e addirittura grano, durante il processo fermentativo, per non parlare di un altro parente prossimo al sake: l’huang-jiu, ossia il vino giallo, tutt’oggi elemento di estremo rilievo nella gastronomia cinese. Nelle terre del Dragone Rosso va rilevato che, tre secoli prima della nascita di Gesù Cristo, viene fatta menzione per la prima volta di una particolare muffa nello Zhouli, libro dei riti della dinastia Zhou, che in seguito verrà classificata come aspergillus oryzae, elemento tutt’oggi di estrema importanza per l’alimentazione in Estremo Oriente.

Ma cosa accadeva nell’arcipelago giapponese e come si è arrivati al sake?

Alcuni reperti archeologici consistenti in anfore, vasellame e coppe, sono stati rinvenuti sull’isola di Kyushu nel sud del Giappone qualche anno fa e gli esami al radiocarbonio vorrebbero risalissero al periodo Jomon, tra il 10.000 ed il 300 a.C., epoca in cui alcune tracce confermano la consuetudine a bere alcolici, ottenuti dalla fermentazione di uva selvatica e di altri frutti spontanei da parte degli abitanti. È alla fine di questo periodo, più o meno tra il 600 ed il 500 a.C., che assisteremo all’introduzione del riso nell’arcipelago nipponico da parte dei cinesi. Durante il periodo Yayoi, databile tra il 300 a.C. ed il 300 d.C., assistiamo allo sviluppo ed al consolidamento delle tecniche di coltura del riso per mezzo dell’allagamento delle risaie e dei terreni predisposti alla semina di questo prezioso cereale. È bene rilevare che le testimonianze scritte più accreditate confermano il consumo di sake in Giappone risalga proprio a quest’epoca: nelle “Cronache dei Tre Regni” o “Gishi Wajin Den”, più precisamente nel Libro di Wei, testo cinese importantissimo, viene descritto come interpretare e decifrare gli ideogrammi giapponesi rispetto ai costumi del tempo, tra cui la consuetudine di bere alcol appunto sia durante le danze popolari che nei periodi di lutto. Insomma una vera e propria guida che includeva anche nozioni geografiche e nomenclatura topografica dell’epoca.

Grazie all’impulso cinese la società giapponese cominciò a cambiare radicalmente ed assumere, a poco a poco, una connotazione culturale tutta sua… al periodo Yayoi, come recitato nel testo che lo menziona per la prima volta, ossia l’Ohsumikoku Fudoki, appartiene il kuchi-kami no sake, il sake ancestrale preparato dalle sacerdotesse shintoiste attraverso la masticazione del riso caldo, poi riposto in recipienti di terracotta assieme ad altro riso ed acqua perché amilasi e fermentazione potessero aver luogo.

Il rituale della preparazione del sake da masticazione da parte delle giovani vergini fa sì che nel periodo Kofun ed Asuka, tra il III ed il VII secolo d.C., la bevanda sia consacrata agli dei per ingraziarsi buona sorte e raccolti fruttuosi e purtroppo, dopo essere divenuto una bevanda molto popolare, proibita: il consumo infatti divenne appannaggio esclusivo dell’imperatore e della sua corte. Nel 689 d.C. fu istituita la prima casa di produzione di sake al palazzo imperiale di Nara e costituirono un organismo che ne vigilasse il processo, inoltre si beveva il doburoku, un sake “fangoso”, ergo non filtrato. Col periodo Nara , datato tra il 710 ed il 794, la sacralità del sake  venne consolidata ulteriormente da un editto imperiale che ne codificò il culto durante specifiche funzioni religiose, proprie dello Shintoismo; dal Fudoki , testo di cronache di costumi e terre, opera letteraria voluta dalla stessa Genmei, un’importantissima rivoluzione nel processo di produzione del nettare di riso, si apprende circa l’introduzione del kamutachi: il termine antico è nient’altro che il sinonimo del meglio noto koji-kin, la spora fungina che cresce lungo gli steli del riso cui si è fatto cenno precedentemente ed il cui nome scientifico, lo ricordiamo, è aspergillus oryzae.

Di importante rilevanza storico-culturale è stata la prima consacrazione dell’intero Giappone del 754 avvenuta proprio in una delle sale del Grande Tempio Orientale tutt’oggi presidiata dalle imponenti statue dei quattro guardiani del Kaidan-In.

Dal 794 al 1185, detto periodo Heian, il Giappone vede il fiorire dell’arte della scrittura a corte e numerose sono le descrizioni in forma letteraria ed artistica circa il servizio di mescita del sake; nel 927 viene ultimata, per volere dell’imperatore Daigo, la stesura dell’Engishiki, libro di leggi e costumi del tempo contenente una vera e propria trattazione sul processo di fermentazione, la descrizione di una dozzina di sake conosciuti e viene menzionata per la prima volta la consuetudine di bere il sake caldo con le tecniche di riscaldamento. Alla fine del periodo Heian, nome dell’antica Kyōto, la domanda di sake aumentò così vertiginosamente da superare persino il prezzo del riso e, di conseguenza, i santuari shintoisti produttori di sake si moltiplicarono rapidamente in tutto il paese.

L’era Kamakura – Muromachi, dal 1185 al 1493, sancisce l’inizio della produzione moderna di sake e si praticava l’antica tecnica fermentativa chiamata bodai-moto: essa consisteva nel mescolare riso grezzo cotto al vapore con acqua, koji e lieviti per ottenere un miscuglio ricco di acido lattico… una sorta di batonnage.

Nel 1252 il governo dovette correre ai ripari limitando e regolando la produzione per impedire il consumo di sake degenerasse nella piaga dell’alcolismo. Tra il 1493 ed il 1600, ossia nel periodo Azuchi – Momoyama, venne introdotta la levigatura del riso con metodo Morohaku, descritto nel libro Tamon-in Nikki pubblicato nel 1569, creata la ricetta per la distillazione dello shōchū e, udite udite, fu introdotta la pratica della pastorizzazione…  appena 300 anni prima di Pasteur, aumentando così la shelf-life del fermentato.

Durante il periodo Tokugawa, noto anche come Edo, inizia il declino per lo shogunato ed il governo trova una stabilizzazione definitiva nella città di Tokyo. In questa fase di progresso generale avvengono altri determinanti cambiamenti per la produzione qualitativa di sake: come si tramanda nel Tamonin viene scoperta da Tazaemon Yamamura, fondatore della cantina Sakuramasamune, ancora attiva ed una delle più famose, la sorgente Miyamizu sul Monte Rokko nella prefettura di Hyogo e si comprende di conseguenza la funzione dell’acqua nel sake. Il cambiamento che porta Edo, la moderna Tokyo, a diventare la nuova capitale del Giappone in luogo di Osaka comporterà il trasporto di sake via mare e di conseguenza la costruzione di navi apposite chiamate Taru Kaisen, inoltre viene introdotta la figura del Toji, praticamente l’enologo del sake; nel Kanzukuri viene stabilito che i migliori sake debbano essere prodotti in inverno dove l’assenza o quasi di lieviti ed altri batteri non interferisce, inoltre verrà praticata la pastorizzazione a freddo ed infine, cosa importantissima, si introduce e perfeziona il processo fermentativo in tre fasi chiamato Sandan Jikomi.

Al Periodo Meiji, databile tra il 1868 ed il 1912, si deve la nascita della bottiglia “Issho Bin”, in pratica la bottiglia magnum del sake; nel 1873 il sake viene liberalizzato, consentendone il consumo al popolo, ed il fermentato di riso e koji compare sul Vecchio Continente, debuttando all’Expo Mondiale di Vienna.

Durante il secolo scorso, tanto nel periodo Taisho che nel periodo Showa, sono stati apportati altri miglioramenti ma cosa ancora più importante è avere comprensione che il sake è frutto di ogni singolo tassello che nel corso della sua storia è servito ad ottimizzare un prodotto ed uno stile di bere evolutosi senza sosta nel tempo fino ai nostri giorni.

Cosa possiamo dire del periodo Hensei, cioè dal 1989 fino ai giorni nostri? Con l’Expo di Milano del 2015 l’Italia diventa il primo paese europeo per l’importazione di sake di qualità e nel dicembre dello stesso anno il nihonshu viene insignito dell’indicazione geografica il cui disciplinare ne sancisce la tutela per tutte le 47 prefetture in cui viene prodotto. Ci sarebbe decisamente da dire molto di più in termini storici sul nihonshu, ma questo escursus compresso ci dovrebbe aiutare a comprendere sufficientemente quanto il fermentato giapponese sia stato testimone dell’evoluzione della civiltà che l’ho ha procreato, diventando elemento inscindibile nella vita sociale di questo grande Paese. Bere il vino di riso e koji è un’opportunità per fare un viaggio a ritroso in epoche remote, per confrontarsi con altre culture, con un tocco healthy e di grande appeal allo stesso tempo.

“A Sud dell’Anima”: l’elogio della cucina delle Murge

di Serena Leo

Proviamo a immaginare una terrazza che guarda dritto verso le Murge, quelle autentiche. Siamo in Puglia, precisamente a Minervino Murge, luogo incantevole per silenzio e profumi pronti, come un gioco d’avventura, a rapire i sensi… senza passare dal via. Se al bello ci aggiungiamo anche il buono della cucina territoriale, raccontare la quintessenza della regione diventa ancor più semplice. Ad arricchire questa storia che parla di cibo, tra diverse consistenze, ci sono Nadia Tamburrano e Ivan d’Introna, mente e cuore del ristorante pugliese A Sud dell’Anima. Una vera e propria destinazione gourmet per gli appassionati della cucina “casereccia” rivisitata in chiave fine dining.

Nadia Tamburrano e Ivan d’Introna

Come arrivare

Minervino Murge è tra i gioielli più belli dell’alta Puglia, diversi dai classici racconti a cui siamo stati abituati. Qui il vero mare non sembra fatto d’acqua, bensì di distese infinite di campi dove si respira ancora l’atmosfera rurale di un tempo. La cittadina vive una nuova primavera e non mancano scorci in cui anche solo un “basso” oppure vicoli e strade che si sviluppano in altezza, diventano location artistiche degne di set cinematografici, come già successo per I Basilischi di Lina Wertmuller.

La splendida terrazza

A Sud dell’Anima ricalca la tradizione locale in ogni dettaglio: dalla sala in pietra che assorbe e rilascia un profumo di casa, per finire con stampe alle pareti dai colori ben definiti. Un’atmosfera delicata – o meglio soffusa – che concede la possibilità agli avventori di concentrarsi su piatti che parlano di radici, che raccontano storie antiche e sigillano passioni. Nadia e Ivan hanno saputo rivoluzionare la cucina tipica proiettandola ai giorni nostri, strizzando l’occhio a quel fine dining non solo da canali social, ma bensì ricco di sostanza e qualità.

Da dove sono partiti?

Come nasce A Sud dell’Anima ce lo dice Nadia, ideatrice del menu ragionato e chef per vocazione. Da autodidatta si è formata osservando tutto ciò che le capitasse attorno: <<ho imparato le basi della cucina guardando mia mamma, una campionessa delle cotture lente e tradizionali. Sin da piccola l’ho affiancata ripetendo ogni suo gesto, dall’assaggio di ogni preparazione in poi. Amavo restare in cucina perché per me era quasi un divertimento perdermi tra i profumi delle orecchiette rigorosamente fatte a mano, delle verdure ed erbette fresche di campagna che, con i miei nonni, amavamo raccogliere.>>

Le Tapas

E le mani in pasta, metaforicamente parlando, Nadia ha iniziato a metterle presto: <<a 8 anni ero libera di preparare dolci, essenzialmente quelli di Natale, con l’aiuto della famiglia. Un momento che coinvolgeva proprio tutti, dai più piccoli ai più grandi. A misurarmi con la cucina ad alta intensità, invece, ho iniziato a 15 anni in un altro ristorante del paese. Una vera palestra.>> Quella di Nadia è una storia che si ripete in tanti ragazzi della zona.

Dalla Sardegna a mete ambite nel settore luxury, i ragazzi hanno avuto modo di misurarsi con diverse realtà del settore food e wine, sviluppando una precisa idea da convogliare in Puglia: creare, grazie alle ricette del territorio, pietanze bilanciate, gustose e addirittura sperimentali. Hanno accettato la sfida della strada più difficile: quella di non essere profeti in patria, però con delle abilità in più. Una su tutte, l’intraprendenza!

Il pane fresco

Il menu degustazione di A Sud dell’Anima è ragionato, esula dal concetto dell’arcaica carrellata di antipasti, nello stile attrattivo-turistico della cucina pugliese. Si tratta, infatti, di un percorso che passa da tutti e cinque i sensi, senza distinzione di sorta, toccando nel profondo dell’anima. Un cambio di passo, secondo Ivan e Nadia, fatto per apprezzare ogni singolo dettaglio a tavola: <<Vogliamo che la gente assaggi i piatti della nostra tradizione, che parlino al 100% del territorio minervinese e murgiano in ogni particolare. Proponiamo dei pairing con profumi selvatici o erbe spontanee poco usate o dimenticate, ma anche un fusion ragionato. Tendiamo ad eliminare il superfluo e, allo stesso tempo, non sacrifichiamo in alcun modo la complessità del piatto che tanto piace ai curiosi della tavola. Rivisitiamo i must della tradizione locale raccontando a tavola aneddoti correlati”.>>

Il cavallo tonnato

Anche a tavola si può imparare tanto. Tra i piatti da non perdere assolutamente ci sono le tapas pugliesi, servite seguendo la stagionalità delle materie prime, variabili dal classico calzone servito a mo’ di mattonella, alla riproduzione della mitica “chianca” per lavare i panni, con lampascione fritto, leggero e croccante. Il tutto da abbinare a una bollicina territoriale magari da uve Bombino Bianco, come Lucy dell’Azienda Agricola Mazzone, una chicca dal corpo immenso, un evergreen di longevità. A seguire il cavallo tonnato cotto a bassa temperatura, verdurine croccanti e finocchietto selvatico delle Murge. Un piatto fresco che ritrae, in chiave innovativa, uno dei tanti volti del territorio. Il carciofo fritto con uovo mimosa, spuma di caciocavallo e finocchietto, è il piatto che può conquistare anche i più scettici a caccia di novità e di fritti leggeri. A Sud dell’Anima si reinventa la cucina casalinga senza snaturarla, anzi “attualizzandola” attraverso buone idee in grado di risvegliare i ricordi d’infanzia.

Tagliatelle all’Aglianico

Come si esprime Minervino al piatto ce lo dicono sempre Nadia e Ivan: <<tenendo la barra dritta sui grandi classici, lavorando sulle cotture, riappropriandoci del tempo lento, senza sacrificare impiattamento ed essenza. Il nostro punto di forza sta nel concetto di fusion ragionato, frutto delle nostre esperienze fuori, unite all’accuratezza che ci mettiamo nello studiare un piatto semplice come può essere lo gnocchetto con le cime di rape e alici.>>

Gnocchetto cime di rapa e alici

Nel menu estivo vige d’obbligo qualche incursione di mare che è a pochi chilometri di distanza. Si inizia dal tortello di riso con pecorino, mascarpone e ricotta – dove ogni ingrediente bilancia l’altro – saltato al burro, vin cotto e tartare di gambero rosa. Occhio alla terrina di agnello con erbette murgiane, verdure a vapore e salsa demi-glace. Un’opera d’arte che richiede impegno per la preparazione e la lentissima cottura. Un secondo interessante che si unisce alla star del locale: la guancia di vitello, regina incontrastata nei cuori degli abituèe.

Terrina di agnello

Vino, birra e distillati

Ad occuparsi della sala e della cantina è Ivan, appassionato di realtà vitivinicole italiane e internazionali. Tra i migliori abbinamenti cibo-vino che dalla Puglia ci fanno viaggiare per il mondo, lui racconta: <<cerco di privilegiare i vini del territorio lavorando sulle eccellenze come il Nero di Troia, espressioni interessanti di Cantina Santa Lucia e Giancarlo Ceci. Mi piace anche giocare con vitigni extraregionali che sanno tenere testa alla cucina di Nadia, fatta di cotture delicate e di fritture saporite. Non manca una nicchia estera con etichette slovene, tedesche, americane e francesi. La carta è costruita in modo tale da dare ai clienti una possibilità di scelta e di scegliere, per ogni portata, un vino differente”.

Molto presto alla carta del locale verrà aggiunta una rara novità: una IGA da Nero di Troia, denominata Elèna. Per Ivan sarà il completamento della carta e anche la prima di una trilogia di birre studiate ad hoc per il ristorante: <<Elèna è interessante sui nostri piatti perché richiama tanto le Murge con i suoi sentori erbacei e speziati, che tendiamo ad utilizzare per profumare con delicatezza i piatti. La birra si sposa bene con un nostro aperitivo e gli antipasti. Un modo diverso di pasteggiare assaporando la nuova essenza della Puglia da mangiare e bere.>>

Sul dolce si può anche degustare con un quasi introvabile Eiswine. E perché no un soft drink da inizio o fine pasto, fino a giungere ai distillati mai banali, in completo relax sulla bellissima terrazza.

Tortello fatto in casa

L’essenza della ristorazione del futuro è scritta nelle sue radici?

Secondo Ivan e Nadia il futuro dell’enogastronomia è scritto proprio qui, nella tradizione. La ristorazione che verrà sarà una sorta di “ritorno al futuro” in grado di suscitare ricordi attraverso la vista, l’olfatto, la consistenza e il gusto. Se il nostro desiderio è quello di tornare un po’ bambini e un po’ innamorati dell’antica cucina, allora A Sud dell’Anima, ristorante gourmet e popular al tempo stesso, sarà la nostra (e vostra) destinazione ideale.

A Sud dell’Anima

Via Chiuso Cancello 3

Minervino Murge

Tel: 0883691175

Mail: asuddellanima@libero.it

Anteprime di Toscana: Vino Nobile di Montepulciano – un viaggio ai confini del gusto

di Alberto Chiarenza

Anteprime di Toscana: Vino Nobile di Montepulciano 

Sono le otto del mattino, autostrada del Sole, l’aria è frizzante e il traffico scorrevole. Sto per immergermi tra le splendide colline senesi. Tutto è fermo, tenui i colori e sinuose le linee del paesaggio. Curva dopo curva la sensazione di benessere mi assale e riempie l’anima delle stesse sensazioni, sin da subito. La mia direzione? Montepulciano. 

Il borgo toscano in provincia di Siena è celebre per il suo Vino Nobile di Montepulciano, uno dei più pregiati della Toscana.

Attraversare l’antica porta in pietra, per poi arrampicarsi sulle viuzze ripide piene di negozi, bar e botteghe, fino ad arrivare alla Piazza Grande: qui il tempo sembra si sia fermato al Rinascimento. Nel centro storico i palazzi con le famose cantine sotterranee pronte ad accogliere sia il turista, che il semplice appassionato di vino, mostrando i propri tesori fatti di antiche botti e di memoria liquida. Luoghi che lasciano a bocca aperta! Vorrei rimanere qui, sembra proprio il posto adatto a me…

Ma non c’è tempo da perdere, alla Fortezza Medicea sta per iniziare l’Anteprima Vino Nobile di Montepulciano 2023.

Un evento ricorrente, dove i produttori presentano le nuove annate delle tipologie previste dal Disciplinare alla stampa, ai compratori e ai professionisti del settore vitivinicolo. La perfetta organizzazione è a cura del Consorzio del Vino Nobile di Montepulciano, pronto a dar voce alle esigenze dell’intero comparto.

Si svolge tipicamente a febbraio, per consentire di degustare le nuove annate prima che vengano immesse sul mercato. Durante l’evento, i partecipanti hanno l’opportunità di assaggiare vini diversi da numerosi produttori, apprendendo le caratteristiche salienti delle diverse annate.

Anteprima Vino Nobile di Montepulciano è anche l’occasione per celebrare la storia e le tradizioni enologiche di queste terra, del Sangiovese, il cui clone viene qui denominato Prugnolo Gentile, noto per dare prodotti eleganti, dal grande equilibrio e capacità di invecchiamento.

L’evento si è svolto dal 18 al 20 febbraio, alla presenza di ben 45 produttori con banchi di degustazione disposti su due piani. Denominatore comune: l’assoluta qualità e l’attenzione verso un’agricoltura più sostenibile. Presenti molti marchi storici, ma anche giovani vigneron pronti a testimoniare come l’innovazione vada sempre di pari passo con la tradizione.

Non sono mancate sorprese, conferme e qualche novità. Vini accomodanti in cui le caratteristiche del Sangiovese complesso e fruttato, con sentori di frutti di bosco, ciliegia, prugna, spezie e talvolta anche note floreali, l’hanno fatta da padrone. Tannini mai invadenti, ben gestiti, con una buona vena di acidità a supporto.

Qualcuno opera in assoluta purezza, qualcun altro utilizzando un saldo (consentito) di uve rosse tra Cannaiolo, Colorino, o ancora vitigni internazionali come Merlot, Syrah, Cabernet Franc o Cabernet Sauvignon. Vitigni che influiscono, a mio giudizio a livelli marginali sull’apporto finale di colori, estratto e aromi.

Le aziende visitate sono state nell’ordine:

Cantina Contucci

Un particolare ringraziamento va ad Andrea Contucci per la disponibilità e la cortesia che mi ha riservato durante la visita e l’assaggio dei suoi meravigliosi vini Rosso di Montepulciano e Vino Nobile di Montepulciano (annata, Riserva, Selezione Pietra Rossa, Mulinvecchio e Palazzo Contucci).

Cantine Dei

Imbarazzo della scelta nelle proposte comprese tra il Rosso di Montepulciano, il Vino Nobile di Montepulciano (annata, Madonna della Querce, Riserva Bossona) e il talvolta dimenticato dalle cronache Vin Santo di Montepulciano.

Il Molinaccio di Montepulciano 

Con i suoi eleganti e gustosi Rosso di Montepulciano “IL GOLO” – Vino Nobile di Montepulciano “LA SPINOSA” – Vino Nobile di Montepulciano Riserva “LA POIANA” – Vino Nobile di Montepulciano Riserva “LA DUEMILADICIASSETTE”

La Braccesca

Presente con il Rosso di Montepulciano “SABAZIO”, il Vino Nobile di Montepulciano ed il Vino Nobile di Montepulciano Riserva “VIGNETO SANTA PIA”

Poliziano

Un grande protagonista con il Rosso di Montepulciano, il Vino Nobile di Montepulciano, i cru Vino Nobile di Montepulciano “ASINONE” e Vino Nobile di Montepulciano “LE CAGGIOLE”.

Il Macchione

Simone mi ha colpito per la passione con cui mi ha parlato dei suoi vini, veramente interessanti. In particolare il Rosso di Montepulciano 2021, il Vino Nobile di Montepulciano (Anteprima 2019, 2018 e 2017) da fermentazione in vasche di cemento poi affinamento per 30 mesi in legno. Infine il Vino Nobile di Montepulciano Riserva “VIDURE” 2016.

La storia del Vino Nobile di Montepulciano è molto antica, risale all’epoca etrusca; furono i Romani a portare la cultura del vino nella regione. Il vino ha iniziato ad acquisire importanza nel Rinascimento, quando era considerato un prodotto di prestigio consumato dalle classi nobili. Nel 1549, infatti, il poeta e letterato Poliziano lo menziona in una sua opera, definendolo, appunto, “vino nobile”.

Nel XIX secolo divenne sempre più apprezzato nelle corti di tutta Europa per la sua alta qualità e serbevolezza. 

Nel 1966 arriva la promozione a DOC (Denominazione di Origine Controllata) e nel 1980 a DOCG (Denominazione di Origine Controllata e Garantita), massimo riconoscimento di qualità in Italia.

Anche il Consorzio del Vino Nobile di Montepulciano ha posto le basi per sottozone specifiche o UGA, ribattezzate “Pievi”, lungo i crinali delle quattro principali aree vocate a Nord, Sud, Est e Ovest. Veri e propri microclimi in cui ogni vignaiolo esprime la sua creatività e sapienza nel fare vini unici e non comparabili.

Immancabile l’abbinamento con il cibo e, perché no, con un bel piatto fumante di pici al ragù di cinghiale?