Irpinia: Sostenibilità, Arte, Passione e Qualità sono di casa alle Cantine Antonio Caggiano

Nel cuore dell’Irpinia, lì dove si compongono intrecci di valli ed alture tra le quali si inerpicano numerosi fiumi e torrenti, la produzione di vino è un’arte che si tramanda da secoli anche alle Cantine Antonio Caggiano

L’accumulo di differenti strati di cenere e lapilli ha dato vita a depositi tufacei, arricchimenti in minerali e presenza di strati del suolo più sciolti, determinando una peculiarità unica per una viticoltura di qualità. Difatti l’Irpinia, oggi, è la provincia campana con la più alta concentrazione di vigneti e può vantare la presenza di ben 3 DOCG: Taurasi, Greco di Tufo e Fiano di Avellino. 

Il territorio di Taurasi, antico borgo Irpino, costituisce il cuore della zona di produzione del Taurasi DOCG. Proprio qui, in questi luoghi pulsanti di colori, odori e profumi, in località Contrada Sala, sorgono le Cantine Antonio Caggiano. Per chi visita l’Irpinia, per chi ama il vino, la storia, l’arte ed il buon cibo, questa tappa è obbligatoria. Questa è terra di un popolo forte e fiero, di tradizioni contadine. E Antonio Caggiano con suo figlio Pino (Giuseppe all’anagrafe) sono uomini degni di questo territorio.

Antonio, geometra di professione, appassionato fotografo e giramondo, fonda la sua azienda dal nulla, con tanta fatica e determinazione facendo sue le parole del padre, saggio contadino: “Se non hai niente, con niente lo devi fare”! Lui ha sempre creduto nella qualità del vino irpino. E quando la maggior parte dei viticoltori della zona erano dediti alla produzione in quantità del vino, lui progettava la realizzazione di vini di qualità. Così dalla vecchia vigna di famiglia – Salae Domini – nel 1990  iniziano i lavori di realizzazione delle sue cantine. Antonio decide di fondare la sua azienda spinto da un incontenibile desiderio di dare voce alla storia e alle tradizioni della sua amatissima Taurasi. L’idea progettuale voleva la realizzazione di una cantina museo, il cui percorso concedesse ai visitatori il racconto del processo enologico in ogni sua fase, con elementi storici e moderni.

Così la cantina viene creata seguendo il profilo del terreno, con una pendenza che consente il travaso dei vini per gravità (la teoria dei vasi comunicanti), con pareti trasudanti garantendo il naturale e corretto grado di umidità e temperatura. Ovunque sono evidenti i materiali recuperati da Antonio grazie al suo precedente lavoro, anche dalle macerie del terremoto dell’80, e riutilizzati tra arte, Interior Design e sostenibilità. Tra le più belle, uniche e originali della Campania, ogni spazio diventa un racconto, ogni angolo, ogni parete, dove è possibile scorgere arnesi e utensili tipici, è testimonianza della pratica di viticoltore: una galleria di opere d’arte di legno, vetro e pietra, alcune realizzate dallo stesso Antonio, altre regalate da amici artisti rende l’atmosfera ancor più suggestiva… tutti materiali di recupero, anticipando di diversi decenni l’attenzione alla sostenibilità e all’applicazione delle 4R.

E’ una interessante passeggiata tra bottiglie a riposo in nicchie ricavate tra le pareti di pietra e barriques dove si affinano i loro grandi vini. Si incontrano elementi sacri come la cappella, un tempio ampio con una grande croce ricavata dai fondi delle bottiglie ed un altare dove ringraziare il Dio Bacco; l’installazione di un presepe accoglie tutto l’anno i visitatori… e poi sedie, tavolini, lampadari, un magnifico orologio, vari elementi di arredo, ricavati dalle assi delle vecchie botti, testimoniano l’arte del recupero di Antonio Caggiano.

Nel ’93 parte la collaborazione con l’enologo il prof. Luigi Moio, rientrato dall’esperienza francese a Digione, con il quale nasce, prima di tutto, una grande amicizia. Tanta voglia di produrre i vini più espressivi del territorio: Il Taurasi, Il Greco di Tufo, il Fiano di Avellino e la Falanghina. Sono entrambi degli entusiasti: vorrebbero che l’Irpinia venisse conosciuta come le Langhe e che l’Aglianico potesse ricevere le attenzioni del Barolo. Un obiettivo molto ambizioso, ma due grandi professionisti come loro possono sognare in grande!

Oggi conduce l’azienda Pino, figlio di Antonio, che attraverso dedizione e rigoroso lavoro in vigna e grazie ad un’appassionata e attenta interpretazione enologica, sotto la guida del padre sempre presente in cantina, ha contribuito all’affermazione di uno stile qualitativo di grande personalità, marchiando l’azienda Antonio Caggiano come grande protagonista dei vini irpini. Padre e figlio, sono le due facce di una stessa medaglia, diversi ma simili, necessari uno all’altro affinché questo luogo mantenga tutto il fascino che lo contraddistingue, due protagonisti sulla stessa tela, importanti allo stesso modo affinché il dipinto esprima il meglio di sé.

L’azienda oggi possiede 34 ettari di terreno vitato e produce circa 180000 bottiglie con equa percentuale tra bianchi e rossi. Il logo delle Cantine raffigura un arco formato da pietre impilate in equilibrio una sopra l’altra a reggere l’intera struttura sovrastante in perfetta armonia; è la celebrazione dell’equilibrio dei vari elementi che caratterizzano e animano un vino.  Le etichette con i nomi dei vini richiamano momenti, curiosità e conoscenze produttive di chi la vita l’ha vissuta a pieno.

Così il Fiano con il suo colore dorato, il finale da mandorla dolce e con le sue belle morbidezze diventa “Bechàr” dall’etichetta gialla richiamando le sabbie calde e dorate del deserto del Sahara; “Devon” con l’etichetta blu è il greco di tufo il cui colore brillante e le cui spiccate acidità e mineralità ricordano i colori e le durezze del Polo Nord…tutti luoghi che l’appassionato fotografo Antonio ha immortalato nei suoi viaggi. Poi  il “Vigna Isca Riserva”, dedicato all’eccellenza enologica di un vigneto nel comune di Lapio, dà il nome ad un fiano la cui complessità dovuta ai sentori floreali, fruttati e di erbe aromatiche è arricchita in note speziate dolci dai passaggi in legno sia in fase fermentativa che di maturazione.

Briolé” invece è il nome attribuito allo spumante metodo classico riconducendo alla briosità delle bollicine e al taglio briole dei diamanti che ne garantisce la brillantezza: è un pas dosé, sia  bianco (da Fiano) che rosé (da Aglianico) con 2 anni di maturazione sui lieviti. Il “Salae Domini” è l’aglianico ricavato dalla vigna da cui tutto è partito: i toni rossi dell’etichetta vogliono omaggiare il suo colore rosso rubino intenso e la percezione nasale dei sentori di frutti rossi, prugne e marasche, accompagnati da note speziate e di liquirizia. Lo stesso aglianico viene prodotto in versione rosata con il “Rosa Salae”, il cui nome riporta immediatamente al colore rosa tenue cristallino, ai profumi di rosa canina e ciliegia, e alla delicata sapidità che con la vivace freschezza conferiscono al vino una grande piacevolezza.

E non possiamo non nominare il “Fiagre”, vino nato dalle nozze tra Fiano e Greco di Tufo, dal color giallo paglierino, che inebria il naso con frutta a polpa bianca e un accento su fiori di pesco, acacia e ginestra ed il cui sorso è equilibrato, pieno con buona freschezza e persistenza media. Il “Taurì”, un vino rosso rubino, con un aroma che ricorda piccoli frutti rossi e neri, pepe nero e peperone verde, un sapore forte con un’accentuata presenza di tannini e un finale aromatico. E per finire il Taurasi “Vigna Macchia dei Goti”, l’oscar di casa, che Luigi Veronelli battezzò il “vino del cuore” di color rubino, profondo e compatto, ricco e complesso al naso per un insieme di profumi fruttati (prugna e ciliegie), a cui si aggiungono sfumature di liquirizia e boisé, sentori minerali e tostati, impreziositi sul finale da un tocco balsamico. Al palato è caloroso, di ottimo corpo, dove i tannini sono robusti ma ben gestiti garantendogli longevità.

Ci sarebbe tanto ancora da raccontare, ma non vogliamo spoilerare altro per non togliere troppa sorpresa a chi vorrà regalarsi una meravigliosa visita e una degustazione accompagnata da buon cibo. Se poi sarete fortunati, potreste incontrare Antonio Caggiano con la sua Nikon sotto braccio a spasso tra i suoi capolavori d’arte, di terra e di vino… un regalo unico che ricorda la frase di William S. Benwell …“Il suono morbido di un sughero che viene stappato dalla bottiglia ha il suono di un uomo che sta aprendo il suo cuore.”…

Be.Come 2023 : edizione che conferma l’importanza dello “Human-Centered Manufactoring”

Si è svolta a Milano presso il Radisson Collection Santa Sofia la terza edizione dell’evento che vuole puntare sulla centralità del fattore umano nel sistema produttivo nel mondo del vino. Alessandra Montana, founder di Allumeuse Communication, spiega come “ in un mondo pervaso dalla tecnologia, dove ormai i social sembrano obsoleti e si parla solo di Intelligenza Artificiale, Be.Come 2023 vuole affermare con vigore le persone al centro”.

Gabriele Gorelli, Master of Wine e co-fondatore di Be.Come, aggiunge che l’evento ha un appeal “internazionalizzato e internazionalizzante, che sposta su Milano appunto, per mostrare una inconfondibile italianità che vuole fare squadra, confrontarsi ed elevarsi sempre più attraverso tutta quella serie di valori intangibili, ma fortissimi, che circondano il calice.

Un format che ha permesso alle persone del settore intervenute di incontrare, ai tavolini dedicati in una sala adiacente la hall dell’albergo, i produttori in una atmosfera speciale, dove è stato possibile approfondire la conoscenza delle persone e il racconto dei  vini in degustazione.

Silvia Allegrini ha narrato la nascita dell’azienda e le scelte fatte dal nonno Giovanni mentre era in degustazione uno dei loro grandi vini, La Poia 2018, ottenuto da corvina in purezza, un vitigno del territorio capace di regalare grandi emozioni nell’invecchiamento. Un vino figlio di una “annata di luce” (o leggera, più fresca), in cui si apprezzano le note erbacee, i sentori netti e puliti di amarena e prugna, la struttura e la dinamicità del sorso; venti mesi in botti nuove di Allier, otto in botti di rovere di Slavonia prima di essere messo ad affinare i bottiglia per 10 mesi.

Chiara Lungarotti ha testimoniato l’impegno della sua famiglia nella promozione e nel riconoscimento della viticoltura umbra non solo in Italia ma anche nel Mondo. Torgiano Rosso Riserva Rubesco Vigna Monticchio è un vino che sa esprimersi nel tempo, mantenendo l’eleganza. Rubino intenso, con un corredo olfattivo di squisita complessità che si declina in note di mora e marasca, violetta, menta e spezie dolci. Tannino morbido e vellutato, di buona persistenza. Da uve sangiovese che vengono vinificate in acciaio e maturano in botti di diversa capienza per circa un anno, a cui seguono 4 anni di affinamento in bottiglia.

Masciarelli inizia negli anni Ottanta a produrre vino e ad andare in  controtendenza: invece di puntare sugli internazionali, strizza l’occhio al montepulciano d’Abruzzo, l’autoctono per eccellenza della sua regione. Nel 1987 conosce Marina Cvetic che diventa la sua compagna e madre dei suoi figli. Purtroppo scompare prematuramente Gianni e Marina porta avanti l’azienda che attualmente conta su di una presenza femminile al 54% . Villa Gemma è il luogo da dove tutto è iniziato e in degustazione erano presenti sia il montepulciano che il cerasuolo. Due vini di grande espressioni territoriale e veramente emozionanti. Il Cerasuolo 2022 è ottenuto facendo macerare per 12 ore a 4 gradi le uve di montepulciano, ha buona struttura, freschezza e succosità del frutto. Chiusura sapida, perfetto in abbinamento al cibo.

Gabriele Gorelli ha condotto una prima masterclass, in collaborazione con Danielle Callegari, dal titolo “Wanderers above the sea fog” ispirandosi al celebre quadro di Friedrich – Il Viandante della Nebbia- per presentare le etichette che emergono nel panorama del mondo del vino: un percorso davvero emozionante.

La “contaminatio” con le opere d’arte è proseguita nella seconda masterclass, condotta da Gabriele Gorelli MW e Jeffrey E. Porter, giornalista, wine educatore e wine consultant, ispirata dall’opera di Jeff Koons che ritrae una cane fatto da palloncini: proprio il palloncino può essere visto come il simbolo degli obiettivi, desideri e delle aspirazioni. Essi possono alzarsi e sperimentare quel senso di libertà che noi stessi vorremmo provare.

Eric Guido editor di Vinous ha condotto invece la masterclass “Exposing the terroir of Montalcino”: numerose le aziende ilcinesi presenti alla manifestazioni tra cui Altesino, Argiano, Baricci, Castello Romitorio, Castiglion del Bosco, Col d’Orcia, Fuligni, la Magia, Poggio di Sotto, Salicutti, Talenti, Uccelliera. La comunità di Be.Come 2023 ha visto inoltre ampliare il suo orizzonte d’azione grazie all’intervento di partner internazionali: una delegazione di viticultori della Napa Valley, Champagne Morel e De Venoge e due aziende asiatiche, la cinese Silver Heights e la Shinken con i sake spumanti del Sol Levante e l’evento risalta nel panorama degli appuntamenti enoici, sia in Italia che all’Estero, per la qualità e l’innovazione del modo di comunicare il vino.

Sakè: Aichi uno spaccato di Giappone dove si produce l’Houraisen Junmai Ginjo Bi

La prefettura di Aichi conta oltre 7.500.00 abitanti, si trova nella regione di Chūbu, precisamente nella parte centrale dell’isola di Honshū, la più grande dell’arcipelago giapponese, si affaccia sull’Oceano Pacifico a Sud attraverso la Baia di Ise e la Baia di Mikawa ed ha Nagoya per capoluogo.

La morfologia del paesaggio di questa terra spazia dal tratto costiero alle lande pianeggianti, dagli altipiani sino alle montagne innevate, sulle quali domina il Chasuyama coi suoi 1415 metri sul livello del mare. Per quanto rappresenti circa l’1,36% della superficie totale del Giappone, la sua produzione industriale è la più alta di tutte le altre prefetture: Aichi di fatto è il polo manifatturiero, automobilistico ed aerospaziale del Paese.

Si pensi che Nagoya, raggiungibile da Tokyo velocemente con lo Shinkasen, è la terza città più importante del Sol Levante dal punto di vista economico ed ha costituito da sempre uno snodo importantissimo, mettendo in comunicazione Osaka e Kyoto con la capitale, grazie ad una posizione geografica invidiabile che nel tempo è andata corroborandosi grazie al potenziamento ed al progresso costante del porto ed all’installazione di ben due aeroporti.

Il processo storico che ha portato Aichi a diventare la prefettura che è oggi risale almeno al tempo dell’epoca feudale nipponica, periodo in cui esistevano Mikawa ed Owari, province opulente che attirarono con le loro ricchezze e le grandi possibilità di espansione tre daimyō (equivalente di signore feudale) molto famosi.

Ieyasu Tokugawa si stabilì nella prima provincia, mentre Hideyoshi Toyotomi e Nobunaga Oda, quest’ultimo fondatore di Nagoya, nella seconda. Il 24 marzo 1603 Ieyasu Tokugawa divenne shōgun (comandante) ed in seguito pensò di affidare gran parte della provincia di Owari a suo figlio Hidetada, che a sua volta ne stabilì la capitale a Nagoya e che assunse più avanti lo shogunato, facendo prosperare il nuovo centro della provincia grazie alla posizione strategica sulla strada Tōkaidō.

Mikawa venne invece suddivisa tra daimyō che avevano servito fedelmente i Tokugawa, prima del loro accesso al potere. Aboliti gli Han nel 1871, ossia i feudi dei clan che contraddistinsero la storia giapponese per tutto il periodo Edo (ed in parte della Restaurazione Meiji), vennero create le singole prefetture: Owari una volta riunita ad Inuyama diventerà la prefettura di Nagoya, mentre Mikawa, dapprima divisa in dieci prefetture, verrà riunita nella prefettura di Nukara.

Nagoya e Nukata verranno fuse a loro volta nella prefettura di Aichi nel 1872, un modello di fermezza e laboriosità: in questa terra tutto riconduce alla dedizione ed alla fierezza cavalleresca tipica del samurai.

Da vedere assolutamente sono le spiagge della penisola Atsumi, il Toyota Kaikan Museum e la città samurai di Okazaki. Ad Inuyama bisogna visitare il museo all’aria aperta di Meiji Mura, che include edifici storici giapponesi dell’era Meiji ed era Taisho, il parco delle scimmie, il giardino Urakuen e la sala da tè Joan, oltre ai castelli di Nagoya, Okazaki e Toyohashi. La fortezza di Inuyama, ai cui piedi sorge il tempio Sanko Inari ed il santuario di Haritsuna, il castello più antico del Giappone ad essere sopravvissuto intatto a guerre e calamità naturali, mantenendo la sua struttura originale risalente al 1440 ed ultimata il 1537.

Sfoggia tutto il suo splendore sia in primavera che in autunno, grazie ai colori cangianti degli alberi di ciliegio ed acero, ed è un punto panoramico piacevolissimo per osservare il fluire del fiume Kiso. Splendide le passeggiate sino alla Gola di Korankei, il paesaggio presso i Monti Horaiji e le stazioni termali della vicina Yuya, inoltre non manca l’intrattenimento invernale con la stazione sciistica Chasuyama Kogen, la vivacità caratteristica del Capodanno a Osu Kannon e gli strepitosi fuochi d’artificio presso la Baia di Mikawa.

Famoso, infine, il vasellame della città di Seto, le ceramiche prodotte a Tokoname ed i pennelli di Toyohashi, esempi dell’artigianato di questa prefettura inoltre, dalle più semplici ali di pollo fritte alla salsa di miso hatcho, non mancano le specialità gastronomiche le quali includono anche il miso nikomi udon, tipicissimo di Nagoya, e l’hitsumabushi, a base di anguilla. La prefettura di Aichi ha ospitato nel 2005 vi un’esposizione universale sul tema “La Saggezza della Natura” e lo studio Ghibli ha annunciato di voler aprire un parco tematico nel 2022.

Per poter visitare la sakagura ove si produce l’Houraisen Junmai Ginjo Bi bisogna spingersi nell’area interna, verso le montagne, ed arrivare sino alla piccola cittadina di Shitara dove è ubicata la sede storica della cantina Sekiya, fondata nel lontano 1864. Creata dalla famiglia di Takeshi Sekiya, divenuto presidente nel 2010 a seguito della laurea in agronomia conseguita presso l’Università di Tokyo, la sakagura si pose da subito l’obiettivo di portare ristoro ai viandanti che facevano sosta nell’antico borgo ed ai commercianti che all’epoca trasportavano il sale dalla costa all’entroterra.

La mission odierna, nata dalla visione del giovane Takeshi, è quella di diventare il fulcro di una ripresa economica locale attraverso l’agricoltura, sofferente negli ultimi decenni a causa di un ricambio generazionale che manca e che è ripartito attraverso la partnership tra cantina e coltivatori, oltre che l’instaurazione di un nuovo spirito di comunità.

Giallo paglierino molto tenue e di medio corpo, così si presenta l’Houraisen Junmai Dai Ginjo Bi, dai profumi di gelsomino e rosa, mela golden e cantalupo, riso al vapore, guanábana ed una quasi impercettibile nota piperita. Grande equilibrio tra note morbide, la freschezza e sapidità. Persistenza aromatica intensa, breve ma senza essere evanescente, e garbata con un finale leggermente umami.

Un sakè sicuramente fuori dalle logiche del mercato delle sakagura industriali, con un carattere olfattivo tutt’altro che scontato e che non strizza l’occhio al consumatore, anzi richiede la dovuta attenzione per poi concedersi con la sua complessità e piacevolezza senza eccessi. Squisito col cheviche tropical, intrigante con un risotto alle fragole, esalta benissimo il sapore del polpo arrosto allo zenzero.