Irpinia: la storia dei vini di Antica Hirpinia

La storia del vino in Irpinia non può non passare attraverso Antica Hirpinia, cantina legata al capoluogo di una delle regioni vinicole più importanti della Campania. Taurasi, il borgo medievale di origine longobarda, che con la sua rocca presidia la valle del fiume Calore.

Taurasi conquista importanza strategica nel mondo del vino a partire dal 1928, grazie alla ferrovia del vino; da qui infatti partivano i vagoni di Aglianico per rimpinguare la produzione di centinaia di aziende italiane e francesi, allora pesantemente colpite dai danni della fillossera.

La storia di Antica Hirpinia inizia qualche decennio più tardi, nel 1959, prima come Cooperativa Vitivinicola Sociale, poi come Enopolio regionale di Taurasi, quando, nel 1972, si rese necessario sostenere i piccoli contadini viticoltori garantendo la giusta remunerazione delle uve per evitare l’espianto di molti vigneti.

Nel 1992 la cantina prende il nome attuale e l’anno successivo esce la fascetta numero 00000001 della neonata DOCG Taurasi. Al 2016 risale l’attuale forma societaria, grazie a tre amici che rilevano la cantina e danno il via a una graduale ristrutturazione dell’azienda: Alfonso Romano, Benedetto Roberto e Ciriaco Bianco.

Oggi Antica Hirpinia si colloca sul mercato con due linee rappresentative del territorio quali Antica Hirpinia e Anno Domini 1590, senza perdere di vista le richieste del consumatore moderno alla continua ricerca di vini sempre meno muscolari, più fruttati e freschi. Un fattore che rende necessario un cambio di passo, soprattutto in vigna, atto ad assecondare variazioni climatiche sempre più evidenti anche nelle variazioni fenologiche della vite.

Così spiega la filosofia produttiva di Maurilio Chioccia, il consulente esterno che coadiuva Lorenzo Iannotti, enologo interno. Tale lavoro si basa su un patrimonio vinicolo di proprietà di venti ettari, costituito da vigne disperse e piccole, alternate ad un ambiente pedoclimatico variegato, che dà alla produzione un carattere di esclusività. Lo abbiamo toccato con mano in un tour di vigneti che, lo scorso 31 agosto, ci ha portato dalla contrada Arianiello di Lapio – dove sorge il più giovane impianto aziendale di Fiano – fino alle vigne di Aglianico di Fontanarosa, passando per i poderi storici in Località Ferrume (sempre a Lapio).

Sono ancora presenti e produttivi piedi di vite di oltre 100 anni, da cui si ricavano le marze dei nuovi vigneti, e un impianto a raggiera di fiano su piede franco di oltre cinquant’anni. L’attuale produzione della cantina si aggira intorno alle 200.000 bottiglie distribuite sulle due linee. Anno Domini 1590 è la linea che si posiziona sul mercato col prezzo più competitivo, avendo tra i canali di distribuzione anche la GDO.

Prodotta esclusivamente da uve conferite, rappresenta il 60-70% di produzione dell’azienda a seconda delle annate. Con il nome di questa linea, la cantina ha voluto sottolineare il legame storico con la città di Taurasi: al 1590 infatti risale il delitto d’onore compiuto da Carlo Gesualdo, signore di Taurasi e nipote di San Carlo Borromeo, che nello stesso anno stabilì definitivamente la sua residenza in Irpinia.

La linea Antica Hirpinia racchiude i vini top di gamma destinati a enoteche e canale Ho.Re.Ca; è prodotta dai venti ettari di proprietà dei tre soci oltre a quelli di qualche conferitore selezionato. Si aggira attorno a una produzione media di circa 10.000 bottiglie per etichetta, che vanno dalle 4000 unità del Fiano Riserva alle 15.000 del Taurasi. I vini di questa seconda linea sono stati oggetto di una degustazione, guidata dai due enologi della cantina, al rientro dal tour delle vigne organizzato dall’esperta in comunicazione Maddalena Mazzeschi.

I vini bianchi, un ventaglio dei principali vitigni irpini, convincono nell’esprimere il carattere di territorialità: iniziamo con la Coda di Volpe Irpinia Doc 2023, verticale e sapida; a seguire la Falanghina Irpinia Doc 2023, con marcati caratteri di freschezza citrina, il Fiano di Avellino Docg 2023, compatto ed elegante nei sentori di fiori di campo e miele ed il Greco di Tufo Docg 2023 che risalta il carattere salino e sentori di bergamotto.

I bianchi terminano con Desmòs, Fiano di Avellino Docg Riserva 2022, l’unico a prevedere un passaggio in barrique, opulento all’olfatto, ma strutturato e piacevole al palato. La 2023 è la prima prova per l’Aglianico Rosato Irpinia Doc che tra sentori di melagrana e mora di rovo esprime una nota acida non ancora ben bilanciata. Tra i rossi, l’Aglianico Irpinia Doc 2019, evidenzia i caratteri tipici del vitigno, ma con un tannino giovane, a tratti ancora scalpitante, nel complesso moderatamente equilibrato grazie al passaggio in legno grande da 80 ettolitri.

Il Taurasi Docg 2018, maturato esclusivamente in barrique, regala un tannino maggiormente levigato, ma non ancora perfettamente integrato. Il Taurasi Riserva Docg 2014, figlio di un’annata particolarmente piovosa, ha sentori di prugna in confettura, spezie dolci, foglia di tabacco e cenere; coerente al naso ed al palato si abbina con sorprendente piacevolezza al cremoso di cioccolato fondente con confettura di Aglianico e crema di caciocavallo che chiude il pranzo seguito al termine della degustazione.

ANTICA HIRPINIA

Contrada Lenze snc

83030 Taurasi (AV)

Lunarossa: le 7 vite di 7 annate del Quartara di Mario Mazzitelli

Sette vite come i gatti. Sette annate così diverse ed entusiasmanti del Quartara di Lunarossa. Mario Mazzitelli non manca di stupire continuamente con la ricerca spasmodica della perfezione; lo fa andando controcorrente nell’utilizzo di tecniche e contenitori per elevare i suoi vini ad uno status di reperti unici sul mercato.

Parlare di terracotta, sotto forma di orcio anni fa e divenuta adesso prodigio di uniformità con le anfore Tava, saper maneggiare al meglio tale materiale retaggio di uno stile primordiale, è da veri precursori del ramo. Ebbi una folgorazione nel 2015, all’epoca ancora imberbe del mondo del vino mi appoggiavo ad un ristorante purtroppo scomparso che si chiamava Sorso 23. Per i pochi eletti che hanno avuto la fortuna di scoprirlo (la location era a dir poco curiosa, posta nelle vicinanze di una pompa di benzina verso Baronissi), la proposta vini era davvero interessante, curata nei dettagli dal sommelier Alessandro Pecoraro, ex della braceria Terrantica e attualmente in capo a Casa del Nonno 13.

Mario Mazzitelli

Gli studi iniziali

Trascorsi quasi 10 anni da allora, dopo aver incontrato più volte Mario Mazzitelli negli eventi enogastronomici, finalmente ho avuto modo di visitarne l’azienda nata nella filosofia “parva sed apta mihi”. Mario si è prima laureato in Scienze delle preparazioni alimentari a Portici, iniziando a lavorare da un amico produttore a Mirabella Eclano e, successivamente, dall’istrionico Bruno De Conciliis che lo ha avviato alla conoscenza dell’enologia. Nel 2001 passa da Venica & Venica come tecnico di laboratorio, per conseguire l’anno seguente il Master in Viticoltura ed Enologia dalle mani del prof. Attilio Scienza.

L’incontro con Roberto Cipresso

Ormai il tarlo di come realizzare un vino aveva già intaccato la sua mente, avida di nozioni e metodi da apprendere. Ed ecco spuntare Roberto Cipresso che lo volle con sé agli inizi del 2003 a Montalcino per aiutarlo nelle consulenze delle Tenute. Il rientro a Salerno con un bagaglio di esperienze importanti conducono Mazzitelli a lavorare dapprima alla Cooperativa Vitivinicola Cantine Monte Pugliano e, dopo la chiusura, a creare il marchio Lunarossa acquisendo le uve da alcuni conferitori per iniziare a imbottigliare.

Il progetto Lunarossa

Siamo giunti nel 2007 con Lunarossa, e con l’aiuto dell’enologo Fortunato Sebastiano viene concepita l’idea del Quartara, un Fiano vinificato e maturato in anfore di argilla e pietra lavica. Con la dovuta calma, imparando anche dagli sbagli, si è passati anche all’inserimento di legni piccoli di rovere e a calcolare lotto per lotto, parcella per parcella, quali dovessero essere i tempi esatti per ottenere il meglio. Un’opera certosina, impressionante, che lascia di stucco per la modestia del suo autore che non si vanta mai di quanto realizzato con sacrificio quotidiano. Oggi parleremo di 7 annate di un vino icona della Campania, amato da chi riconosce le cose belle di questo mondo che ha ancora tantissimo da raccontare (senza “supercazzole” per carità); temuto e visto con diffidenza da chi si limita ad una visione superficiale o in malafede e preferisce prodotti omologati costruiti ad arte.

A ciascuno il suo Quartara

La degustazione seguirà l’andamento dalla vintage più recente a quelle più lontane nella memoria:

2020: assaggiata proprio per le Festività natalizie, in abbinamento ad un formaggio a pasta molle dell’azienda Kasanna di Nicola Memoli a Sala Consilina, affinato nelle vinacce di uve Aglianico. La linerarità del sorso lascia disarmati. C’è tutto del Fiano, dai fiori bianchi alla polpa di pera e mela per concludere verso un tocco aromatico di spezie dolci. Equilibrio e potenza uniti verso il futuro.

2019: la sosta in anfora prevale nell’espressione resinosa e balsamica con sensazioni di tostature e mandorla essiccata nel finale. Pecca leggermente in lunghezza, mostrando i limiti di un’annata a tratti siccitosa, a tratti troppo fresca nei momenti salienti di sviluppo degli acini e di vendemmia.

2018: bella, scattante, agrumata. Per i rossi italiani è stata in chiaroscuro, ma dai bianchi arrivano numerose soddisfazioni. Emerge la vena minerale tipica del varietale, con nuance iodate di salsedine e pietra marina. Saporito.

2017: pesa il caldo eccessivo, a volte fiaccante. Anche la vigna più forte e resistente alla lunga si chiude a riccio per sopravvivere, a discapito di acidità e note vibranti. Ha ormai detto il suo.

2014: le piogge eccessive hanno influito sulle corrette maturazioni, tuttavia il prodotto finale risulta delicato ed espressivo; un carattere a tratti mordace, quasi un ricordo di catechine, che rendono il vino instancabile al palato (e fortemente defaticante).

2013: ecco il mio colpo di fulmine, eseguito ancora alla vecchia maniera ovvero spingendo con la parte ossidativa in stile orange wine. Alla cieca lo avrei posto ai confini tra Friuli e Slovenia, invece siamo qui nella Provincia di Salerno. Fiori secchi, albicocca disidratata e tanto zenzero e pepe bianco in chiusura. Eterno.

2012: commovente. Dai riverberi di miele di millfiori, pesca acerba ed erbe officinali. Struttura e nerbo in un guanto di velluto. Ancora vivo e scalpitante, il migliore assaggiato finora, anche se la 2020… chissà.

Ave al “tuo” Quartara o Mario Mazzitelli!

“Il Colle del Corsicano” a San Marco di Castellabate (SA): il sogno di una vita di Alferio Romito

Il vino si fa con passione, partendo da un sogno, da un progetto, da un impianto…

“La nostra fanciullezza, la molla di ogni nostro stupore, è non ciò che fummo, ma ciò che siamo da sempre”. Questa frase di Cesare Pavese delinea perfettamente il ritratto del protagonista del racconto di oggi: un giovane viticoltore, Alferio Romito, che da sempre aveva il sogno di potere dirigere la sua azienda vitivinicola, curandone ogni aspetto. Fin da bambino, sui trattori in vigna, aiutava a mandare avanti l’attività di famiglia che da ben quattro generazioni produceva vino sfuso destinato al consumo casalingo o alla vendita.

Alferio Romito

Stiamo parlando della cantina Il Colle del Corsicano e ci troviamo nel cilento e precisamente a San Marco di Castellabate (SA). Qui le verdi colline si tuffano nel blu del mare, baciate dal sole e protette da un microclima favorevole alla viticoltura. Le vigne crescono sul flysch, materiale argillitico friabile con suoli più sabbiosi in prossimità del mare.

Il progetto di Alferio prevedeva la riorganizzazione della vigna di famiglia, impiantando unicamente Aglianico e Fiano; ed è quanto ha realizzato dopo gli studi di viticoltura ed enologia. L’unica eccezione, sono state alcune piante di Primitivo, fortemente volute dal padre, le cui uve vengono adoperate per rendere più smussato e avvolgente l’Aglianico.

Studente del professor Luigi Moio (oggi presidente OIV – Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino), Romito ricorda con emozione il periodo della discussione della tesi, uno dei momenti significativi della sua vita, mentre si chiudeva il ciclo universitario e si impiantava contemporaneamente il Fiano nella nuova vigna a Punta Licosa (tre ettari).

Le sue viti, coltivate in biologico, si sviluppano a pochi metri dal mare, e continuano nella collina denominata, appunto, Colle del Corsicano. Lo sguardo si incanta a seguire le colline vitate con i suoi curatissimi e ordinati filari di Fiano, che sfumano tra blu del cielo e il turchese del mare. La macchia mediterranea con i suoi colori e profumi fa da cornice al quadro magnifico dipinto apposta per incantare gli occhi del visitatore.

I segreti del successo di questa realtà e del suo giovane viticoltore “sono da ricercare unicamente nella cura della vigna”, come egli stesso afferma. Egli cura ogni fase del progetto con fierezza, apertura e professionalità, diventando uno dei punti di riferimento tra i viticoltori cilentani. Nulla è lasciato al caso: l’esposizione dei filari, l’uso della spalliera a Guyot, la potatura verde e la cimatura dei germogli in modo tale da convogliare le sostanze nutritive nel frutto. E ancora: la conservazione della foglia sulla vite per proteggere il grappolo dall’eccessiva esposizione al sole ed evitare l’aumento della produzione dei pigmenti e dei conseguenti fenomeni ossidativi preservando la longevità dei vini, la protezione delle piante dallo oidio e dalla peronospera con trattamenti costanti ed in linea con la coltivazione biologica.

La vendemmia è a mano in piccole cassette, trasportate e lavorate poi con cura in cantina. La sostenibilità è una priorità e si concretizza in vari processi, dalla scelta dei materiali alla produzione tout court.

Nel Licosa, nel Furano e nel Patrinus, le tre referenze aziendali, è chiara l’identità e lo stile che il giovane Alferio sta imprimendo ai suoi vini e la meticolosità nella cura della vigna diventa una garanzia.

Licosa – Cilento Fiano DOC -2022

In purezza. Le uve dopo la raccolta sono immediatamente sottoposte a deraspatura e pressatura soffice; il succo viene poi illimpidito staticamente a temperature di 14-15°C. Si aggiungono lieviti selezionati. La stessa etichetta è una stilizzazione di una foto catturata direttamente da Alfiero. Il vino degustato, di 13,5 % di alcool, ha stazionato 3 mesi in bottiglia.

Il colore è paglierino dai tenui riflessi verdi. Al naso predominano sentori di fiori bianchi, magnolia, acacia ed erbe aromatiche come il timo. Prevale una leggera morbidezza, che lascia spazio a freschezze importanti, presupposto di longevità. Chiude poi una bella sapidità. Riportando il vino al naso, si avvertono, un po’ in ritardo, i sentori di frutta bianca, fresca, a testimonianza della complessità del bouquet.

Licosa- Cilento Fiano DOC – 2018

Seconda vendemmia. Il colore tende al dorato e riempie il bicchiere. Un’intrigante complessità si manifesta subito, con sentori di idrocarburi cui seguono note di frutta a polpa gialla ed erbe aromatiche; una bella mineralità salmastra e persistente, che rende omaggio al territorio. In bocca, il vino, pur mostrando ancora tensione, risulta molto equilibrato e lungo. Presume un buon abbinamento con coniglio imbottito accompagnato da carciofi.

Furano – Cilento – IGP Paestum Aglianico Rosato – 2022

Le uve sono tutte coltivate a Punta Licosa e durante la maturazione giovano della brezza marina proveniente dal mare, denominata “furano” nel linguaggio cilentano. Tali uve vengono vinificate in bianco ottenendo un vino che ricorda la freschezza di un bianco ma con la struttura di un Aglianico. Il colore è un bellissimo e lucente rosa chiaretto. Si percepiscono immediatamente al naso i petali di rosa e la ciliegia. Al gusto, fresco ed avvolgente, risulta al palato morbido e persistente nelle sue note agrumate. Il vino oggi riesce a esprimere una longevità anche di 4-5 anni.

Patrinus – Cilento – IGP Paestum Aglianico – 2021

Composto da 95% di Aglianico ed un saldo di Primitivo. Il vino subisce una vinificazione classica con le bucce che rimangono a contatto con la polpa per 15-18 giorni ad una temperatura di 25 °C. La pressatura è molto soffice per evitare l’estrazione di tannini amari e sgradevoli. Le attenzioni, dalla coltivazione in vigna alla pressatura, consentono di ottenere un Aglianico cilentano con una buona dose di morbidezza. Dall’annata 2023 uscirà con la denominazione DOC Cilento.  

Il nome latino Patrinus richiama il padrino di Alferio, uomo motivatore che lo ha spronato molto nella realizzazione dei suoi progetti. Il colore è un intenso rosso rubino, limpido. Al palato entra molto morbido, con bella ampiezza per poi chiudere ampio. Riempie il naso di piccoli frutti rossi, mora, lampone e ciliegia e sentori di liquirizia. Chiude la confettura di ciliegia. Abbinabile perfettamente con carne tenera di bufalo arrostito oppure con un tonno rosso appena scottato.

Non deve mancare l’assaggio dell’Olio Extravergine di Oliva Corsicano che l’azienda produce, in coltivazione biologica. Proviene dalle cultivar Ogliarola, Rotondella, Frantoio e Leccino raccolte a mano ancora verdi. La lavorazione delle olive in oleificio avviene subito dopo la raccolta, direttamente in giornata, mediante sistema integrale con estrazione a freddo. Presenta un fruttato che ricorda la mandorla, la foglia di carciofo e l’erba appena sfalciata. L’amaro e il piccante sono equilibrati, rendendo il prodotto versatile negli abbinamenti.

I sogni inseguiti con purezza d’animo, competenza e sacrificio portano i risultati e noi auguriamo ad “Il Colle del Corsicano” e ad Alferio Romito di raggiungere vette straordinarie con i suoi prodotti d’esempio per tutti i giovani viticoltori cilentani.

Campania: Cantine Tempere il pregio dell’essere unici

Unicità, un termine usato spesso a sproposito per esprimere un concetto positivo di elemento distintivo nell’arco di un gruppo o di un territorio. Nel mentre tutto sembra essere diventata l’eccezione, con la famiglia Pica titolari delle Cantine Tempere possiamo avere la famosa “conferma della regola”.

Essere unici si esprime nel fatto che in queste zone fare vino non è semplice. Precisiamo: fare vino di qualità e non quantità, come invece richiedevano le usanze dei tempi passati, quando la bevanda idroalcolica fungeva da alimento piuttosto che da salotto, tavolo gourmet od enoteca di livello. Siamo diventati un popolo di sofisticati degustatori, pronti a vivere nuove esperienze sensoriali a qualsiasi prezzo, basta vantarsene con amici e parenti ignari delle sgrammaticature che inevitabilmente seguono in tali dibattiti.

Raccontare un terroir è già elemento dirimente tra le semplici, banali considerazioni e l’affrontare un tema fondamentale nell’analisi giornalistica. Non tutto si può coltivare ovunque: alcune varietà d’uva autoctone si esaltano a dovere meglio di altre, tracciando la strada sicura da seguire anche per il viticoltore profano.

I fratelli Arsenio e Giuseppe Pica sono partiti dal punto zero, pur con antiche reminiscenze apprese dai genitori che producevano e commerciavano uve e vino in Località Tempe a San Pietro al Tanagro (SA), nel bel mezzo dei declivi vicini a Sant’Arsenio nel Vallo di Diano. Riportare in vita le antiche tradizioni è stato il loro scopo aiutati, nei primi passi enologici, dall’enologo Carmine Valentino, pietra miliare dell’eccellenza campana.

Una storia d’amore che si rispetti non poteva dimenticare il successivo ingresso in azienda di Filippo, figlio di Giuseppe, che da avviato imprenditore a Roma coltiva la stessa passione dei germani nel proseguire (ed ampliare) le attività, inclusa la gestione di 5 punti vendita nella Capitale. Dall’Aglianico marchio identitario dei rossi che contano, la sperimentazione è passata nelle mani dell’attuale consulente enologo Alessandro Leoni, che ha puntato sulla vena bianchista dell’immancabile Fiano (dalle alture di Bellosguardo) e sulle bollicine Metodo Classico dal profilo aromatico “internazionale”.

Già 5 gli ettari vitati; si lavora solo ciò che si ricava dalla terra, senza acquistare nulla altrove, per un totale annuo di circa 18000 bottiglie.

Filippo Pica

La degustazione

Brut Rosè Millesimo 2019: progetto iniziato con la vendemmia dell’anno precedente. Sosta sui lieviti 24 mesi, sboccatura gennaio 2023, utilizzando vin de reserve nel dosaggio finale. Cremosità intrigante del perlage e bocca avvolgente tra piccoli frutti rossi e petali di rosa macerati, con crosta di pane in chiusura. Gastronomico.

Fiano Monteroro 2022: prima annata nel 2020, complice l’epoca difficile della Pandemia. Come sempre, e come altri areali in cui attecchisce, il Fiano necessita di tempo in bottiglia per essere giudicato al meglio. Per il momento si chiude a riccio su note fermentative e di fiori bianchi, dimostrando comunque ottima polpa.

Tempere Rosso Aglianico 2018: il puro piacere di bere. Fenomenale nella maturità, gustoso e miscellaneo tra mirtilli scuri, pepe in polvere e china. Tannino croccante e speziato. Inaspettato e vibrante.

Tempere “Primo” Aglianico 2017: i vini di Tempere rispecchiano l’annata, senza omologazione di sorta. La 2017 si esprime nel suo calore complessivo, inclusa una trama tannica impegnativa ancora su toni scalpitanti. Eppure, come per altri casi visti in giro per l’Italia, il gusto resta pulito, certamente potente, ma ricco di sapore e di sfumature da macchia mediterranea.

L’assaggio di una vecchia vintage – la Selezione Aglianico 2011 – fa capire il potenziale d’invecchiamento dell’Aglianico, con puro succo di mora selvatica e liquirizia di eleganza disarmante.

Fino a fine settembre le iniziative di Cantine Tempere prevedono l’aperitivo tra le vigne storiche di famiglia, con degustazioni a tema ed assaggi dei prodotti tipici locali.

Un modo ulteriore per avvicinarsi al concetto di “unicità”.

A che punto siamo con il Fiano di Avellino Docg?

Lapio (AV), 4 agosto 2023Il “Tasting Impossible: la mia prima volta”

Lo scopo dell’evento è stato la degustazione delle prime annate disponibili di Fiano di Avellino Docg dei produttori di Lapio. Le testimonianze dirette dei vitivinicoltori presenti, dai tempi iniziali dell’incredulità circa il potenziale d’invecchiamento, fino alle moderne tecniche di vinificazione per riuscire ad interpretare al meglio questo vitigno, sono stati i momenti più salienti della serata.

Il Fiano di Avellino infatti, con lo specifico areale di Lapio e delle sue contrade, è uno dei vini che meglio si adatta al concetto di zonazione e di territorio. Non vogliamo perdere tempo in chiacchiere sulle eterne (ahinoi) diatribe sul perché tale riconoscimento internazionale tardi ancora ad arrivare. Una vivace polemica tutta interna, che preferiamo non evidenziare per non contribuire a creare pessimismo.

Restiamo, invece, volutamente ottimisti e raccontiamo, in ordine discendente dalla più recente alla più datata, le etichette degustate direttamente dalla narrazione dei produttori.

Laura De Vito presenta Elle Fiano di Avellino DOCG 2018, la prima annata vinificata a venticinque anni dall’impianto delle vigne. Una cantina di recente fondazione che pone il territorio al centro del proprio progetto produttivo. Dichiara la De Vito: “la vinificazione è basata sul principio di zonazione, con tre etichette su quattro che portano il nome delle contrade di provenienza delle uve, oltre una quarta che raccoglie le varie parcelle vinificate in unico blend variabile di anno per percentuali ogni anno. La fermentazione avviene esclusivamente in acciaio, con permanenza di nove mesi sulle fecce fini, affinamento in bottiglia ed uscita in commercio non prima di 24 mesi dalla vendemmia”.

Angelo Silano presenta la sua Vigna Arianiello Fiano di Avellino DOCG 2016.

Angelo racconta che la sua “prima volta” per questa etichetta è stata l’annata 2013. Dato l’intento di voler esaltare al massimo le caratteristiche del territorio, anche Angelo ha lavorato sul concetto di zonazione specificando che “rispetto ad altri vigneti, in quello di Arianiello c’è tanta materia vulcanica.”

La 2014 e la 2015 non sono state prodotte perché le annate eccessivamente calde avrebbero inficiato proprio questa caratteristica. “La 2016 invece, figlia di una stagione equilibrata, ha permesso di mettere in risalto le caratteristiche sia del vitigno che della zona.”

Il campione successivo in degustazione è il Vino della Stella Fiano di Avellino DOCG 2012. A raccontare il progetto enologico è Raffaele Pagano, patron dell’azienda Joaquin, da sempre presente a Lapio e impegnata in progetti di micro-zonazione: “la 2012 non è la prima volta” di questa etichetta, preceduta da una 2009, mentre la 2010 e la 2011 non sono state prodotte”. La 2012 è stata una vendemmia atipica, particolarmente calda, che si è ripresa sul finale permettendo di spingere la raccolta a metà ottobre. Siamo puristi, non usiamo molta tecnologia, non facciamo controllo delle temperature, ci piace lavorare col batonage spinto. In questo caso, inoltre, il vino non fa legno”.

Adolfo Scuotto di Tenuta Scuotto ci ha parlato del Fiano di Avellino 2011, non la prima annata dell’etichetta, che ha un precedente già nel 2010.

“La 2011 è stata un’annata di difficile interpretazione, inizialmente fresca, seguita da un periodo caldo con escursioni termiche importanti, che hanno sviluppato un corredo aromatico molto interessante. La maturazione lenta, la fase vegetativa prolungata e la raccolta delle uve a partire dalla seconda/terza decade di ottobre, hanno fatto il resto nella definizione di questa annata. Il vino fermenta in acciaio ed affina esclusivamente in acciaio e bottiglia”.

Ercole Zarrella imbottiglia per la prima volta la sua personale etichetta di Fiano di Avellino nel lontano 2004. La cantina è Rocca del Principe e l’etichetta degustata è Fiano di Avellino 2010.

“Non ci sono bottiglie precedenti conservate perché non si pensava che il Fiano avesse questa longevità!” La novità dell’annata 2010 sta proprio nel fatto che ne è stata ritardata l’uscita in commercio di circa sei mesi per permettere un miglior affinamento del vino. Un sacrificio non indifferente dato che Ercole, nel perseguimento di un progetto che permettesse la massima espressione del vitigno, ha rimandato di diversi mesi la vendita delle bottiglie, rimanendo di fatto “senza vino”. Anche nel caso di Rocca del Principe è ben chiaro il principio di zonazione e mentre il Fiano degustato è un blend (70% Vigna Tognano 30% Vigna Arianiello), etichette specifiche sono invece dedicate ai cru Tognano e Neviere di Sopra.

Quando arriviamo alla cantina Colli di Lapio, entriamo a pieno titolo nella storia del Fiano a Lapio, contrada Arianiello. Carmela Romano, figlia di Clelia, la Signora del Fiano, ci racconta ancora una volta la storia di un vino, imbottigliato per la prima volta nel 1994,  di cui non si immaginavano i potenziali d’invecchiamento. Per questo motivo non esistono bottiglie che vadano così indietro nel tempo e dunque degustiamo il Fiano di Avellino 2007. Carmela ha scelto questa annata perché è stata una delle più calde e siccitose, più regolare nelle precipitazioni rispetto alla 2003, con ottime escursioni termiche e una vendemmia anticipata ai primi di settembre. Fermentazione in acciaio, affinamenti successivi in acciaio e bottiglia.

Se Colli di Lapio è la storia del Fiano a Lapio, Romano Nicola ne è probabilmente la legenda. Azienda presente sul territorio dal 1988, fortuitamente ritrova alcune bottiglie dell’annata 1989, la prima imbottigliata a Lapio, precedenti dunque all’istituzione della DOCG. Amerino Romano confessa di affrontare il tasting senza garanzie, vista l’età avanzata del vino, ma con grande spirito didattico e di studio condivide con l’intera platea una vera e propria emozione.

Infine Daniela Mastroberardino, Presidente nazionale dell’Associazione Donne del Vino, rappresenta la cantina Terredora situata a Montefusco, ma che a Lapio detiene la vigna dedicata al Fiano di Avellino Riserva Campore, assaggiato nell’annata 2008.

La prima annata di questo vino risale invece al 1998.

“In un momento in cui si lavorava prevalentemente con i vini d’annata, nasce Campore con una diversa impostazione. Dal 1998 e fino al 2002 Campore fermentava per il  50% in acciaio e per il 50% in barrique. A partire dall’annata 2003 la fermentazione avviene esclusivamente in barrique, con una sosta sulle fecce fini di sei mesi. Esce a cinque anni dalla vendemmia”.

Daniela si sofferma a lungo sulle virtù di un vitigno autoctono, il fiano, coltivato in molte parti del mondo ma che trova il suo clima d’elezione ideale nella fredda Irpinia, “isola del Nord appuntata al centro del Sud Italia”. Commoventi, infine, le parole dedicate al fratello Lucio, enologo di grande talento, prematuramente mancato nel 2013.

Albamarina e i vini bianchi di Mario Notaroberto: una storia cilentana fatta di vere passioni ed emozioni

di Silvia De Vita

La cantina del “brigante contadino” Mario Notaroberto e l’espressione dei vini bianchi di Albamarina colpiscono nel segno. Una storia tutta cilentana fatta di vere passione ed emozioni quella che andremo a narrare per 20Italie.

I racconti hanno sempre il loro fascino quando consentono di immergersi in atmosfere talvolta lontane nel tempo e nello spazio. Le parole che li compongono assumono peso, circostanze, significati che in contesti diversi avrebbero tutt’altro senso. Le espressioni, le intonazioni, le pause ne arricchiscono enormemente il fascino. E se poi la narrazione è accompagnata da un calice di vino, arricchita da complici sguardi, l’immersione nel luogo e nel tempo è garantita. Silenzi e pause che contribuiscono a condurre il ritmo, la suspense e l’armonia della composizione, come accade in un brano musicale.

Mario Notaroberto – Albamarina

Ci troviamo nel comune di Centola (SA), nella natura selvaggia del Parco del Cilento, lì dove mare e montagna si incontrano in un trionfo di colori che sfumano dal blu profondo del mare al verde intenso della campagna, con spennellate di macchia mediterranea e profumi intensi di salsedine e piante aromatiche.

Il protagonista è Mario Notaroberto – cantina Albamarina proprietario di splendidi vigneti che si affacciano sul golfo di Palinuro. Un terreno noto agli esperti come flysch cilentano, dove lo strato di argilliti e quarziti di origine marina ha l’arduo compito di assorbire l’acqua piovana per poi restituirla nei periodi più aridi. È un piccolo mondo di storie, di vigne e pensieri: una terra di testarde attese e di cuori resilienti.

La roccia è composta da vari livelli di arenaria, argilla, marna, calcare, e qualcuno sostiene, non solo. Nel tratto a largo della costa del Cilento, due giganti sottomarini, il Marsili e il Palinuro, hanno avuto in passato una attività vulcanica imponente, tanto da far supporre ad alcuni studiosi che il suolo possa avere richiami tipicamente vulcanici.

Mario sviluppa qui la sua cantina su 10 ettari vitati, tra Fiano ed Aglianico e altri vitigni autoctoni cilentani e della Campania (Falanghina, Greco e Santa Sofia). Gli impianti sono del 2009 e nel 2012 è avvenuta la prima vendemmia; l’anno seguente Albamarina è comparsa sul mercato con ottimo consenso dalla critica. Il microclima è particolarmente favorevole e si avvantaggia della brezza marina proveniente dal golfo di Policastro protetta dal Monte Bulgheria in un unico abbraccio.

Di strade Notaroberto ne ha percorse molte dal momento che, dopo gli studi di ragioneria e un lavoro proficuo a Napoli, si è trasferito in gioventù nel Lussemburgo spinto forse da questioni di cuore o molto più probabilmente da nuove ambizioni e ricerca di stimoli. Lì apre il Ristorante Il Notaro che conduce al successo rapidamente, arricchendone la cantina con un numero importante di vini, tali da raggiungere negli anni oltre 1450 etichette. Oggi il business in Lussemburgo viene gestito dai figli Livio e Dario che, dopo gli studi alla Bocconi, hanno deciso di seguire le orme del papà.

La passione per il vino nasce in Mario sin da ragazzo, nella vigna di famiglia. Non ha mai saputo che uva il padre coltivasse, ma ha chiaro il ricordo di questo vino rosso da una varietà francese a detta dei genitori, riportata nel Cilento da un compaesano emigrato con dei “maioli”.

Il risultato era di colore tanto scuro da far dannare la mamma quando una sua goccia macchiava la tovaglia. Molti anni dopo, per caso durante un viaggio a Montevideo, scopre che quell’uva era semplicemente il Tanat, vitigno del Sud Ovest francese, molto tannico, con caratteristiche che si collocano a metà strada tra Aglianico e Sagrantino.

La degustazione improntata sui suoi vini è splendida. Con molta generosità alterna il racconto di Albamarina e della sua storia personale a momenti di assaggi delle diverse tipologie di vino della cantina.

Ad aprire le danze Etèl – IGP Campania 2022, Falanghina proveniente per metà dai terreni di Centola ed il rimanente 50% dal Sannio. Il nome del vino richiama il nome del fiume LETE scritto al contrario, sui cui lembi (ben stilizzati in etichetta) si affacciano, a circa 250 mt di altitudine, i vigneti. Il clone utilizzato è quello del Sannio, impiantato nel 2016 e vinificato per la prima volta nel 2021. L’affinamento avviene in acciaio sulle fecce fini per circa 6 mesi, ed in bottiglia per almeno 3 mesi. Vino di carattere, dalle nuance giallo paglierine e naso inebriante di sentori fruttati. Sorso fresco e di buon corpo, ben equilibrato dal gradevole allungo.

Nerbo e prospettive di longevità per il Nylos, IGP Campania 2021, da Greco in purezza. La dedica è a San Nilo, il cui cammino cilentano, in alcuni punti, segue le vigne di Albamarina. Richiama al naso fiori di ginestra e frutta a pasta gialla. Fresco, ben equilibrato e di buona persistenza.

La degustazione continua con il vino storico dell’azienda, il Fiano IGP Valmezzana. Il nome del richiama la località nella quale viene coltivata l’uva. L’etichetta invece evoca una farfalla per simboleggiare un’esistenza effimera e quindi un vino che va bevuto velocemente perché di vita breve. Invece resiste in maniera superba lo scorrere del tempo!

La verticale proposta denota, infatti, tutt’altro. Le diverse annate di Valmezzana 2021 – 2019 – 2014 – 2013 oltre ad impressionare per l’intensità del colore che vira a mano a mano verso il giallo dorato con riflessi ambrati, sviluppano al naso un bouquet di note agrumate, con fiori bianchi, mughetto alpino e balsamicità. Andando indietro con le lancette dell’orologio emergono le sfumature tostate e mielose del Fiano e una mineralità di forte presenza in bocca. Straordinaria l’evoluzione del Valmezzana in versione Magnum.

Ultimo prodotto in degustazione è il Palimiento, che rappresenta per Albamarina un ritorno al legno in fase di fermentazione e un affinamento per almeno 12 mesi in barrique.

Il nome del vino “Palimiento” richiama “I Palmenti”, le vasche o di cemento o scavate nella roccia, che già in tempi antichi venivano utilizzate per la fermentazione del mosto, rievocate e stilizzate in etichetta con un tratto delicato. La presenza del legno nel processo produttivo ha un impatto nobile sul vino. L’esaltazione della macchia mediterranea e la mineralità vengono percepite senza troppe difficoltà, come se le sue botti fossero state immerse in acqua di mare. Una struttura importante accompagnata da una freschezza e una sapidità rendono la beva elegante.

Un nuovo progetto vede l’espressione del Fiano nelle bollicine – Metodo Charmat e Metodo Classico – presto in arrivo al pubblico. Noi abbiamo degustato in anteprima lo spumante brut Metodo Charmat il cui nome “L’eremita” è un omaggio ad una delle frazioni di Futani “Eremiti”. L’etichetta richiama una rete in cui l’eremita si sente intrappolato, come lo spumante quando è chiuso in bottiglia. Dal perlage fine e brillante con piccoli riflessi di luce dorata.  Al naso richiama sentori di agrumi e frutta gialla non ancora matura, arricchiti da piacevoli note floreali e di lievitazione. La beva ha una buona freschezza e finezza; lungo e pulito il finale.

Il mondo dei rossi e rosati di Albamarina meriterà tempo e dedizione in un’altra visita. Si va via consapevoli della magia appena vissuta e nostalgici delle magnifiche sollecitazioni che più volte hanno stimolato piacevolmente i nostri 5 sensi.

Oscar Wilde diceva “The future belongs to those who believe in the beauty of their dreams.”

Mario Notaroberto, ne è l’esempio vivente…

Merci et à la prochaine! Et ce sera bientot.

“A cena con l’enologo”: Sergio Pappalardo ci racconta il suo Fiano Pelós al Ristorante Mediterraneo a Salerno

di Luca Matarazzo

Nemo profeta in patria. Lo so, a volte mi rendo conto di essere ripetitivo col passare degli anni. Eppure credo sempre di più nella verità storica di questo motto latino: nessuno è profeta in patria, ovvero pochi sanno esaltare le bellezze che abbiamo a due passi dai nostri occhi.

Una di queste è il Ristorante Mediterraneo a Salerno di Carla D’Acunto, giunto ormai alla prima decade dal giorno dell’apertura, motivo dell’incontro a cena con l’enologo (e produttore) Sergio Pappalardo per la presentazione, in esclusiva per 20Italie, del suo Pelós 2021 da uve varietà Fiano.

L’affabile Carla ci accoglie con quel sorriso che solo i grandi del mestiere sanno esprimere. Non un gesto di semplice cortesia, quanto il modo migliore per dirti “benvenuto a casa mia”. Dimentichiamo spesso l’importanza di ricevere un simile trattamento nell’avvicinarci a un esercizio pubblico o comunque vogliate chiamarlo. Ma dalla forma bisognerà poi passare alla sostanza e di questo ne parleremo a breve.

Cominciamo, invece, con raccontare il progetto di Sergio Pappalardo, esperto enologo che ha deciso di cimentarsi in prima persona nel duro mestiere di vigneron. Nel 2018 prende in gestione una vigna a Sorbo Serpico a 500 metri d’altitudine, in Contrada Pascone. Il materiale d’inizio era buono, piante di Fiano del 1994 che però necessitavano di giusta cura e attenzione.

Anche perché Sergio è da solo e deve occuparsi di ogni aspetto produttivo, persino l’etichetta per il suo vino. I suoli sono argillosi, puntati a forte pendenze con rischio continuo di dilavamento a valle durante le piogge. Motivo ulteriore per dover seguire la vigna come un bambino ai primi passi con la mano del buon padre di famiglia.

Ma cosa farne, esattamente, dei grappoli splendidi e luminosi vendemmiati da tale appezzamento? Pappalardo non esita un secondo, seguendo la propria filosofia produttiva improntata sulla ricerca delle pratiche rispettose dell’ambiente e della natura.

Permettetemi, dunque, un lieve brivido pensando ad altre esperienze fallimentari o alla grande confusione esistente attorno al concetto di vino naturale. Tralasciando il termine in sé, bisogna provare per credere, tastare nel calice il prodotto nato da tanta selezione e sacrificio e capire che non possiamo mai avere preconcetti, ma solo verifiche tecniche di chi lavora bene… e chi no.

Le uve scelte per il Pelós 2021 sono state raccolte tardivamente tra il 30 ottobre e il 13 novembre e hanno seguito diraspatura e successiva macerazione in 7 lune di anfora di gres e uova di cemento, durante le quali si sono svolte le principali fermentazioni spontanee alcolica e malolattica. Zero aiuto da anidride solforosa o altre componenti chimiche: alla svinatura e torchiatura di maggio il vino è ritornato negli stessi vasi vinari per 9 mesi e imbottigliato senza nessuna filtrazione, presentato in commercio a giugno 2023 per sole 583 bottiglie numerate.

Quando si crede (sbagliando) sulla stranezza di simili espressioni, alla fine sei costretto a fare ammenda ritornando sui tuoi passi. Non affrontiamo minimamente la tematica del colore, un mix tra ambra lucente e topazio lievemente velato che poco importa ai fini della degustazione. La bellezza del Pelós 2021 sta tutta nella bocca! Possente, fruttata, con quegli aromi tipici di chi sa cosa sia lavorare una delle varietà a bacca bianca più interessanti e avvincenti del mondo enologico.

Le naunce da pesca matura e albicocca, seguite da una vena mediterranea goduriosa tra salvia e tiglio, che chiosa verso mandorla disidratata e nocciola tostata raccontano la completezza del quadro dipinto dal Fiano. Tra mille lo si riconoscerebbe senza esitazioni.

E per un degno re della tavola, non potevano mancare altrettante proposte culinarie dello staff di Carla D’Acunto, come il calamaretto cotto alla piastra con cipolla fresca o gli gnocchetti fatti in casa al sugo di molluschi e pecorino grattuggiato.

Due esempi di perfetto abbinamento, di armonia e di equilibrio esaltati dalla sapidità finale del vino con quella mordenza data dalla macerazione e la morbidezza della vendemmia in surmaturazione.

Si può essere ottimi profeti in patria, basta giocare tra gusto e semplicità.

Ristorante Mediterraneo a Salerno
Via M. Testa, 31
Tel. 089 296 2405
Chiuso il lunedì

I vini dell’azienda JOAQUIN: la “stella” del firmamento irpino

di Carmela Scarano e Ombretta Ferretto

Il 27 marzo, per la prima volta in Irpinia, il Gruppo Meregalli ha presentato il suo catalogo vini “VISCONTI 43” presso Palazzo Filangieri, monumento storico sito in Lapio (AV).

L’evento intitolato 100 vini in cantina ha richiamato l’attenzione di numerosi operatori del settore ed esperti del mondo “wine” da varie regioni del sud Italia. Unica etichetta irpina presente nel catalogo è quella di Joaquin, cantina che ha fatto da patron dell’evento con una masterclass di 4 vini in degustazione presentata da Francesca Auricchio, Sales & Export Manager di Joaquin, dal Wine Hunter Mattia Tabacco (un vero e proprio cacciatore di vini che ha tramutato la sua passione in professione), e dal Master of Wine, nonché Director of Wine di Oenogroup, Justin Knock.

A farmi compagnia durante l’intero arco temporale dell’evento la collega degustatrice Ombretta Ferretto, che ha raccolto e tramutato in forma scritta alcune impressioni salienti della giornata.

Justin Knock ha introdotto la platea sostenendo che la grande complessità di molti vini campani risiede invece nella capacità intrinseca di esprimere il suolo vulcanico da cui provengono. Questo fattore, unito alla responsabilità intrinseca del produttore di immettere il vino sul mercato soltanto nel
momento perfetto per essere goduto appieno, pone la cantina Joaquin ad un livello di eccellenza.

I 4 vini degustati durante la Masterclass sono stati:

  • Vino della stella 2020
  • Piante a Lapio 2018
  • Piante a Lapio no vintage
  • Taurasi riserva della società 2015

Il primo campione, Fiano di Avellino Riserva 2020Vino della Stella”, è un Fiano in purezza da mezzo ettaro circa di vigne poste a Montefalcione, a 550 metri di altitudine, su terreni calcareo–argillosi. Raccolta delle uve nell’ultima settimana di ottobre, al raggiungimento della piena maturità tecnologica e fenologica. Fermentazione e affinamento in acciaio. Esce in commercio non prima di trenta mesi dalla vendemmia. Si presenta di una delicata veste color paglierino dai riflessi dorati, ed un corredo odoroso di fiori bianchi, leggermente agrumati con tostature finali. Sorso fresco, di grande impatto e sapidità.

Il Piante a Lapio 2018 prende il nome dal bosco che si trova davanti al vigneto, acquistato da Raffaele Pagano, proprietario di Joaquin. Si estende su 0,34 ettari con viti centenarie prefillossera. Esce sul mercato dopo 5 anni di affinamento. A differenza del Vino della Stella che fa solo acciaio, il Piante a Lapio dopo un primo affinamento in acciaio passa in botti scolme quasi esauste di castagno e acacia per poi terminare l’affinamento in bottiglia. Più intensi i riverberi dorati nel calice, con profumi di spezie ed erbe aromatiche. Avvolgente al palato, ricco di morbidezze fruttate. Vino signature dell’azienda.

Piante a Lapio No Vintage è invece un blend di due annate in percentuali diverse e precisamente il 14% annata 2014 (solo legno) e il 60 % annata 2020 (solo acciaio).  Il naso vira subito verso frutta gialla matura e poi succo di agrumi per indulgere in sentori tostati accompagnati da sbuffi eterei e minerali. Tanta albicocca, maracujá, nocciola.

Last but not least, l’etichetta definita da Francesca Auricchio “da momenti speciali”: il Taurasi Riserva 2015, proveniente da un appezzamento 1,2 ettari a Paternopoli. Anche queste sono viti a piede franco prefillossera.

Esce in commercio dopo 7 anni, ben oltre i canoni previsti dal disciplinare di produzione, sempre in linea con lo stile della cantina il cui pensiero è quello di attendere il vino. Al calice si presenta rosso granato, con profumi lunghi e complessi che spaziano dal cioccolato al tabacco, con note speziate di cannella, vaniglia e noce moscata. Di carattere, pieno ed avvolgente, con un tannino disteso e vibrante, che ci lascia presagire una lunga vita.