Gaja: una semplice storia di famiglia

di Ombretta Ferretto

“Sono nato a Barbaresco, un piccolo paese di seicento anime, che ha dato il nome al vino”.

Ha esordito così Angelo Gaja all’Hotel Renaissance Mediterraneo, nella lectio magistralis che ha emozionato la platea di appassionati e professionisti del vino. Una narrazione durata quasi tre ore passando attraverso ricordi di famiglia, grandi successi e nuovi progetti.

Passato, presente, futuro sono stati i fili conduttori che hanno intessuto la trama di un racconto di famiglia, iniziato a metà del diciannovesimo secolo in un minuscolo comune della Provincia Granda e giunto oggi a lambire l’Etna, passando attraverso Montalcino e Bolgheri tra le varie tenute in proprietà. Protagonista indiscusso il vino, straordinario portatore di cultura e vero ambasciatore del Made in Italy nel mondo.

Non ha bisogno di presentazioni Angelo Gaja, della quarta generazione di una cantina sita all’indirizzo storico di via Torino, nel comune di Barbaresco. Classe 1940, nipote di Clotilde Rey, maestra di origine francese, e di Angelo, “produttore di vini di lusso e da pasto”, è lui che ha diffuso il nome del Barbaresco nel mondo, proseguendo nell’intento che era già stato del padre Giovanni di “fare un Barbaresco migliore del Barolo” .

La riconoscenza va a nonna Clotilde e al padre Giovanni, i primi maestri a indirizzarlo su quella strada che Angelo ancora percorre, avendo ben chiaro dove ricercare le origini del proprio successo. Si definisce un artigiano, facendo propria una frase della nonna: fare, saper faresaper far farefar sapere. Un elogio al lavoro manuale, che, nel perseguimento di un progetto, deve andare di pari passo all’ingegno, alla capacità di trasmettere l’arte alle generazioni successive e al talento di diffonderlo sul mercato.

L’83% dei viticoltori italiani sono artigiani per cui il motto “piccolo è bello” suona all’orecchio più intonato quando diventa “piccolo è difficile”, ed è proprio in questa prospettiva che Angelo vede ancora il suo lavoro e quello della cantina di famiglia. Alla base del suo progetto i pochi e semplici insegnamenti del padre: pensare fuori dai luoghi comuni, non adagiarsi mai sulle certezze, rispettare sempre il lavoro degli altri. Un progetto che pone al proprio centro il vino come portatore di valori, paesaggi, umanità perché chi sa bere, sa vivere. In questa visione vanno collocate la volontà e la capacità di interpretare altri terroir fuori dalle Langhe.

Al 1994 risale l’acquisizione di Pieve Santa Restituta in Montalcino e due anni dopo di Ca’ Marcanda a Bolgheri: due realtà vinicole estremamente diverse che hanno imposto una riflessione importante sul futuro. Areali vocati a produzione monovitigno (come Barolo, Barbaresco, Montalcino) devono prepararsi ad affrontare le difficoltà crescenti derivate dai cambiamenti climatici: un serio ragionamento sulla vinificazione in blend come pure l’innalzamento dell’altitudine delle vigne sono solo due delle possibili soluzioni che si prospettano all’orizzonte.

L’affezione alla terra impone inoltre scelte di sostenibilità, perché è necessario “imparare a leggere il presente con gli occhi del domani”. La pratica agronomica nelle vigne Gaja già da tempo prevede  l’inerbimento e le fioriture spontanee; il nomadismo apistico favorito tra i filari è indice della buona salute del vigneto. In questa prospettiva di sostenibilità è nata Ca’ Marcanda, a Bolgheri, una cantina  completamente eco compatibile e integrata nel paesaggio rurale, ideata dall’Architetto Giovanni Bo, che ha progettato tutte le cantine di casa Gaja, perseguendo un ideale stilistico incentrato sul sottrarre anziché caricare.

Ombretta Ferretto autore di 20Italie

Angelo ha saputo mantenere il filo conduttore del suo racconto teso tra radici, famiglia e vino come espressione del territorio. Ha concluso parlando a lungo dei figli, Gaia, Rossana, Giovanni, e dell’importanza che riveste all’interno di una realtà artigiana il passaggio generazionale, da curare per tempo e con attenzione, affinché ognuno rivesta il ruolo più adeguato al proprio talento e alla propria volontà di rimanere legati all’attività di famiglia, trovando il giusto equilibrio all’interno di un percorso che, tracciato da tempo, mira a proseguire ancora a lungo.

La successiva degustazione si è concentrata su annate recenti di etichette provenienti da tutti i terroir su cui opera Gaja ed è stata condotta da Tommaso Luongo, Presidente AIS Campania, Franco De Luca, Responsabile della didattica AIS Campania e Gabriele Pollio, Delegato AIS Napoli. E come a voler parafrasare Angelo, che non mette mai il naso nel vino perché il vino preferisce raccontarlo attraverso i luoghi e le persone, ciascuno di questi calici ci ha permesso di immergerci nei rispettivi terroir.

Siamo andati immediatamente sull’Etna, l’areale più lontano dalle origini storiche di Gaja, e al recente progetto di collaborazione con la cantina Graci, in una Sicilia a lungo ammiccata, su insistenza di Giacomo Tachis, e infine raggiunta. È un caleidoscopio di profumi e sapori Idda (Bianco Sicilia dop 2022 Carricante in purezza), “Lei” in dialetto, riferendosi alla natura femminile dell’Etna, capricciosa e al contempo materna. Una passeggiata tra cespugli di ginestra aggrappati a colate laviche solidificate, salino e rinfrescante come il respiro del mare, il sorso appaga senza mai stancare.

Un salto ci riporta indietro in Piemonte, nella Langa di Fenoglio, tra viti raccolte su alberi di frutta, gli alteni, quando la vigna era solo una minima parte delle colture, e i fiori di brassica, che crescono spontanei tra le vigne. Alteni di Brassica (Langhe DOP 2020 – Sauvignon blanc in purezza) è dissetante per la sottile vena di frutto non completamente maturo, ingentilita dalla nettezza dei profumi di sambuco e gelsomino.

Un aneddoto narra che Giovanni Gaja, papà di Angelo, fosse rimasto talmente deluso dalla sostituzione di una vigna di Nebbiolo con una di Cabernet Sauvignon, che passandogli affianco, avesse scosso la testa e borbottato “Darmagi!” (Peccato, in piemontese). Il colore del vino è rosso, sosteneva, per cui, quando fu invece  impiantato Chardonnay, non se ne curò.

Gaia & Rey (Langhe DOP 2021 – Chardonnay in purezza) nasce nel 1983 come omaggio alla nonna di Angelo, Clotilde Rey, ma quando il grafico vide il nome per esteso sull’etichetta, esclamò: “A’m pias nen Clotilde” (Non mi piace Clotilde) e dunque Gaia, allora bambina, affiancò il nome della bisnonna per il primo Chardonnay italiano maturato in barrique. Femminile, elegante, discreto negli sbuffi minerali che riportano alla memoria certi Mersault e si intrecciano alla freschezza calda e avvolgente di agrume candito, che termina in una lunga nota piacevolmente amaricante. Dopo questo sorso, ci sembra quasi di averla conosciuta Clotilde.

Il vino deve essere in grado di restituire il luogo d’origine e dunque la ricerca dei suoi caratteri distintivi deve essere costante. Le vigne di Pieve Santa Restituta crescono a 600 metri d’altezza, per far fronte al cambiamento climatico e all’innalzamento delle temperature. Elegante e snella la 2018 di Rennina (Brunello di Montalcino DOP), tratteggiata dalla balsamicità delicata di origano fresco e timo, è già piacevolmente godibile per la trama vivace ma non invadente del tannino.

Per lo stesso principio di espressività territoriale, le vigne di Ca’Marcanda guardano il mare, godendo del riverbero del sole, mentre i boschi alle loro spalle garantiscono quell’escursione termica necessaria allo sviluppo del profilo olfattivo tipico di questo tratto di costa toscano. Ed è un’esplosione di macchia mediterranea Camarcanda (Bolgheri DOP 2020 – Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc), dove la potenza, governata a regola d’arte, si fa talmente snella e sottile da restituire un tannino setoso su lunghissime scie balsamiche di liquirizia.

Gli ultimi due campioni in degustazione non potevano che riportarci nel Piemonte delle radici e della memoria.

Al naso compatto, scuro, quasi impenetrabile, Sperss (Barolo DOP 2018) evoca già nel nome i caratteri che emergono nei profumi (Sperss significa nostalgia in piemontese). Maschile nelle note di ciliegia sotto spirito, cannella e coriandolo, è sobrio e compatto e mostra il carattere di un vino piemontese di razza, dalla freschezza preponderante e dal tannino che asciuga senza mai aggredire. Ancora una volta l’etichetta celebra una storia di famiglia, perché la vigna di Serralunga da cui sono prodotte le uve di questo Barolo è la stessa in cui Giovanni vendemmiava da ragazzo, ben prima che i Gaja possedessero parcelle di terra nell’areale del Barolo. Solo nel 1988 Angelo riuscirà ad acquisire la vigna, la prima nella denominazione Barolo, la stessa legata ai ricordi della gioventù spensierata di suo padre.

Il Barbaresco 1979 ha concluso l’emozionante serata, tre ore in cui tempo e spazio sono rimasti sospesi nel racconto affascinante dal sapore piemontese di Angelo Gaja. Il tempo sembrava essersi fermato anche per quest’ultimo calice, che solo nell’aspetto tradiva il carico d’anni sulle spalle e neanche in modo così palese. Elegante, perfettamente coeso, in straordinario equilibrio tra la freschezza ancora appagante e le note evolute di sottobosco, ruggine, incenso, ci è sembrata l’immagine trasposta in vino di un uomo straordinario, che ha scritto un pezzo della storia enoica italiana.

Angelo si è soffermato a lungo sul ruolo della ristorazione  nella diffusione della cultura del vino, attraverso la convivialità, l’accoglienza e la corretta comunicazione, e sulle donne, che negli ultimi venticinque anni hanno saputo imporsi come assaggiatrici più attente e sensibili degli uomini.

Tutti devono fare qualcosa nella vita per vivere e sostenersi, ma solo l’artigiano ha un suo progetto nel quale profonde impegno costante; quando il progetto viene realizzato, allora l’artigiano deve diventare un maestro di bottega che trasferisce il saper fare; infine bisogna essere capaci di andare sul mercato e far conoscere il proprio progetto.

L’etichetta minimal nera e bianca ha reso celebre nel mondo il marchio Gaja : il nero idealizza il passato su cui non si può più scrivere e su cui è impresso solo il nome Gaja; il bianco, invece, è al contempo presente e futuro, ancora scrivibili, ma rappresentati attraverso nell’essenzialità delle informazioni d’etichetta.

L’Etna raccontato da Salvo Foti – I Vigneri

di Titti Casiello

Non può mai essere casuale un incontro con Salvo Foti – I Vigneri

Attraverso le sue parole, riservate, pacate e con l’attenzione di chi tiene molto a qualcosa, prende forma il linguaggio di un vino dell’Etna.

“Tengo molto alla mia terra, ma parto dalla possibilità, da quello che vorrei da lei. Poi da quello che intuisco che la natura può darmi. E infine da quello che posso ottenere. Non c’è un’idea precisa, la concretizzo solo quando vivo questi elementi”.

Salvo è uno che nella vita si è fatto un sacco di domande. Uno che più che dare soluzioni, ha creato degli interrogativi “perché non è facile fare un vino di territorio, ancor di più se sei sull’Etna”.

Non basta una facile propaganda in vista di un’elezione politica, ma ci vogliono azioni concrete, cultura  e dedizione e qui, a Milo – nel versante est etneo – le parole concretizzano il loro reale senso enciclopedico nelle scelte fatte da Salvo e dai suoi figli Simone e Andrea.

“Quinconce”, ad esempio, è la concretizzazione di quello che potremo chiamare “vino del territorio”. Non è solo una parola bella, semanticamente parlando, ma anche utile. Il quiquonce è un gioco di squadra, un dado fermo al numero 5, un sistema di allevamento dove le piante sono disposte a intervalli regolari secondo un reticolo a maglie triangolari. E tutto ciò permette alla vite di ben svilupparsi radicalmente e soprattutto ad una maggiore profondità.

Una faticaccia immane la sua gestione, che esclude del tutto la meccanizzazione consentita ad esempio dal guyot (i cui filari iniziano a moltiplicarsi sull’Etna). “In questo modo il vigneto si autoregola come un organismo. Un sistema di coltivazione finalizzato alla meccanizzazione, invece, non può tenere conto di questa biodiversità”.

Salvo è cresciuto in tale biodiversità, prima come figlio di contadini e poi durante i suoi studi di enologia a Catania. E l’ha portata in giro con sé, con le prime consulenze dal Cavalier Benanti agli inizi degli anni 90, e quindi in un susseguirsi di esperienze tra diverse aziende etnee e siciliane. Per arrivare a decidere, nel 2001, di dar vita al proprio personale credo enoico con la sua azienda I Vigneri.

“Perché la vite, per quanto addomesticata, rimane sempre una pianta selvatica, come l’uomo. E se la cultura dell’uomo non è innata, al pari la vite per crescere ha bisogno della mano e della mente umana. Il problema,  però, è che se l’uomo si accanisce, la vite si incattivisce e perde la sua personalità. A quel punto  il vitigno non sa più esprimersi e non riuscirà a farlo neppure il territorio in cui è coltivato”.

Salvo Foti – I Vigneri

Parole, queste, che mi spingono a dire che è di luogo che si dovrebbe discutere, piuttosto che soffermarci sulle varietà coltivate. Il luogo, secondo Foti, diviene interprete di un vitigno. Ci vorrebbe una grande coscienza sociale che vada al di là delle larghe maglie concesse dai disciplinari, e sarebbe opportuno ascoltare ciò che un luogo ha effettivamente da raccontare e conseguentemente da offrire.

Luogo, termine sacro. Non è un caso il nome scelto per la sua azienda. Così facendo rivive, nei suoi vini e nella memoria collettiva, quell’antica maestranza catanese che nel 1435 creò le basi per una professionalità vitivinicola in Sicilia e che oggi si ritrova in una comunanza di idee tra alcuni produttori: i Vigneri, I Custodi delle Vigne dell’Etna, Federico Graziani, il californiano Rhys, Gulfi a Chiaramonte Gulfi, Guglielmo Manenti nel Vittoriese e Daino a Caltagirone.

Costoro sono ormai “in armonia con se stessi e quindi con tutto quello che ci circonda: ambiente, natura, il vulcano Etna, di cui si è parte, e non al di sopra” . Tutti riuniti in onore di un unico credo.

Le viti de I Vigneri sono dislocate su 5 ettari in tre diverse aree della cosiddetta Muntagna, epiteto affettuoso per indicare l’Etna: a Milo, a Castiglione di Sicilia ed a Bronte. Tante viti ultracentenarie, di cui molte a piede franco, con una densità per ettaro da far sembrare i filari un’unica grande linea intervallata da pali di castagno e da muretti a secco, splendide cornici dell’umano lavoro. 

A Milo, ad 800 metri di altitudine nella parte est di Idda, giace il Carricante  dei vini “Aurora”, “Vigna di Milo” e “Palmento Caselle”. A Castiglione di Sicilia, in Contrada Porcaria, troviamo il Nerello (Mascalese e Cappuccio) che canta da soprano con “Vinupetra”;  mentre nel comune di Bronte, nel vigneto più alto dell’Etna, a  1.200 metri di altitudine, nasce un rosato da vigna “Vinudilice” mescolanza di uve bianche e rosse raccolte e vinificate tutte insieme.

Il territorio è impervio, dalle condizioni estreme, tanto che nelle annate più difficili se il vino non raggiunge, in modo naturale un grado alcolico dell’11%, è prodotto in versione spumante con il Metodo Classico “Vinudilice Brut Rosè”.

Ma di tutte le referenze c’è poi quella che esprime a pieno titolo l’idea concreta di un luogo: ed è l’Etna Rosso “I Vigneri”. Ogni bottiglia prodotta porta con se il compito di non far cadere, nell’oblio della memoria, l’antica civiltà vitivinicola etnea e la sua tradizionale vinificazione in Palmento. E che Salvo Foti, fa rivivere con questa etichetta.  

Si segue un indice morale anche nella cantina della famiglia Foti. Non ci sono tecnicismi occulti, o racconti per iperboli. Qui le cose sono rese edibili non appena si varca l’entrata. Anche perché è tutto lineare tra fermentazioni spontanee, travasi che seguono le fasi lunari e affinamenti in contenitori diversi: acciaio, legno e anfora, a secondo della referenza.

Se così è la vigna così è la cantina, una prosecuzione, quanto mai connaturata della filosofia di Salvo e dei figli Simone e Andrea.

Tra i molteplici descrittori che si potrebbero utilizzare per i loro vini, forse quello più rispondente è l’estrema sensibilità umana. Nei calici par quasi sentire la piovosità di Milo, l’irrequietezza del Carricante o la solarità del Mascalese, probabilmente perché i pensieri dei Foti per una sana vitivinicoltura bussano direttamente ai cancelli d’ingresso.

VINUPETRA 2020, ad esempio, è da bere d’un fiato, non da assaggiare. Il vino stesso lo richiede. C’è sangue e umore in esso. Sembra quasi pungente, lasciando una lunga traccia vivida e sottile al palato, in un giocofòrza tra acidità, tannino e sapidità. Qui non si parla di muscolarità, men che meno aria di dolcezze in confettura. C’è ginepro, timo ed il bosco che rumoreggia. Caldo e pulsante come il cuore di ogni essere vivente.