Buona Zuppetta a tutti! In Puglia a San Severo il Natale inizia così…

Natale sta arrivando ed è il momento di mettersi comodi per studiare a puntino il menu da proporre. Se ai grandi classici delle feste ormai triti e ritriti, preferiamo puntare su qualcosa di veramente insolito, dal gusto caratteristico e storico, dobbiamo scavare nelle nostre radici. Oggi, vi portiamo con 20Italie ai piedi del maestoso Gargano, precisamente a San Severo in provincia di Foggia.

Una terra da sempre legata all’agricoltura e al latifondismo, la San Severo del Natale si racconta a tavola con la Zuppetta. Un piatto all’apparenza semplice, eppure cruccio di tutti i veri cultori della gastronomia. Il piatto – ad alto contenuto di lattosio va detto per gli intolleranti – è una sorta di carta d’identità dell’essere figli di questi luoghi. Con Alfredo Mennelli, volto della gastronomia cittadina “Da Alfredo”, abbiamo scoperto tutti i segreti che si celano dietro la preparazione di questo maestoso piatto. Non mancherà, per i wine lovers, uno speciale abbinamento a base di bollicine, tutto festoso.

La storia

In principio era il pancotto. Si, perché la paga di un contadino, nella migliore delle ipotesi, era pane e verdure, che mescolate insieme riuscivano a mandare avanti una famiglia anche per più giorni. Ma i caporali, i cosiddetti capoccia, cosa mangiavano? Grado maggiore vuol dire ricompensa maggiore, allora il loro pancotto si arricchiva di proteine come formaggio e carne. Ed è così che nasce la Zuppetta di San Severo, da una ricca ricompensa. “Unendo il formaggio ecco la zuppetta, il pancotto dei ricchi. Una ricetta all’apparenza facile che mette insieme il pane di grani antichi, scamorza, caciocavallo podolico e tacchino, tutto ciò che i contadini potevano solo sognare”. A dircelo è proprio Alfredo.

La Zuppetta, con gli anni, si è guadagnata il titolo di piatto tipico natalizio perché c’è bisogno di tempo nella preparazione e perché è un piatto che mette a dura prova le massaie. Ma nessuno può farne a meno sulle grandi tavole addobbate a festa. Alfredo, che ha condotto una ricetta proprio analitica sul piatto, ha scoperto ogni suo segreto in modo da creare, assieme ad altri sanseveresi una sorta di disciplinare etico da rispettare. Le fonti, quelle dirette e autentiche, provengono dalla saggezza e dai ricordi degli anziani del paese. “Il tacchino deve essere necessariamente nostrano, grasso e allevato in masseria, perché altrimenti la resa in termini di sapore è diversa. Con le parti migliori, ossa e pelle comprese, bisogna preparare il brodo da cuocere lentamente almeno per tre ore. Chiodi di garofano, alloro, sedano carote, zucchine, tutti sapori semplici ma autentici. Questo composto unito alla carne successivamente sfilacciata, saranno la preziosa essenza del sapore della zuppetta. A ciò dobbiamo aggiungere il caciocavallo podolico garganico, scamorza stagionata e il pane tagliato a fette spesse e bruscato, strato per strato” – continua Alfredo – “Per completare la ricetta ci deve essere anche una punta di cannella, che resta comunque facoltativa in base ai propri gusti”.

La tradizione della Zuppetta resta e si tramanda da generazione in generazione. Custodirla al meglio però, si può ed è per questo che è necessario preservarne la ricetta originale. Ma quale futuro c’è per questo piatto ce lo dice Alfredo Mennelli “Da tanti anni si sta ragionando sulla creazione di un gruppo che ne preservi l’integrità del piatto. Proprio in questi giorni è tornata l’idea di formare una sorta di Confraternita della Zuppetta con un gruppo di sanseveresi innamorati del piatto. Non manca anche la possibilità di inserire il piatto tra i presidi Slow Food”.

La preparazione

La Zuppetta può definirsi una lasagna d’altri tempi perché è tutta una questione di strati. Si inizia dalle fette di pane, adagiate in una comoda teglia rettangolare con un fondo di brodo di tacchino. Cospargere, quindi, con carne, scamorza, mozzarella sfilacciata caciocavallo a fette e ripetiamo, fino a riempire la teglia in altezza. Una volta completato il tutto si va dritti in forno per mezz’ora a 180 gradi per rendere lo sformato filante e dorato e se la parte superiore sembra seccarsi nessun problema, aggiungendo il brodo tutto si inumidirà come da tradizione.

La proposta vino

Il momento fatidico è arrivato: cosa abbinare ad una ricetta di ottima complessità organolettica? Sicuramente ciò che serve è potenza e pulizia al palato, ma per i più romantici anche quella nota di territorio con un prodotto local a chilometro zero non può mancare. Ecco perché questo piatto – che per i sanseveresi è quasi una religione – va abbinato a qualcosa che parli di “casa”. In una terra in cui le bollicine sono il biglietto da visita per finezza e unicità, la nostra scelta va sull’azienda Pisan Battel. L’etichetta nata dal pensiero di Antonio Pisante e Leonardo Battello, è un omaggio all’autoctono, ma anche all’evoluzione della bollicina sanseverese, biglietto da visita di questa città e di questa terra quasi di confine. Per la Zuppetta abbiamo scelto il Metodo Classico Brut da Bombino Bianco da 24 mesi sui lieviti: gli aromi raffinati al naso e un palato audace reggono alla grande la succulenza e untuosità della Zuppetta. Morso dopo morso, sorso dopo sorso, senza troppi pensieri. Perché in fondo, la tavola delle feste deve essere armoniosa, leggera, frizzante. Proprio come ciò che ci aspetta al calice.

Buona Zuppetta di San Severo a tutti voi!


La mia idea di sfoglia a mano ed i suoi molteplici usi in cucina

La Romagna è una terra di mezzo, ed è inevitabile attraversarla e fermarsi. Chi non ha mai assaggiato un piatto di pasta fresca fatta in casa o sentito e letto di Pellegrino Artusi?
Lui, romagnolo doc nato a Forlimpopoli, letterato e gastronomo, autore del libro “la scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”. La sfoglia, regina della cucina romagnola, in passato era una certezza di un pasto caldo, forse l’unico tipico di ogni famiglia.

Saperla tirare a mano, può sembrare strano, era una buona dote di ogni futura sposa. Compito della ‘zdora, la donna più anziana della casa, tramandare quest’arte alle fanciulle. La zuppa preparata con quel che c’era ha lasciato poi il posto alle minestre: da noi, in bassa Romagna per minestre si intendono sia paste in brodo che asciutte. Come si sa questa terra è piena di campanili ed ognuno ha il suo suono, così come le ricette di casa, aggiustate di sapore, utilizzando il meglio disponibile.

Ma con il boom economico avviene il passaggio a piatti più ricchi, quali paste asciutte con ragù importanti di carne o pesce. Quella parte di anima romagnola che è in me continua grazie alla mia nonna paterna, che quotidianamente, china sul tagliere, impastava farina e uova, ricavandone un disco sottile, giallo, rotondo come il sole. Sapientemente tagliato nascevano tagliatelle, tagliolini, pappardelle, quadretti, maltagliati, reginelle, pestini e monfettini. Le mani pizzicavano la pasta che si trasformava in farfalle, garganelli, strichetti o cappelletti finti. Quando era possibile avere ricotta fresca, parmigiano reggiano, patate e zucca o spinaci, si preparavano vere prelibatezze: tortelli, cappelletti, sfoja lorda e le immancabili tagliatelle.

Artusi cita il detto “conti corti e tagliatelle lunghe” a dimostrare che la padrona di casa aveva saputo impastare una massa importante di uova e farina per una grande sfoglia. Il mio impastare è un rito antico carico di ricordi. Dopo aver impastato si lascia riposare la massa omogenea per rilassare la maglia del glutine. Poi si tira la pasta che non vuol significare lanciarla come a volte mi sono sentita dire scherzando… Lo strumento da utilizzare è il mattarello (forse dal latino mateola ovvero mazza) che serve per distendere e assottigliare l’impasto. Era lo scettro dell’azdora, regina del focolare, colonna portante della famiglia che aveva a cuore il buon andamento, anche economico, del parentado.

Oggi la cucina non è solo nutrimento o tradizione; è arte, fantasia, oltre alla ricerca della materia prima, ed è soprattutto accostamento di sapori in armonia. Insomma il piacere del gusto! Un piccolo segreto del mestiere? Provate ad aggiungere all’impasto finale delle erbe aromatiche, dei fiori eduli, spezie e quel che serve a dare colore. Anche l’occhio vuole la sua parte.